Originario delle Valli di Lanzo, muore a Torino il 13 marzo 1672
Appartenente a una famiglia originaria di Lanzo, figlio del giureconsulto Gaspare, nasce a Torino nel 1602 e si laurea in legge all’Università di Torino nel 1622; lettore presso l’Ateneo di Torino, dal 29 settembre 1625 ricopre la carica di decurione comunale.
Dal 1612 la sua famiglia è proprietaria di una vigna in corrispondenza dell’attuale corso Casale, ai piedi della collina di Torino, Villa d’Agliè. Gianfrancesco Bellezia la eredita dal padre, la utilizza come residenza alternativa a quella nel centro della città, un rifugio durante l’epidemia di peste a Torino. Già Villa Morel, di origini seicentesche, è una delle poche ville torinesi ad essere rimasta pressoché immutata sino ad oggi; il suo ampio giardino è entrato dal 2007 a far parte del Registro dei Giardini Storici grazie alle sue origini seicentesche e alle modifiche per mano dell’architetto paesaggista Russel Page. Nella villa sono state girate alcune scene del film La donna della domenica (1975) di Luigi Comencini.
Torniamo al Bellezia. L’inizio della sua ascesa è legato all’appassionata ed energica opera di magistrato (inizialmente quale Sovrintendente alla Sanità, dal settembre 1629 come Sindaco), in un momento di carenza dei pubblici poteri e di grave pericolo per la città, come quello della ricomparsa della peste. Dal 25 settembre 1632 è chiavario nel Consiglio comunale ma, per circa tre anni, limita la sua attività alla pratica legale e solo il 7 giugno 1635 vede riconosciuti i suoi meriti di giureconsulto, con la nomina a consigliere, senatore e avvocato patrimoniale generale della Camera dei conti.
Dopo la resa di Torino alla Francia (20 settembre 1640), egli appare la persona più adatta e viene “eletto per il più francese di tutto il consiglio” a trattare con il Richelieu una riduzione dei contributi della municipalità torinese al quartiere d’inverno francese.
Carlo Emanuele II, che procede con persone a lui fedeli nell’opera di ricostruzione della burocrazia scompaginata dalle vicende della guerra civile e della reggenza, lo chiama il 31 marzo 1656 a presiedere il contado di Asti e il marchesato di Ceva e ad assumere l’ufficio di conservatore generale degli ebrei; nel giugno 1657 lo designa a presiedere il Senato e il Ducato di Monferrato.
Storicamente originale ed interessante è la sua posizione nel 1661, di fronte alla ripresa del conflitto con i Valdesi: pur avallando dal punto di vista giuridico gli eccessi repressivi attuati dal Marchese di Pianezza, Bellezia ritiene che la questione esorbiti dagli stretti limiti di una questione interna allo Stato e che non si possa esaurire in un’azione di polizia; suggerisce il contenimento della propaganda antivaldese e una abile opera diplomatica nei confronti dei popoli protestanti.
Morì il 13 marzo 1672, viene sepolto nella chiesa dei Santi Martiri, in via Dora Grossa (oggi via Garibaldi).
Si era sposato nel 1620 con Margherita Lupo, figlia di un uditore di camera; in seconde nozze, nel 1626, con la figlia di un decurione municipale, Bianca Cuneo. Bellezia, che negli atti testamentari figura insignito del titolo comitale, non lascia prole maschile e istituisce eredi di cospicue proprietà immobiliari a Torino e di avviate attività agricole il nipote, conte Piossasco Asinari di None, e i suoi fratelli.
Di lui, ci sono rimaste due orazioni in latino: Oratio ad solemnia Sacri Pedemontani Senatus auspicia, Torino 1663, in cui attribuisce erroneamente la costituzione del Senato di Piemonte alla data del 20 marzo 1561; e un discorso (Ad Sacri Pedemontani Senatus auspicia peroratio, Torino 1671).
Nella Sala del Consiglio del Comune di Torino (detta “Sala Rossa”) sulla parete a destra dell’ingresso, è situato un ritratto non datato, attribuito a Bartolomeo Caravoglia, di Gian Francesco Bellezia, nella veste di Sindaco mentre infierisce la pestilenza che, (si legge a piè del quadro) imperversò dal 29 settembre 1629 al 29 luglio 1630. Questa epidemia uccide circa 8.000 torinesi e causa un esodo che ridurrà la popolazione a soli 3.000 abitanti. Bellezia rimane sempre a Torino, anche quando la città è abbandonata da Casa Savoia, rifugiatasi a Cherasco, e da tutti gli altri magistrati. Colpito egli stesso dalla peste, affronta con risolutezza tutte le emergenze, tra cui l’isteria popolare nei confronti dei presunti untori e gli episodi di sciacallaggio.
La sua figura è ricordata nei Ragionamenti di Cesare Cantù.
Torino lo ricorda con la intitolazione, nel 1807, di una delle vie più antiche nella zona del “quadrilatero romano” e collocando, nel 1866, una lapide presso la sua residenza cittadina, al numero 4 dell’attuale via Bellezia.
Un medico illuminato e contemporaneo a lui, racconterà tutto quel che conosce sul morbo, in un trattato del 1631 dal titolo «Della peste e del pestifero contagio»: si tratta di Giovanni Francesco Fiochetto. Come premio alla sua abnegazione, durante l’epidemia torinese, il Comune decide di pubblicare l’opera a proprie spese, perché sia diffusa in tutto il Ducato. Il libro verrà ristampato nel 1720, quando una nuova epidemia decimerà la non lontana Marsiglia.