Al Centro Pannunzio di Torino il dibattito e la presentazione del libro di Nino Messina
Ogni anno alla presenza del Capo dello Stato si svolge la cerimonia in ricordo del martiri delle fosse Ardeatine. Dopo anni di omissioni e di racconti di parte, è opportuno analizzare fatti e circostanze che determinarono il tragico massacro per giungere ad una narrazione che poggi su elementi veritieri .
E’ quel che si propone il Centro Pannunzio di Torino, ove lunedì 22 aprile alle ore 17, in via Maria Vittoria 35 H, si terrà un dibattito sull’attentato di via Rasella, considerato da alcuni atto di guerra e da altri atto terroristico, e la strage delle Fosse Ardeatine compiuta dai tedeschi come rappresaglia a via Rasella.
Parteciperanno Valter VECELLIO, Pier Franco QUAGLIENI (nell’immagine), Nino BOETI eEnnio GALASSO.
Sono passati 80 anni da quei massacri e forse si rende necessaria una riflessione storica, come indica il bel libro di Nino Messina dedicato a quei tragici eventi.
Tra i martiri delle Fosse Ardeatine ci fu anche il Col. Giuseppe di Montezemolo, capo del fronte militare clandestino di Roma; tra i salvati ci fu Mario Pannunzio, scarcerato per errore pochi giorni prima.
Cerchiamo in attesa del dibattito di approfondire quel che l’autore del libro cerca di farci conoscere.
L’attentato di via Rasella fu un’azione della Resistenza romana eseguito il 23 marzo 1944 dai Gruppi di Azione Patriottica, unità partigiane, operanti nelle città italiane sotto occupazione tedesca, costituite dal Comando generale delle Brigate Garibaldi, su direttiva del Partito Comunista Italiano, contro un reparto delle forze d’occupazione tedesche, l’11ª Compagnia del Terzo Battaglione del Polizeiregiment Bozen, inquadrato, nella Ordnungspolizei, che raggruppava tutte le forze di polizia della Germania nazista e che era composto, tranne gli ufficiali superiori, da reclute altoatesine.
Gli uomini del Battaglione Bozen erano contadini e artigiani sudtirolesi, in gran parte diciottenni o ultracinquantenni, assolutamente non politicizzati, costretti ad arruolarsi, pena l’arresto o ritorsioni verso i famigliari. Come dimostrò il loro rifiuto di partecipare alla rappresaglia, che seguì l’azione terroristica, consumata, il 24 marzo, alle Fosse Ardeatine in cui furono uccisi 335 italiani reclusi nelle carceri di via Tasso e di Regina Coeli, per vendicare i loro 33 commilitoni vittime dello scoppio di un rudimentale ordigno esplosivo.
In quella giornata furono sottoposti a esecuzione sommaria nella cava di tufo dell’antica arteria viaria romana prigionieri politici, militari del Regio Esercito attivi nella resistenza, o che più semplicemente si erano sottratti al bando di reclutamento nell’Esercito Nazionale Repubblicano di Salò, sospetti di antifascismo, detenuti in attesa di giudizio per «oltraggio alle truppe tedesche», per possesso di «armi da fuoco o esplosivi» o perché presunti capi di «movimenti clandestini», carabinieri, agenti di polizia e della Guardia di Finanza, circa 75 ebrei catturati durante la razzia del 16 ottobre 1943, sacerdoti, funzionari, cittadini comuni che avevano operato per evitare la loro deportazione nei campi di sterminio della Germania e della Polonia. Tutti completamente estranei all’azione gappista, come i dieci civili rastrellati nelle vicinanze di via Rasella subito dopo il blitz messo in atto dal gruppo di fuoco al quale, tra gli altri, parteciparono Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Rosario Bentivegna, Carla Capponi.
I fatti del 23 marzo 1944 diedero luogo, nel dopoguerra, a una lunga vicenda processuale sulla loro opportunità militare e soprattutto sulla legittimità giuridica dell’attentato che fu oggetto di valutazione diversa e contrastante. Se sul piano del diritto bellico internazionale l’attentato venne giudicato, nel corso del procedimento al quale furono sottoposti i responsabili della strage delle Fosse Ardeatine, da tutti i tribunali militari alleati e italiani un atto illegittimo in quanto compiuto da combattenti irregolari, «privi di divisa», come sancito dalle Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907, la magistratura italiana lo definì, invece, un episodio militare del tutto legittimo, essendo il Regno del Sud entrato in stato di belligeranza contro il Terzo Reich fin dal 13 ottobre 1943.
All’analisi questa materia ancora oggi incandescente, che ha provocato un lungo e acceso dibattito storiografico in Italia e fuori d’Italia, Dino Messina ha dedicato un saggio esemplare, Controversie per un massacro. Via Rasella e le Fosse ardeatine. Una tragedia italiana, edito da Solferino Editore, che si raccomanda per la compiutezza dell’informazione, per la capacità di distinguere la verità storica dalla verità giudiziaria, per l’onestà intellettuale che dovrebbe essere, come spesso disgraziatamente non accade, la prima virtù dell’analista del passato.
Come scrive Messina, se nelle settimane successive allo sbarco di Anzio del 22 gennaio 1944, furono gli Alleati a incoraggiare un intensificarsi delle azioni dei resistenti, senza per altro dare indicazioni sulla loro modalità, i comunicati diramati del Fronte militare clandestino di Roma, di cui aveva assunto la direzione il Colonello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo (anche lui poi trucidato il 24 marzo), vicino alla parte moderata del Comitato di Liberazione Nazionale, definita sprezzantemente come «attendista» dalle formazioni della guerriglia comunista, diedero precise disposizioni che ci si limitasse ad operazioni di intelligence o al massimo di sabotaggio e di supporto alla marcia su Roma delle truppe guidate dal Generale statunitense John Porter Lucas.
Del tutto da escludere, infatti, erano atti di violenza su larga scala, per dare il via a un’insurrezione generale come risposta all’immancabile reazione dell’esercito occupante. A quell’insurrezione vagheggiata, senza cognizione di causa, la popolazione della capitale non era moralmente preparata perché stremata dai bombardamenti indiscriminati della Royal Air Force e della United States Air Force, che fino al giugno 1944 provocarono circa 7000 vittime civili, sfinita dalla penuria alimentare, scoraggiata dalla mancata fulminea avanzata del corpo di spedizione anglo-americano bloccato dall’intervento di forti contingenti, spostati, per ordine del comandante in capo dello scacchiere Sud, Albert Konrad Kesselring, dalla Linea Gustav a ridosso della costa laziale.
Alla vigilia del 23 marzo 1944, tuttavia, né i dirigenti politici comunisti né i militanti gappisti erano disposti a rimanere fermi, con le armi al piede, in attesa che gli Alleati sbrigassero il grosso del lavoro, prima di scendere sul campo. Ma con quella scelta temeraria scrissero una delle pagine più controverse della Resistenza italiana ed europea, dando vita a una operazione che fu deliberata dal solo Partito di Togliatti, tenendo all’oscuro di quella decisione il Fronte militare clandestino e le altre formazioni antifasciste anche se già a fine marzo un comunicato unitario del Comitato di Liberazione Nazionale avrebbe dato una copertura politica all’attentato, che comunque fu tempestivamente condannata dalla maggioranza della cittadinanza romana.
Il vero obiettivo da raggiungere a via Rasella fu quello di trarre tutti i vantaggi possibili dal capitale accumulato dal «partito dei fucilati», che godeva ormai di un incontestabile prestigio morale. Il sacrificio dei militanti, dei simpatizzanti, dell’uomo della strada, delle vittime dell’Olocausto era strettamente funzionale a questo programma. Dando il semaforo verde, all’inutile e dannosa iniziativa dei gappisti romani, la direzione comunista era del tutto consapevole delle sue funeste conseguenze, ma pensava che tanto più alto fosse stato l’effetto dei danni collaterali sui civili, tanto più considerevole sarebbe stato il debito che le altre forze politiche avrebbero dovuto pagargli nella futura competizione per la conquista del potere che avrebbe segnato il nostro Paese dopo il 25 aprile del 1945. La creazione pianificata del martire, infatti, è stata spesso considerata l’arma più forte di ogni conflitto intestino, quando naturalmente chi decide di utilizzarla e chi muore non sono la stessa persona.
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