“Leggere la realtà di oggi con le lenti di ieri può indebolire la nostra capacità di comprensione dell’oggi”
Il professore Luca Ricolfi è conosciuto per essere un esperto economista, ma riesce ad offrire interessanti contributi di natura diversa come questo sulle rivolte studentesche di questi giorni, pubblicato su Il Giornale del 15 maggio scorso (Quell’inutile nostalgia del mitico ’68, 15.5.24, ilgiornale.it). Sostanzialmente, la nostalgia del passato è un sentimento potente, che si accentua con la vecchiaia, scrive Ricolfi e “leggere la realtà di oggi con le lenti di ieri può indebolire la nostra capacità di comprensione dell’oggi”.
E questo sta capitando a tanti oggi, estasiati dal dilagare in tutto l’Occidente delle proteste studentesche, specie nelle università. In pratica secondo l’economista di Torino, “abbiamo passato anni a denigrare i giovani delle ultime generazioni descrivendoli come fragili, sdraiati, bamboccioni, pigri, disimpegnati ma ora finalmente le manifestazioni contro il «genocidio» che Israele sta perpetrando a Gaza mostrano che quella diagnosi è sbagliata”.
Pertanto, pare che ora i giovani dell’Occidente “sono tornati a essere idealisti, proprio come lo eravamo noi sessantottini quando ci battevamo contro la guerra in Vietnam, lo sfruttamento in fabbrica, il baronato, l’autoritarismo, la repressione et cetera: un caso da manuale di «proiezione», direbbe forse uno psicanalista incaricato di esaminare la mente di noi ex sessantottini”.
Tuttavia, questo parallelo per Ricolfi non regge, i numeri dei manifestanti sono molto diversi, nel ’68 erano in tanti a protestare, oggi chi protesta sono poche centinaia di persone, inclusi adulti infiltrati o giovani chiamati a raccolta da altre regioni. Per quanto riguarda il consenso verso le proteste, almeno dai pochi sondaggi disponibili rivelano (specie negli Stati Uniti) che il sostegno alle occupazioni delle università è estremamente ridotto.
Mentre per quello che riguarda la guerra tra Israele e Hamas, l’opinione pubblica è molto divisa nell’attribuzione delle responsabilità del conflitto. A questo punto sarebbe interessante capire cosa pensano i cittadini e in particolare gli altri studenti che non manifestano né partecipano a occupazioni (oltre il 99%).
Inoltre, Ricolfi constata un’altra differenza importante rispetto al ’68, è che allora “non c’era competizione vittimaria, oggi sì”. Anzi, per Ricolfi, “oggi la competizione vittimaria è l’essenza dello scontro ideologico in atto”.
Di che si tratta, in pratica succede che in questa guerra, “entrambe le parti del conflitto hanno ragioni solide e perfettamente visibili per autopercepirsi come vittime di oppressione, violenze, gravissimi soprusi […] Questa doppia o speculare condizione di vittime, nel ’68 semplicemente non c’era”. Praticamente, oggi, scrive Ricolfi, “sia i palestinesi sia gli israeliani hanno robuste e incontestabili ragioni per sentirsi vittime.
Di qui una conseguenza logica: chi scende in piazza a sostegno di una delle due parti, e lo fa ignorando completamente le ragioni dell’altra, si macchia di disumanità. Disumano è il silenzio senza pietas dei pro Israele sulle sofferenze inflitte ai palestinesi con l’invasione di Gaza, disumano è il silenzio senza pietas dei pro Palestina sulle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre”.
Quindi secondo il professore vedere nella protesta pro Gaza di oggi una riedizione del ’68 è errato.
Sulla stessa questione delle manifestazioni studentesche qualche giorno fa è intervenuto anche Marco Invernizzi, responsabile nazionale di Alleanza Cattolica, che, a sua volta, fa riferimento a Federico Rampini che sembra convinto che invece quello che sta succedendo, almeno negli Stati Uniti, potrebbe essere visto come un nuovo Sessantotto.
Anche perché, allora come oggi tutto cominciò nelle università americane. Allora come oggi a protestare sono i giovani “figli di papà” che si scontrarono con i figli dei più poveri, come sottolineò uno scrittore comunista come Pierpaolo Pasolini.
Allora come oggi fu una guerra a essere l’occasione del contagio rivoluzionario: il Vietnam dei vietcong e del Nord comunista allora, ai giorni nostri Gaza. Tuttavia occorre aggiungere che da qualche tempo nelle università americane, c’è un virus che corrode la cultura occidentale, quella cancel culture già molto operativa in Usa, meno (fino a quando?) da noi in Europa.
Del resto questo fattore non è una novità: decenni or sono Joseph Ratzinger denunciava l’odio di sé che distrugge l’Occidente.
Interessante l’accostamento proposto da Invernizzi con la situazione attuale. “Allora il nemico erano i fascisti, oggi sono gli israeliani. I fascisti veri erano pochissimi, ma erano una scusa per colpire chiunque si opponesse alla contestazione. Così oggi gli israeliani sono pochi milioni in un oceano islamico, e soprattutto non c’entrano nulla con le università americane. Che senso può avere cessare ogni collaborazione accademica con università israeliane? Perché intimidire i pochi studenti ebrei presenti?”
Del resto nelle rivoluzioni, “l’importante è fare circolare l’odio nel corpo sociale, – scrive Invernizzi – mettere in moto quella volontà di sovvertire, per quanto confusa, che garantisce il conflitto, di classe o di generazione (fu così nel ‘68), così come oggi contro gli ebrei e contro il “Grande Satana” occidentale”.
Nel 1968 nelle scuole e nelle università venne diffuso l’odio contro il “fascista”, chiunque si opponesse o criticasse l’avanguardia rivoluzionaria veniva escluso dalla società civile. Ne fecero le spese soprattutto poliziotti e carabinieri, magistrati e uomini politici, intellettuali, tanti giovani di destra e cattolici non di sinistra. L’importante era seminare odio, qualcosa poi sarebbe accaduto. Lo sviluppo e l’esito della Rivoluzione antropologica avvenuta nel ’68 viene descritta nel bel libro di Enzo Peserico (Gli anni del desiderio e del piombo, Sugarco editore, 2008)
Siamo incamminati anche oggi su questa strada? Il futuro ce lo dirà. Quel che è certo è che allora sia il mondo cattolico sia il mondo conservatore capirono poco o nulla di quanto stava accadendo e si lasciarono dividere dalla contestazione, impiegando decenni prima di elaborare una risposta adeguata.
Sarebbe bene non ripetere lo stesso errore.
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