Quante e quali scelte post 1989 potrebbero ridiscutersi?
Il conflitto che in queste settimane sta contrapponendo la Russia all’Ucraina apre nuovi e importanti scenari. Nonostante nel corso degli ultimi decenni il mondo abbia conosciuto diverse sanguinose guerre, lo scontro tra Russia e Ucraina (con al fianco gli USA e i relativi alleati, Nato e Unione Europea, a cui il governo guidato da Volodymyr Zelensky era intenzionato ad aderire), per rilevanza degli attori e delle poste economiche, geopolitiche e militari in gioco, è destinato a rappresentare, se non uno spartiacque della storia, certamente un punto di svolta che inciderà su una pluralità di aspetti.
Tra questi, per importanza, si intravede un indicativo rafforzamento del ruolo e della centralità degli stati sovrani e, con essi, un rinnovato primato della politica sull’economia che, perlomeno nelle nazioni occidentali, sembrava significativamente tramontato.
Infatti, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e principalmente dopo la caduta dei comunismi avvenuta nel biennio 1989-’91, l’indirizzo politologico prevalente ha sottolineato la vittoria del capitalismo (specie quello rappresentato dalle grandi multinazionali) e dei commerci sulla politica e sugli stati nazionali, messi in difficoltà nella loro capacità di assumere decisioni da un mondo iperconnesso e oramai strettamente interdipendente nelle sue varie parti, oltreché dominato da c.d.a. di potentissime società per azioni, da indici borsistici, spread e fondi d’investimento capaci in pochi secondi di spostare milioni di dollari da un capo all’altro del pianeta.
Per dirla con Tuccari (che sul punto si richiama al lavoro di Karl Polanyi, La grande trasformazione, pubblicato nel 1944), se fin dal principio delle “comunità umane, l’economia era sempre stata incorporata (embedded) e subordinata alla politica, alla religione e ai rapporti sociali”, con l’avvento dell’industrializzazione è intervenuto un capovolgimento in conseguenza del quale l’economia – concepita alla stregua di una “forma di mercato capace di autoregolarsi e di garantire una ricchezza crescente e diffusa” – ha incorporato, modellato e subordinato le relazioni sociali e politiche (F. Tuccari, La rivolta della società, Laterza, 2020, p. 5), nonché plasmato la stessa concezione ultima delle finalità dello Stato che, non a caso, nella sua accezione liberista si accontenta di rappresentare poco più che un arbitro che ha si limita ad assicurare una corretta competizione fra gli operatori economici.
Contestuale al predominio di un capitalismo dalle diramazioni internazionaliste, in diversi autori si è diffusa la tendenza – che in taluni si è trasformata in auspicio – che fosse in atto un sostanziale superamento degli stati sovrani, talvolta associato all’intenzione di creare un vero e proprio “mondo nuovo”, plurietnico e multireligioso, in cui le tradizioni nazionali e locali dovrebbero venir soppiantate da una mescolanza interculturale, meglio se accompagnata da un diffuso ateismo atto ad anestetizzare le differenze religiose, lasciando in ultima istanza sussistere un unico e decisivo fattore relazionale: il denaro.
A voler essere maggiormente precisi, la tradizione del pensiero politico che si augura il travalicamento degli stati sovrani (in perenne competizione fra loro) e l’avvento di una comunità globale, viceversa portatrice di pace, è riconducibile al filosofo Immanuel Kant (1724-1804) che, con il saggio Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784) e con lo scritto Per la pace perpetua (1795), prevede che il corso naturale della storia – accompagnato da un generale disegno della Provvidenza – avrebbero condotto a una “repubblica universale”.
Chi giunge anche a preannunciare commerci capaci di travalicare i confini (e nei loro auspici idonei ad assicurare la pace) è il pensatore elvetico-francese Benjamin Constant (1767-1830). Parimenti, lo stesso progetto politico degli Stati Uniti d’Europa (solo in parte sovrapponibile all’attuale Unione Europea), ha alla base il superamento delle realtà statuali e l’intensificazione delle relazioni produttive sovranazionali accompagnato dalla convinzione che, proprio un maggiore interscambio tra i popoli, avrebbe avuto per effetto la pace (in tal senso, si veda il Manifesto di Ventotene pubblicato nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi).
Più di recente, in questo solco si colloca la riflessione sviluppata dal politologo americano Francis Fukuyama che, nel testo La fine della storia e l’ultimo uomo (Rizzoli, Milano, 1992), ritenuto archiviato il periodo della Guerra fredda, profetizza un futuro caratterizzato dal tramonto dei grandi conflitti internazionali e dalla vittoria del capitalismo e delle democrazie liberali che gradualmente avrebbero conquistato tutte le nazioni del pianeta.
In effetti, il mondo post 1989 è cambiato, interconnettendosi economicamente, culturalmente, politicamente ed etnicamente in maniera impensabile anche solo verso la metà degli anni Settanta del Novecento. Gli esempi che si possono addurre sarebbero centinaia, basti pensare all’evoluzione di quella che era la maggiore azienda automobilistica italiana, la FIAT, accorpatasi prima con il colosso americano Chrysler, quindi con la multinazionale FCA, dando così vita al gruppo olandese Stellantis che controlla i marchi Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Citroën, Dodge, DS Automobiles, FIAT, Jeep, Lancia, Maserati, Opel, Peugeot, Ram Trucks e Vauxhall, o – da un punto di vista istituzionale – dove la nascita dell’UE ha, se non surclassato, certamente fortemente ridotto gli spazi d’azione degli stati aderenti (basti pensare al Fiscal Compact, approvato nel 2012, che ha condotto, tra gli altri aspetti, alla modifica dell’art. 81 della nostra Costituzione e all’introduzione del c.d. “principio di pareggio in bilancio”).
In altri termini, dopo la caduta del muro di Berlino, il mondo è diventato – per ricorrere ad un ossimoro – un “villaggio globale”, ma non per questo (purtroppo) è risultato meno pacifico. Solo per richiamarne alcune, le guerre sono state una cupa costante degli ultimi tre decenni: Jugoslavia, Ruanda, Somalia, Yemen, Iraq-Kuwait, Libia, Sri Lanka, Liberia, Siria, Afganistan, oltre a diverse lotte etnico-religiose, come quelle che hanno coinvolto il Nepal, le Filippine, Palestina e Israele e adesso – naturalmente – il conflitto tra Russia e Ucraina che sta lasciando, oltreché morte e distruzione, pesanti strascichi di sanzioni economiche per cui “noi” (europei-occidentali) non commerceremo più con “loro” (Russia e rispettive nazioni amiche) e ripenseremo le nostre politiche di approvvigionamento in tema di materie prime con rinnovato spirito autarchico nell’intento di renderci autonomi da influenze straniere.
Cosicché, dopo decenni in cui le decisioni statali avevano spesso pedissequamente aderito alle scelte dell’economia, toccata nei suoi interessi geopolitici più vitali e nell’asso di pochissimi giorni, la politica ha voluto e quindi saputo imporre considerevoli restrizioni agli scambi commerciali e finanziari, bloccando transazioni da e per la Russia che arrecheranno rilevantissimi effetti anche sulle economie degli stessi paesi occidentali.
Ciò non rappresenterà di certo la fine dell’internazionalismo e dell’interculturalismo (figlio, tra gli altri, del Washington Consensus, dei modelli di vita trasmessi da Hollywood, dall’omologazione consumistica di prodotti commercializzati e reclamizzati in ogni dove nel mondo, piuttosto che dal pensiero unico divulgato dagli adepti di “Davos”) però, soprattutto se la Russia dovesse uscire dal conflitto rafforzata e non viceversa sconfitta, ne ridefinirà (e non di poco) i confini.
Inoltre, questo improvviso mutamento della strategia politica (che potremmo definire “quasi antropologico”), che con mirate scelte legislative opportunamente concordate tra un discreto numero di stati ha nei fatti inchinato (e inchiodato) l’economia ai voleri degli stati sovrani, lascia perplessi e fa nascere spontanea la domanda se allora, nell’ultimo trentennio, la politica non abbia voluto, piuttosto che non saputo o potuto governare almeno parte dei fenomeni della globalizzazione, magari perché a quelle élites economiche e politiche mondialiste veniva comodo così.
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