WhatsApp non può essere imposto ai lavoratori. A dirlo la FP CGIL a seguito di diversi contenziosi.
Da alcuni anni a questa parte ognuno di noi è inserito in almeno uno o più gruppi, ad esempio di WhatsApp, composto da colleghi di lavoro.
Moltissimi contenziosi ne sono scaturiti perché, purtroppo, su internet la gente si sente libera di dire ciò che vuole, financo diffamare, calunniare o oltraggiare un collega.
Dalla Funzione Pubblica della CGIL, perciò, hanno tenuto a precisare che “La normativa, che è stata recentemente aggiornata, conferma che, di norma, per le comunicazioni inerenti il servizio, non si devono utilizzare piattaforme digitali o social media“.
Questo, ovviamente, ha significato perché nessuno può obbligare un lavoratore, ed un cittadino in genere, ad avere degli account digitali, un indirizzo di posta elettronica, oppure un device per le comunicazioni.
Dal Sindacato fanno altresì chiarezza sul fatto che “l’inserimento di un collega in un gruppo senza la sua autorizzazione è considerato come una forma di comunicazione o diffusione di un dato illecita e quindi penalmente perseguibile, secondo l’articolo 167, capo II – illeciti penali – intitolato “Trattamento illecito di dati” del Decreto Legislativo numero 196/2003 Codice in materia di protezione dei dati personali“.
Questo è in linea con il fatto che “non costituisce un obbligo del lavoratore quello di far parte di una chat“.
Per non incorrere in problemi e per non essere considerati reperibili, anche quando non lo si è, “vanno prese le distanze da qualsiasi forma di chat nella quale vengano diffuse comunicazioni inerenti l’attività lavorativa“.
È bene che un giornale seguito da lavoratori, come “Civico 20 News“, diffonda notizie utili alla vita corrente.
Il Tribunale Civile – Sezione Lavoro – è oberato di cause di lavoro che, con un minimo di attenzione, si possono evitare.
Ci riserviamo di tornare sul tema.
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