
Perché mantenere il cognome del marito dopo il divorzio?
Mi rendo conto che abbiamo cose molto più gravi a cui pensare, ma la nostra ministra del Turismo non smette mai di stupirci. Lasciamo da parte i processi, le vicende finanziarie più o meno complesse e più o meno fortunate vissute dalla nostra ineffabile signora Daniela Garnero Santanchè, dei suoi guai con l’I.N.P.S., dimentichiamoci per un momento dei patetici discorsi sulle sue borse (che tra l’altro non mi pare sia l’unica a possedere), del suo amico Ignazio che non l’abbandonerà mai e … Alt! Invece già qui bisognerebbe fare una pausa, perché ciò su cui vorrei soffermarmi con un sorriso è la sua difesa dell’autonomia femminile e la sua battaglia sulla parità dei sessi soprattutto in ambito lavorativo. Quindi, tanto per cominciare, lasciamo stare Ignazio e difendiamoci da sole, suvvia, senza bisogno di nessuno, soprattutto di un uomo.
E passiamo all’altra questione, ancora più curiosa: quella del cognome.
All’anagrafe, quindi anche nella sua qualifica di ministro della Repubblica, la signora in questione risulta chiamarsi Daniela Garnero, nata a Cuneo nel 19… e mi fermo perché non è carino dire l’età delle signore, soprattutto se collezionano borse così importanti (o forse solo costose, chissà). A ventun anni la giovane cuneese andò sposa del chirurgo plastico Paolo Santanchè, conosciuto quando si rivolse a lui per rifarsi il naso. Dopo la visita galeotta, il matrimonio, durato dal 1982 al 1995. Poi ognuno prese la sua strada. Ma ecco che in sede di divorzio accade qualcosa di strano: pare che in un’intervista rilasciata dal chirurgo a Il Sole 24Ore nel 2013, l’uomo abbia affermato di avere concesso alla sua ex-moglie, su sua esplicita richiesta, di continuare a portare il suo cognome anche dopo il divorzio perché – così giustificò la sua richiesta la ex signora Santanchè – all’epoca Daniela era conosciuta nel jet-set come sua moglie, cioè come la consorte di un medico piuttosto noto, soprattutto in quel mondo. Non solo: pare che la signora Daniela Garnero abbia sostenuto che lasciare il cognome Santanchè le avrebbe procurato dei danni, perché nessuno la conosceva con il suo cognome da nubile. Ed ecco che, in seguito ad un accordo giudiziale, secondo l’intervista, il buon Paolo le concede di fregiarsi ancora di un cognome che evidentemente le fa molto comodo. Peccato che non sia il suo.
Fin qui, i fatti, del resto credo già noti a molti. Niente di così importante, in fondo, ma una pensierino forse lo meritano. Se vuoi essere davvero un esempio per le donne che vogliono emanciparsi dalle regole di un mondo del lavoro in gran parte maschilista, innanzitutto forse non dovresti abbassarti a compromessi di questo genere: se vuoi crescere autonomamente, dimostrare che non hai niente da invidiare a nessuno, tanto meno il genere diverso, comincia a mostrarti con il tuo nome e con le tue capacità, senza nasconderti dietro il ruolo di “moglie di”, anzi peggio ancora “ex-moglie di”. Nessuno conosce il tuo cognome da nubile? Meglio, per certi versi. Magari impiegherai un po’ di tempo in più, ma se avrai successo l’avrai ottenuto con il tuo nome, tuo e soltanto tuo. Personalmente ritengo questa opzione di gran lunga migliore; ma è un’opinione, naturalmente. Sarà che detesto le facilitazioni, soprattutto in un mondo come il nostro, dove qualsiasi forma di impegno serio e continuo, qualsiasi ricerca di approfondimento e di valutazione ponderata sulla complessità dei fatti è vista con sospetto ed antipatia. Tra l’altro durante un suo discorso alla camera la ministra Santanchè ha ricordato suo padre come ottavo figlio di una modesta famiglia contadina che le ha insegnato che si ruba solo quello che si nasconde: e lei la sua ricchezza e soprattutto la sua collezione di borse non la nasconde. Tra l’altro mi chiedo perché mai qualcuno dovrebbe nascondere la sua ricchezza o non portare le borse che preferisce; ma forse ciò che sfugge alla nostra Daniela è la differenza tra ricchezza e ostentazione della ricchezza, meglio ancora il concetto di “sprezzatura” che il Castiglione ha così ben spiegato nel suo Cortegiano.
Ma sarà meglio scendere dalle vette del Rinascimento e tornare alla questione del cognome. Se è tanto orgogliosa di suo padre, perché mai la nostra ministra non vuole portare il suo nome? Meglio, perché vuole completarlo con quello dell’ex- marito chirurgo? Del resto, tot capita, tot sententiae.
A ben pensarci, mi viene anche un sospetto; che la ministra-imprenditrice abbia forse voluto attuare una forma di sottile vendetta a nome di tutte le donne discriminate sul lavoro? Il cognome del chirurgo-bene viene usato un po’ come cognome-oggetto, così come tante rappresentanti del gentil sesso. Può anche darsi; e non è da escludere che la scelta sia stata efficace ai fini del suo successo. Ma non è trattando un cognome come un oggetto che si dimostra di aver imparato la lezione che nulla, non solo il corpo delle donne, va trattato in modo così irrispettoso. Tra i primi obiettivi educativi presenti nelle scuole italiane di ogni ordine e grado ce n’è uno molto importante: rispetto per le cose e per le persone. Cognomi compresi. Ma può darsi che la nostra Daniela non sia arrivata a tanta perfidia.
Io non ne farei u a questione. A suo tempo lei ha chiesto al marito il permesso e lui l’ha concesso. Punto.In seguito sarebbe stato difficile cambiare il cognome. Del resto è quello che ha fatto Letizia Moratti. Ed anche la mia è x cognata jugoslava che ha preferito mantenere il nostro cognome che riprendersi il suo.