
Lasciando agire l’intelligenza pratica – parte terza
Durante il nostro secondo articolo siamo arrivati alla seguente determinazione: ognuno di noi dispone di tutto ciò di cui ha bisogno per comprendere che ciò che gli sta avvenendo è per il suo bene e per contemporaneamente occuparsi di ciò di cui ha direttamente responsabilità.
Ad esempio come poter cercare l’equilibrio del passo successivo, ogni volta, ogni istante, nonostante, dovendo fare un passo avanti, per farlo sia necessario sbilanciarsi, accettando di perdere il precedente equilibrio, la condizione che ci dava sicurezza.
Per compiere tale passo avanti, pur facendo tesoro di tutta l’esperienza trascorsa, senza esserne più dipendente, schiavo, ma utilizzarlo come trampolino di lancio, forza propulsiva, trasformatrice, per la realizzazione delle varie fasi dello sviluppo della coscienza, chiaramente percepibili dall’essere in questione, bisogna abbandonare ogni presupposto, andare oltre ciò che pensiamo sia necessario e sicuro.
Il che potrebbe addirittura voler dire che, in contraddizione con la nostra temporanea, parziale, osservazione, un fisico malaticcio o ritenuto non idoneo per lo scopo, invece lo possa essere o addirittura ne sia l’unico presupposto. Ovvero un sistema apparentemente squilibrato sia la condizione necessaria per permettere lo spostamento degli equilibri precedentemente determinati e tenuti fermi (secondo le leggi di conservazione).
Quindi ogni spostamento presuppone la rottura di un equilibrio precedente (per esempio mediante uno shock o malattia) e una fase di ripristino dell’equilibrio (segnalata da dolore che viene confuso con la malattia, ma che invece è già processo di guarigione) fino al prossimo passo e così via di trasformazione in trasformazione, come previsto dal processo vitale cosciente.
Come dicevano i saggi di ogni tempo, il dolore è provocato dall’attaccamento alle cose; infatti attaccarsi allo stato precedente accentua la resistenza al cambiamento, alla fase di ricerca di un nuovo equilibrio; se non c’è attaccamento, non c’è resistenza ed il ripristino è velocissimo fino a diventare istantaneo e quindi non si sente neanche più un dolore, ma solo la percezione che tutto sia consumato, terminato.
Occorre comunque un minimo di coscienza sensibile per permettere l’inizio di un tale lavoro, ma tutto può nascere solo in presenza delle reali possibilità: quando l’allievo è pronto il maestro è là, la via provvede al viandante, il cammino che non provvede al viandante non è il vero cammino.
Quindi non è mai fuori luogo ciò che accade a chiunque di noi qualunque idea ce ne siamo fatti in proposito. Infatti questo è solo un nostro giudizio, una valutazione parziale nel migliore dei casi.
Semmai fuori luogo è il tentativo di formulare ipotesi, spiegazioni, rimedi, suggerimenti senza considerare che noi non sappiamo veramente nulla, ovvero che ciò che sappiamo ora non è nulla di fronte a ciò che non sappiamo e neppure immaginiamo (anche se non possiamo escludere, in linea di principio, qualsiasi possibilità diversa, per esempio essere immersi nella conoscenza totale senza poterla ancora percepire).
Sappiamo che ci sono cose che non conosciamo a partire da un dato certo: l’energia vitale di cui disponiamo come esseri umani è indipendente dai nostri atti. Con la nostra volontà non possiamo aggiungere o togliere energia vitale al nostro processo esistenziale, anche se crediamo di poterlo fare per esempio adottando tecniche ed esercizi per acquisire “energia positiva”, o con il suicidio, l’omicidio o facendoci coinvolgere in incidenti. L’energia disponibile, o quella residua, dovrà comunque esser consumata attraverso un altro processo vitale.
E, salvo cambiamenti di leggi naturali, ogni trasformazione porta con sé un rendimento inferiore ad uno, per cui ad ogni cambiamento corrisponde una diminuzione di energia residua disponibile per altre trasformazioni.
La nostra “coscienza cosciente” non è attualmente in grado di stabilire il tempo e il costo in energia di ogni trasformazione; oltre tutto non conosce tutti i processi in atto e quelli con cui interagisce. Tutto ciò che sembra essere inerente noi stessi, la nostra coscienza o il io sono e le sue interazioni non è che la fase visibile di un processo nel quale siamo inseriti, un processo di trasformazione tipico del mondo nel quale viviamo in cui nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Non importa in quale modo ciò avvenga; a volte si tratta brutalmente di mangiare o essere mangiati.
Questo è ancora un processo automatico e anche se i presupposti o i risultati possono apparire differenti, in definitiva seguono sempre le stesse regole e producono gli stessi effetti con sfumature diverse. Nulla cambia mai realmente, il passo non viene mai realmente eseguito, ma pensiamo solo di averlo fatto e ci sembra sufficiente. Non concludiamo mai niente e questi processi iniziati e mai finiti finiscono per interagire casualmente provocando il caos che possiamo osservare in noi e intorno a noi.
Seguiamo tutti un unico copione; staccati dalla fonte di energia primaria siamo destinati ad esaurire la nostra forza vitale (sia primaria, o vitale – sia secondaria o di trasformazione).
Essendo l’essenza dell’essere umano non solo legata a questi aspetti, ma anche ad altri ad oggi neppure sospettabili, possiamo facilmente comprendere di vivere indipendentemente da ciò che riteniamo necessario secondo le convenzioni; tuttavia possiamo cercare di vivere la vita utilizzando al meglio quello che il processo vitale ci mette a disposizione.
Essendo molto facile ed inflazionato parlare di qualcosa che trascende la quotidianità e la materialità, e dargli il nome di spirituale, conviene chiarire che si tratta di poter vivere e lavorare in un senso unificatore, ovvero in un modo in cui non si possa separare niente, in cui la visione generale prevalga, aiutando la comprensione del senso delle cose anziché dei singoli meccanismi che ne fanno parte. Quindi adottando una visione che non si perde in classificazioni, specializzazioni, puntualizzazioni ma si predispone per una comprensione senza limitazioni.
Niente è più importante o meno importante di altro, ma tutto compone un unicum, una espressione sempre completa della vita, senza priorità, poiché in un processo vitale nessuna parte può esistere in toto se separata dalle altre. E ogni vita parziale non è vita.
Esattamente come quando noi focalizziamo la nostra vita su un aspetto dimenticando tutto il resto, come se fossimo in una prigione, o prigionieri di esso. Fuori la vita continua a scorrere, ma noi ne siamo esclusi. Se mangiamo dobbiamo comunque continuare a respirare, non possiamo fare solo una o l’altra cosa; se pensiamo intanto il sangue deve continuare a scorrere. Niente può essere dimenticato o interrotto. Quando qualcosa di ciò avviene non è senza conseguenze e molte situazioni che ci vedono coinvolti sono conseguenze di dimenticanze, interruzioni, incidenti, desideri più o meno nascosti.
Occorre quindi un nuovo approccio dell’uomo a se stesso in cui si tenga in considerazione che tutto è sempre presente, che ogni parte sta sempre facendo il proprio dovere e non c’è mai nulla di sbagliato in quello che avviene; ciò deve essere compreso a livello intimo, cellulare, atomico, di informazione vitale.
Questa può essere una prima possibile ipotesi di lavoro per uscire dal vicolo cieco nel quale ci siamo cacciati e riaprire gli occhi sul resto del mondo.
Troppo semplice per essere vero?
Forse sì, però …perché escluderlo in partenza?
Continua nella quarta parte
Schemi e testo
Pietro Cartella
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