Qualcosa di positivo
Una antica tattica di governo prevede questi passi: prima creo dei problemi per tutti; poi promuovo le reazioni che pongono alcuni contro altri armati; infine presento una soluzione che concilia le opposizioni e con una azione politica impegnativa conquisto così il potere di governo: una sapiente dialettica, sintetizzabile nell’aforisma Dìvide et ìmpera – dividi e governi – che farebbe di me un leader accettato e riconosciuto. Più sbrigativamente, potrei anche riuscire a impormi con la forza, ma in questo caso diventerei un dittatore temuto e aborrito.
Non è però tollerabile un governo tirannico, il cui giogo di violenze genera egoismi, rende estranei gli uni agli altri e semina mancanza di fiducia reciproca; né si può gestire il potere seminando disinformazione, provocando rivalità, fomentando discordie, creando confusione, instillando paura.
In ambito politico e sociologico, Dìvide et ìmpera è la sintesi della diplomazia che mira alla creazione e al mantenimento del potere attraverso la divisione delle forze di opposizione: è una costante della storia, dai tempi del padre di Alessandro Magno, quel Filippo II, che regnò dispoticamente tre secoli prima di Cristo sul ribollente crogiolo di popoli balcanici diversi, chiamato Macedonia. Ma già cinque secoli prima di Cristo un generale cinese aveva comandato, tra l’altro: Quando il nemico è unito, dividilo. Non sappiamo, oggi, se Filippo II avesse letto L’arte della guerra del mitico Sun zu. Quel che sappiamo, invece, è che fu la strategia del Dìvide et ìmpera a rendere Roma grande per un lungo momento. E sappiamo anche questo: in quella Roma, che allora governava dividendo, una voce autorevole fu messa a tacere dalla congiura proditoria di Bruto e Cassio alle Idi di marzo del 44 avanti Cristo: era la voce di Giulio Cesare, che aveva intimato: Si non potes inimicum tuum vincere, habeas eum amicum – Se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico.
Questo pensiero, come scrive Raimondo Luraghi nella sua Storia della guerra civile americana, fu fatto proprio, 19 secoli dopo, da uno dei Presidenti più alti degli Stati Uniti d’America, non solo per i suoi 193 centimetri di statura, ma per l’acutezza del suo sguardo che spaziava sul mondo intero, là ove le sorti stesse della democrazia erano in gioco. Era Abramo Lincoln, membro dei Rosacroce, di quell’Ordine che si diffuse dal primo quarto del 1600 con la pubblicazione di Fama fraternitatis e, qualche mese dopo, con quella di Confessio fratertinatis.
Di questo sentimento si è parlato il 10 giugno dello scorso anno nel Meeting mondiale della fraternità umana “not alone”, nel corso del quale in Piazza San Pietro a Roma Papa Francesco ha richiamato la propria enciclica Fratelli tutti nel passo in cui dice che la fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Sono beni sociali, questi, incardinati, peraltro, nella nostra Costituzione, i quali, aprono a forme di governo non gestite sulla divisione, che genera ostilità, ma sulla condivisione, che genera pace, di cui sempre più si sente la esigenza nel mondo attuale, dilaniato dalla violenza e dalla guerra.
Si vales, vàleo.
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