Nel suo libro Stefano Zurlo mette in fila 34 storie di magistrati che hanno commesso delitti e violenze e non pagano per i loro errori
Ah Rieccoli! Le sconcertanti prese di posizione di alcuni Magistrati facenti parte di una setta della magistratura di estrema sinistra contro il Governo, a prescindere, ci fa tornare indietro di qualche anno, per rieleggere in modo chiaro e lampante i casi giudiziari che ci fanno dubitare sull’autenticità della dizione “La legge è Uguale per tutti” che troneggia nelle aule di giustizia.
Non è solo il rapporto con l’Esecutivo che ci sconcerta, mai molti casi di infanticidi e violenze nei conforti delle donne e all’interno della famiglia, trattati con leggerezza e superficialità, come risulta da numerose testimonianze pubbliche, rilasciate da congiunti e famigliari.
Ci riferiamo a un libro nero per raccontare i panni sporchi dei magistrati, lavati preferibilmente in famiglia, messi in fila dalla sezione disciplinare del Csm ma sbianchettati perché si sa, la privacy è sacra e quella delle toghe, se possibile, lo è ancora di più.
Anche perché i protagonisti delle storie che Stefano Zurlo racconta ne «Il Libro Nero della Magistratura» (Baldini&Castoldi, 224 pagine), e che coprono lo spazio dell’ultimo decennio, spesso continuano a fare il proprio lavoro. Restano al loro posto, cavandosela magari con una censura, un ammonimento, il corrispettivo disciplinare di una tirata d’ orecchi.
Ma le storie, appunto, restano, e sono emblematiche di comportamenti che, come dice l’autore nella prefazione, fanno impallidire pure il caso Palamara.
Ma restano nell’ ombra o vedono la luce protetti dal bianchetto, che nasconde i nomi, ma non cancella fatti incredibili ma veri: dal giudice che «molesta e assilla» la collega pm a quello che copia le sentenze, fino al collega che assegna centinaia di incarichi all’ amico professionista con cui condivide la frequentazione di un club di prostitute, al Gip che «si ricorda» di liberare due imputati dai domiciliari con un anno e mezzo di ritardo o al giudice di Corte d’Appello che fotografava le nipoti minorenni e diffondeva in rete quelle foto pedopornografiche.
Sono trentaquattro storie da non credere quelle messe in fila da Zurlo. Come quella di Orazio Gallo (il nome, come lo sono anche tutti gli altri, è appunto di fantasia), giudice in aspettativa, che ad aprile e poi a luglio del 2009 per due volte dà i numeri sulla pubblica via, prima ubriaco, aggredendo i passanti che vogliono aiutarlo, poi insultando i poliziotti accorsi e offrendosi di «leccare la f…» alla dottoressa 118, poi concedendo il bis con i carabinieri, dopo un tamponamento seguito da tentativo di fuga e sfociato in atti di vandalismo contro la «gazzella» dell’ Arma e in un inevitabile arresto, concluso tra insulti e contumelie dell’ uomo.
Il Csm, anche di fronte a due precedenti sempre «stradali» sfociati in altrettanti procedimenti disciplinari, decide di cacciarlo dalla magistratura. Ma non va sempre a finire così. Zurlo lo dimostra raccontando il caso di Giovanni Domodossola, magistrato la cui moglie si ritrova con un ematoma al naso dopo una lite e che, si legge nel fascicolo del Csm, «dal 1995 al febbraio 2007 teneva fuori dall’ ufficio condotte tali da renderlo immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere un magistrato».
Una storia, lunga, di liti con la consorte, ricche di insulti, strattoni, lesioni. Ma la donna ritira la querela, la sezione disciplinare ne prende atto. Derubrica tutto a «insofferenze reciproche», mette nero su bianco che «tutte le violenze, a quanto consta dagli atti, furono consumate all’ interno della convivenza, dunque senza effetti sul piano sociale e della credibilità del magistrato». Insomma, Domodossola sarebbe colpevole solo di vivere una «quotidianità triste». E viene assolto.
Ma Zurlo ci racconta anche di Franco Rossi, pm al quale ad agosto 2011 arriva sulla scrivania un caso di cronaca terribile: un padre che ha accoltellato alla gola, davanti alla moglie e ai familiari, la figlia di due anni. L’autore del gesto ha gravi problemi psichici, ma il pm non fa nulla, anzi, indaga l’uomo «erroneamente» per lesioni colpose, e tocca al procuratore capo, più di un mese dopo, correggere l’imputazione in lesioni dolose. Il pm non si smuove e gli atti del procedimento disciplinare fotografano l’assurdo, scrivendo che «si asteneva da ogni atto concreto di indagine, sebbene sollecitato più volte».
E più di un anno dopo, a ottobre 2012, l’accoltellatore, con la giustizia che ha ignorato ogni allarme, chiude il cerchio e ammazza la moglie. Il pm, scrive il Csm, «in tal modo non impediva» che l’indagato «provocasse alla donna il danno irreparabile della perdita della vita». Il caso finisce al Csm 4 anni dopo, nel 2016, ma «finisce ancora prima di cominciare», racconta sconsolato Zurlo, perché il pm, nel frattempo, si è spogliato dalla toga. Tutto in archivio. Tranne il sentimento della vergogna.