Una donna ribelle d’altri tempi
Cristina Ippolita, nata nel 1659, era figlia illegittima di Carlo Emanuele II, duca di Savoia e di Giovanna Maria di Trecesson, che era stata costretta a sposare il Marchese Benso di Cavour, per mettere a tacere le voci che sarebbero inevitabilmente sorte in seguito alla relazione tra il Duca e la nobile donna che era riuscita a catturare il suo volubile cuore.
La giovane Cristina venne destinata al chiostro, così come sua sorella Adelaide, anch’essa figlia di Carlo Emanuele. Aveva solo sei anni quando venne condotta nell’abbazia di Santa Clara di Moutiers, in Alta Savoia, e lasciata nelle mani dell’abba
dessa Suor Lucey de Maraiste che sostenne da subito la forte vocazione presente nella ragazza. Peccato che Cristina non avesse alcuna intenzione di farsi monaca, ma a quei tempi la volontà non bastava per cambiare la propria vita, le donne erano soggette alla potestà del padre prima e del marito poi, senza alcuna libertà personale o diritti giuridici.
Qualche anno dopo l’abbadessa scrisse una lettera alla corte di Torino, sostenendo che Cristina era una ragazza ragionevole e dedicata a Dio, ben felice di vestire l’abito monacale. E ancora nel 1673, poco disposta a perdere il denaro che veniva inviato al convento per il mantenimento di Cristina, l’abbadessa si rivolse direttamente al Duca, per comunicare che la giovane era pronta a diventare monaca e che tutto il suo animo anelava a questo. Fatto lontanissimo dalla realtà.
Le sue carte vennero scompigliate dalla morte prematura del Duca poco tempo dopo. Era il 1675, Cristina era già abbastanza grande per cercare di farsi le proprie ragioni e ci provò, scrivendo alla Corte una lettera accorata, nella quale spiegava che non era sua intenzione farsi monaca, che quando si era fatta convincere ad entrare in convento, l’aveva fatto unicamente per obbedire al padre
La madre cercò a sua volta di persuadere i consiglieri, che decisero di far spostare Cristina dall’abbazia dove ormai viveva da anni, alla Visitazione di Torino. Ancora una lettera, in questo caso scritta dalla corte e indirizzata a Giovanna Maria di Trecesson, ci fa capire che il problema non era stato sottovalutato, probabilmente grazie all’importanza della Marchesa a corte: “Per l’affare di Cristina sarebbe necessario scrivere al Signor Conte di Provana…”, la macchina era stata messa in moto nonostante Suor Lucey avesse provato ulteriormente ad esprimere il proprio rincrescimento, concludendo però il messaggio con il commento astioso che la giovane non era proprio tagliata per essere religiosa.
All’arrivo a Torino Cristina, determinata a perorare la sua causa, riuscì ad ottenere da Vittorio Amedeo, che regnava con la reggenza di Maria Giovanna Battista di Nemours, l’assoluzione dei voti e venne data in sposa, con sua somma contentezza, al Principe di Masserano Carlo Besso Ferrero-Fieschi, dal quale ebbe tre figlie che, ironia della sorte, finirono tutte in convento, alla Visitazione di Torino.
Adelaide, la sorella di Cristina, non ebbe la stessa sua fortuna e forse neppure lo stesso agguerrito carattere: dopo essere diventata monaca di clausura, a causa della salute cagionevole, si ammalò di tisi e morì giovane, senza aver più neppure visto la sorella, che per tutta la vita fu consapevole della grande fortuna che le era capitata.
Il caso di Cristina fu agli effetti più unico che raro, in un’epoca in cui le ragazze, considerate pressoché inutili nella linea ereditaria, soprattutto se erano figlie naturali, e quindi illegittime, venivano spesso inviate nei conventi e con o senza vocazione, erano costrette a rimanerci per tutta la vita.
Per quale motivo o strana congiunzione Cristina riuscì a liberarsi dalla prigione che l’aveva rinchiusa per quasi vent’anni? Probabilmente come abbiamo già affermato, la madre aveva un certo potere nei confronti della Corte e il futuro sposo, il Principe di Masserano, dopo aver visto Cristina, che si raccontava fosse una giovane vezzosa dai grandi occhi e dalle labbra rosse, si era probabilmente invaghito di lei. Un lieto fine per nulla scontato…