Di Aldo A. Mola
Le onde sono quelle di sempre, ora impetuose, persino rabbiose, ora sommesse. Talvolta il mare è assolutamente piatto. Si coglie appena il fruscio dei flutti che si adagiano lievi sulla riva. Lì, sedendo e mirando l’azzurro delle acque e del cielo, si percepisce il tempo, se ne ode la voce tragicamente uguale nei millenni: alternanza di progressi quotidiani falciati da scorrerie, guerre, devastazioni, pestilenze. Se le Alpi sono “un destino”, come ha magistralmente scritto Paul Guichonnet, altrettanto lo è il mare per la Liguria, una terra aspra, dalle genti indomite dai tempi degli Intimili e degli Ingauni.
I Romani faticarono secoli a raggiungerla e a soggiogarla. La via Aurelia, una tra le arterie più importanti dell’impero, impiegò quasi tre secoli per allacciare l’Urbe con il confine geografico tra l’Italia e la Provenza. In “Le vie della civiltà” Hermann Schreiber (ed. Odoya) ricorda che due volte il suo tracciato aggirò gli ostacoli naturali, le paludi costiere e l’impervio Appennino del Levante, strapiombante sul mare. La via Aurelia dapprima, con Gaio Aurelio Cotta, dal quale prese nome, si interrò sino a Lucca, per poi recuperare la riva a Luni. Con Emilio Scauro si addentrò sino a Tortona e da lì raggiunse Vado Ligure. All’attuale Ventimiglia arrivò per celebrare la vittoria di Caio Ottaviano sui Liguri con l’erezione del Trofeo delle Alpi a La Turbie, dominante il Forum Julii (Fréjus).
Augusto stabilì i confini della IX Regio d’Italia, la Liguria. Andava dalla costa alla destra del Po e dal Magra al Varo. L’imperatore aveva una visione chiara e lungimirante del “territorio”: il litorale, che dalla Lunigiana conduce alla Provenza, e il retroterra, che, svalicate le Marittime e gli Appennini, porta alla pianura padana.
Qual era ed è, dunque, l’identità della Liguria? Quale la sua missione?
Lo narra il Festival internazionale della Cultura mediterranea in corso a Imperia con la regia di Luciangela Aimo.
L’intuizione di Augusto non resse al crollo dell’Impero romano in occidente. Il legame fra il mare e l’entroterra fu reciso. Nacque una selva di feudi. La loro intestazione risultò in molti casi poco più che nominale. Nei secoli anche i Liguri avevano guardato il mare a viso aperto. Però con l’esplosione dell’Islam esso divenne orizzonte da scrutare con tremore perché da lì arrivava il nemico: i “saraceni”, spietati. Dinnanzi al pericolo, in Liguria, più che in altre terre della costa settentrionale del Mediterraneo, il “potere” si frantumò in spicchi affacciati sulle acque, ma ormai forti per il retroterra più che per vocazione marinara. I borghi rivieraschi comunicarono via mare più che per strada, sino al completamento della ferrovia costiera nel 1872, appena 150 fa. L’impoverimento del commerciò scoraggiò la produzione agricola e artigianale su larga scala, intirizzì gli usi linguistici e frenò la circolazione delle idee.
La vita quotidiana costò fatiche crescenti. Genova ebbe storia a sé stante. Le maggiori città della Liguria (Ventimiglia, Savona, La Spezia e, appunto, Porto Maurizio e Oneglia), vissero sulla difensiva, sino alla micro-svolta climatica e politica del Due-Trecento, di cui beneficiò la vicina Provenza càtara. Secolo dopo secolo, come narra Claudio Costantini in “La Repubblica di Genova nell’età moderna” (Utet), la Superba s’impose sulla riviera, a eccezione del marchesato del Finale, spagnolo dal 1598 e acquistato da Genova solo nel 1713. Per schierarsi definitivamente a fianco di Carlo V, Andrea Doria ottenne il dominio su Savona (1528). Dall’entroterra i duchi di Savoia continuarono le “infiltrazioni” sulla costa, più aggressive dopo l’elevazione a re, di Sicilia prima, di Sardegna poi: un rango che di per sé imponeva una politica marinara di alto livello. A iniziò Ottocento, in tre lustri in Liguria cambiò tutto. La repubblica del 1801, l’annessione all’Impero napoleonico nel 1805, che impose il francese negli atti pubblici, e quella alla Corona sabauda, come ducato di Genova, nel 1814 dettarono la sua unificazione e l’avvento di una nuova dirigenza. Porto Maurizio e Oneglia tuttavia rimasero divise e talora arcignamente contrapposte in “cacelotti” e “ciantafurche”, come da secoli. Alla Camera subalpina e, di seguito, in quella del regno d’Italia i portorini furono rappresentati da Giuseppe Elia Benza, Giuseppe Airenti, Carlo Alfieri di Magliano, Tommaso Celesia di Vegliasco, Giuseppe Berio, Giacomo Pisani, Domenico Nuvoloni. A Oneglia si susseguirono Carlo Ricardi, Giuliano Bonavera, Alessandro Bianchi, Terenzio Mamiani, Casimiro Ara, Giuseppe Bianchi, Bartolomeo Borelli e nuovamente Biancheri, Bianchi, Borelli, Giuseppe Berio e Giacomo Agnesi. L’eliminazione dei collegi uninominali (1919) precorse di poco la costituzione di Imperia (21 ottobre 1923) ma non propiziò l’avvento di una dirigenza condivisa. L’unione fu come lo stemma della Marina, che comprende gli emblemi di Genova, Pisa, Amalfi e Venezia: una somma per non fare torto a nessuno. Nel maggio 1945 i “tirailleurs” francesi, accorsivi quale avamposto-presupposto di rivendicazioni territoriali (come irrompevano dal crinale alpino), dovettero sgombrare per intervento del presidente degli USA, Harry Truman.
Da allora mareggiate e bonacce si sono alternate, tra ricostruzione e ricerca di più ampi orizzonti. Le spalle al sicuro, come la costa del Mediterraneo settentrionale da Gibilterra agli Stretti, immensa area al riparo dell’“ombrello della Nato”, anche in Liguria il mare è tornato dominante. Però l’altra sponda del Mediterraneo non è ma stata divisa e oggetto di mire di grandi potenze come all’inizio di questo Terzo Millennio. Perciò si avverte più acuta l’assenza di una visione unitaria della politica estera e militare dell’Unione Europea, poco più che un “nome geografico” come dell’Italia diceva il cancelliere Clemens von Metternich. Senza indulgere a superate nostalgie di “Mare Nostrum”, vi è motivo di ragionare, anche con il voto dell’8-9 giugno, sull’Europa che verrà, su una “cultura mediterranea” fondata sul confronto tra diversi come a inizio del XIII secolo insegnarono il sacro romano imperatore Federico II Staufen, “stupor mundi”, e il suo contemporaneo Francesco d’Assisi, che non esitò a varcare il mare per predicare in “terre lontane”: per comprendere, non per dominare e vessare.
Aldo A. Mola
GUSTAVO STRAFFORELLO, IL PORTORINO CHE INSEGNÒ LA PATRIA
Nel poderoso volume “I Luoghi letterari: paesaggi, opere, personaggi” (ed. Sugarco, 1971) l’eruditissimo Gianpaolo Dossena galoppa dalle Alpi occidentali a Gorizia e, in sequenza alfabetica, da Abano Terme a Zoagli, ma della Liguria, a parte Genova, ricorda sbrigativamente solo Lerici, La Spezia, Sestri, Rapallo, Camogli, Nervi, Varazze, Savona, Spotorno, Varigotti, Albenga e Ventimiglia. Il mite poeta dianese Angiolo Silvio Novaro rimane nell’oblio, inzuppato dalla “Pioggerellina di marzo”. Potendo scegliere tra i grandi scrittori di Oneglia e di Porto Maurizio o che nei suoi pressi furono ospiti (basti per tutti Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la letteratura e massone, di passaggio nell’ufficio tecnico di Imperia) Dossena li ignora tutti. Eppure… Eppure non vi è che da scegliere, come insegnano Franco Bianchi in “Imperia. Cento anni, cento personaggi illustri”, Renato Pilade in “Imperia e l’Italia dei Comuni” (ed. De Ferrari) e G. Amadeo in “Imperia la nostra città”.
Tra i tanti scrittori nativi della futura Imperia spicca De Amicis (Oneglia, 1846-Bordighera, 1908), l’“Edmondo dai languori” che, molto prima di “Cuore” (1886), si impose con libri di viaggio a Parigi e in Spagna, ove andò per farla conoscere agli italiani mentre Amedeo di Savoia, duca di Aosta, secondogenito di Vittorio Emanuele II, ne assumeva la corona di re. Dopo “Amore e ginnastica”, che conobbe strepitoso successo, nel pieno della grande emigrazione De Amicis scrisse “Sull’Oceano”, a conferma della vocazione marinara della sua gente. Per molti (come documentò Ferruccio Macola) il grande balzo dall’Italia alle Americhe spesso causava terribili sofferenze fisiche e morali. De Amicis lo narrò invece come orgogliosa sfida dell’“itala gente da le molte vite” (Carducci). Il mare era transito e liberazione. Come da secoli.
Il Mediterraneo ispira da sempre Luciangela Aimo, diplomata maestra all’“Amoretti” di Imperia, a lungo docente, promotrice nel 2001 del Comitato San Maurizio, e ideatrice della Fiera del Libro che, anno dopo anno, è cresciuta a “Festival internazionale della cultura mediterranea”, con la partecipazione di tanti ospiti e di piccoli e grandi editori. Alla Fiera si accompagnano “Dalle Alpi Congusto”, rassegna di arte e sapori delle Alpi Marittime, e “Natura&Benessere”. Il Festival è un ventaglio di interessi e di discipline, compresa l’Oasi del Gusto coordinata da Claudio Porchia, autore di apprezzate guide gastronomiche e stratega dei “Ristoranti della Tavolozza”, tappe immancabili per chi voglia esplorare in tutte le sue varietà la cucina ligure-piemontese all’insegna della genuinità. La buona tavola è punto di aggregazione tra cultori della “bagna cauda”, testimonianza dell’incontro tra il mare e l’entroterra, e quelli della “trippa”, un “piatto” all’apparenza poverissimo, negletto, ma nondimeno prelibato e ricercato come la “finanziera”, succulenta attestazione che “non si spreca nulla”. Anche le frattaglie possono divenire incanto del palato. Poesia: che vuol dire “fare”.
Luciangela Aimo è netta nell’illustrare la “missio” della Fiera letteraria del Mediterraneo: la parola stampata è volàno del turismo di qualità, una sfida vinta nel 2015 quando Imperia assurse a Città del Libro. Raccontare e raccontarsi sono tutt’uno. Imperia lo fa affrontando al Festival temi scomodi: l’ambiente, la salute, la povertà incalzante e la guerra, che giorno dopo giorno irrompe nella vita delle persone, strappate da antiche certezze e costrette ad assumere responsabilità individuali e collettive. Di lì, anche, la scoperta del bisogno di unione civica e di solidarietà nazionale, all’opposto di faziosità, ripicche, litigiosità che impoveriscono la vita politica e culturale e si ripercuotono sulla libertà degli scrittori e, più in generale, sulle arti e le scienze.
Perciò chi è consapevole della centralità del pensiero politico ed economico e della “spiritualità” sa quanto siano preziosi gli “esempi” (ricordiamo i classici dell’antichità da Polibio a Svetonio) e rimane stupefatto dinnanzi alla proposta di privare il Capo dello Stato della facoltà di nominare senatori a vita “cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” come vuole la Costituzione (art. 59). Quella prerogativa è una delle lodevoli eredità nella Carta repubblicana dello Statuto Albertino, che prevedeva che il sovrano nominasse senatori vitalizi “coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrato la Patria” (articolo 33 comma 20). Davvero lascia di stucco che qualcuno in Italia ritenga che i presidenti della Repubblica susseguitisi da Luigi Einaudi a oggi si siano proprio sbagliati nel nominare senatori vitalizi personalità che tutti gli Stati e le civiltà ci invidiano: da Rita Levi Montalcini e Carlo Rubbia a Norberto Bobbio e Renzo Piano. Toscanini rifiutò la nomina, forse perché ricordava che nel 1919 si era candidato alle elezioni in lista con Mussolini… Quei “Patres” non sono certo meno meritevoli né meno memorabili delle migliaia di parlamentari “eletti dal popolo”: un “popolo” che spesso non si è mostrato altrettanto lungimirante dei propri rappresentanti in Parlamento. Non si capisce dunque in che modo il Capo dello Stato possa ledere la sovranità popolare nominando cinque “illustrazioni della Patria” nel corso del suo mandato.
A promuovere in Italia la coscienza della Patria, della sua unità e delle sue radici profonde fu un poligrafo portorino meritevole di memoria: Gustavo Strafforello (Porto Maurizio, 12 luglio 1818-4 marzo 1903). Ne sintetizziamo opere e giorni. Iniziato al giornalismo nei primi anni Quaranta dell’Ottocento, nel fatidico 1848 si trasferì a Torino, ove pullulavano giornali e riviste. Entrò in dimestichezza con Angelo De Gubernatis, orientalista di fama mondiale, docente di sanscrito, fondatore del Museo indiano a Firenze e della Società asiatica italiana e autore di una storia della letteratura italiana in ben venti volumi. In collaborazione con l’editore torinese Giuseppe Pomba, Strafforello tradusse i più prestigiosi romanzieri europei e le scrittrici inglesi Diana Louisa Macdonald e George Eliot (pseudonimo di Mary Anne Evans), il cui romanzo “Romola” tradusse (1868). Nelle versioni di libri originariamente scritti in danese, russo e tedesco a volte Strafforello si valse di traduzioni in francese. Adattò le opere al gusto del pubblico (o a quello che riteneva tale). Scrisse persino una biografia di “Shakspeare (sic!) e i suoi tempi” e una pionieristica “Letteratura americana”.
Tra i suoi successi va ricordata la traduzione dall’inglese di “Self-Help” di Samuel Smiles (1859) con l’indovinato titolo “Chi si aiuta, Dio lo aiuta” (1865), che arrivò a vendere 150.000 copie (le celebri “Odi Barbare” di Carducci non superarono le 2.000 copie e i romanzi di d’Annunzio si fermavano intorno alle 5.000). Mentre Smiles invitava all’etica rigoristica d’impronta calvinista, secondo la quale il successo è dimostrazione dello “stato di grazia”, nella versione, molto rimaneggiata, Strafforello cercò di conciliare l’etica del lavoro con la morale d’impronta cattolica. Confutò la contrapposizione tra capitale e lavoro propugnata dai rivoluzionari, esortò all’operosità e invitò a scommettere sull’industrializzazione quale fonte di progresso.
Fautore della conciliazione tra la Chiesa di Roma e la civiltà moderna (l’opposto di quanto sostenuto dal Syllabus pubblicato nel 1864 in appendice all’Enciclica “Quanta cura” di Pio IX), legò il nome a un profluvio di opere pubblicate dai più rinomati editori (Barbera, Treves, Paravia, Bocca…), alla direzione del “Dizionario universale di geografia e storia compilato da una società di scienziati” e ai nove volumi di “Le grandi scoperte e le loro applicazioni”.
Enciclopedie e collane di classici delle letterature di ogni epoca e paese in volumetti di bassissimo prezzo, accessibili anche ad artigiani, agricoltori e operai specializzati, promossero il piacere della lettura e la diffusione del sapere negli anni dell’ampliamento del diritto di voto da 600.000 a 3.000.000 di maschi maggiorenni e della proliferazione di associazioni, società di mutuo soccorso, piccolo credito e dei primi partiti “di massa” dal ceppo di Garibaldi e della Sinistra storica, giunta al governo nel 1876. Nel 1902 l’infaticabile Strafforello pubblicò “Governo e partiti all’inizio del nuovo secolo”, mentre anche storici e sociologi stranieri (Bolton King, Thomas Okay, Giacomo Novikov…) studiavano il “caso” dell’Italia: un Paese che aveva superato la sconfitta nelle avventure coloniali e si stava avviando a una visione pacifica dell’espansione commerciale, come insegnava il giovane Luigi Einaudi in “Il principe mercante”. Mentre alcuni, anzitutto negli Stati Uniti, erano convinti che “il commercio segue la bandiera” e che dunque occorreva puntare sull’espansione politica militare, Strafforello riteneva che la bandiera segue il commercio o, se si preferisce, è inalberata sulle navi e/o innalzata dalle truppe inviate a propiziare le relazioni tra Europa e mondo afro-asiatico all’insegna della reciproca conoscenza, senza presunzioni di superiorità razziale o religiosa.
L’opera più importante di Strafforello sono infine i 32 volumi di “La Patria. Geografia dell’Italia”, pubblicati dall’Unione Tipografia Editrice di Torino in fascicoli periodici raccolti in 32 volumi fra il 1890 e il 1905 (i due ultimi uscirono postumi). Ogni fascicolo propose il panorama esauriente delle peculiarità geofisiche dei vari “compartimenti” del Paese e il patrimonio storico e monumentale di ogni città meritevole di segnalazione per opera d’arte o per aver dato i natali a personalità eminenti. “La Patria” costituì la prima esaustiva ricognizione dell’“Italia delle Cento Città”: un invito a viaggiare, vedere, capire. Date alla mano (esse sono l’attaccapanni obbligatorio dello storico), il Touring Club ciclistico italiano, poi Touring Club e promotore del Raci (Regio Automobile Club italiano, con presidente onorario Vittorio Emanuele III, automobilista appassionato e provetto) iniziò il suo cammino all’indomani dell’opera pionieristica di Strafforello. Come a suo tempo aveva fatto Goffredo Casalis per la realizzazione del prodigioso “Dizionario degli Stati Sardi”, anch’egli si valse di decine di collaboratori, impegnati a valorizzare quanto ritenevano degno di ricordo in una prospettiva locale e universale.
Chi oggi contempli l’orizzonte dall’alto di Porto Maurizio o dalla riva di Oneglia coglie l’ispiratore perenne di Strafforello: il Mediterraneo, via delle comunicazioni transoceaniche con l’apertura del canale di Suez, acceleratore della ri-scoperta dell’Africa e dell’Oriente sulla traccia dei missionari che nei secoli avevano percorso i mari e attraversato le terre più inospitali propugnando l’“ut unum sint”, insegna della Compagnia di Sant’Ignazio di Loyola, fatta propria dagli Illuministi e dai positivisti e da quel Karl Marx che non confutò affatto la colonizzazione degli spazi extraeuropei: premessa necessaria e sufficiente per l’avvento di una coscienza unitaria degli umani.