Racconto di Francesco Cordero di Pamparato
La trireme aveva iniziato lentamente a muoversi. Il ritmico rumore dei remi sembrava scandire il tempo. Antioco vedeva il porto del Pireo rimpicciolirsi lentamente, al tempo cadenzato dal rumore dei remi. Anche la splendida Acropoli di Atene, con il Partenone che giganteggiava, si allontanava e con lei anche tutta la città sottostante. A mano a mano che la terra si distanziava, i rimpianti cominciavano ad affiorare per rendersi sempre più forti.
Rimpianti, ma non rimorsi.
Comunque, era troppo tardi per tornare indietro. Non solo troppo tardi, era impossibile. Antioco si era chiesto se avesse qualcosa da rimproverarsi. No, non gli sembrava proprio. Dopo le terribili guerre, gli ateniesi si erano divisi in varie fazioni. Alcuni erano favorevoli ai persiani, altri ai macedoni. Lui e pochi altri erano rimasti fedeli all’idea che Atene, la città più bella e più colta dell’Ellade non poteva perdere la propria identità.
Le opere di Fidia, i pensieri di Platone e Aristotile non potevano essere dispersi e nemmeno dimenticati per far posto alla cosiddetta cultura dei barbari. Invece il partito filomacedone stava prevalendo. Molti, troppi ateniesi stavano rinnegando la grande civiltà degli avi, per far posto a un mediocre pensiero contemporaneo, che però era quello dei barbari vincitori. Si era opposto a quella che aveva ritenuto decadenza. Aveva lottato. Il solo risultato: l’essere stato sottoposto all’ostracismo. Coloro che potevano votare dovevano scrivere il suo nome su di un coccio(ostracon). Questo era il voto. Se si fossero raggiunti più di sei mila voti, cioè cocci con su scritto il suo nome, sarebbe stato condannato all’esilio.
Furono raggiunti.
Non c’era appello a quella condanna. Ora sarebbe dovuto restare lontano dalla sua città per almeno dieci anni.
Dieci anni!
In quel lungo lasso di tempo gli ateniesi si sarebbero dimenticati di lui.
La massa segue sempre il partito vincente.
Quindi sia lui che le sue idee sarebbero caduti nel dimenticatoio. Le sue idee! Era per quelle che si era battuto, ma era stato vinto ed emarginato. Era stato sconfitto, ma non ucciso. La democrazia ateniese non uccideva gli sconfitti, i dissidenti.
Non ce n’era bisogno.
Li emarginava e nei casi più gravi li mandava in esilio. Così, tenuti lontano dalla madrepatria, il loro pensiero si sarebbe dissolto, affondato nel mare dell’oblio. Non l’emigrare in un’altra città a renderlo triste. Lo rattristava il fatto che scomparendo, non avrebbe più potuto lottare. Non avrebbe più difeso le sue idee e i suoi principi. Era la sconfitta delle sue idee prima ancora che sua. Era un fallimento senza appello e gli bruciava. Questo era il suo vero rimpianto.
“Papà, quando arriveremo a Cartagine?”
Le parole del suo figlio più piccolo lo riportarono al presente. Guardò il bambino con aria serena. Non voleva rivelare il suo stato d’animo al bambino.
“Dipende dal tempo Callimaco, se il mare è calmo e il vento si mantiene così, penso che domani sera o dopodomani mattina ci saremo.”
“Papà, ma io mi annoio sulla nave!”
“Coraggio figlio mio, il tempo passa in fretta.”
Per fortuna sua moglie Calliope e l’altro figlio, Aristarco si mantenevano calmi. Nessuno di loro pativa il mare. Almeno quello era un aspetto positivo del viaggio.
In quel momento gli si avvicinò il comandante della nave. Dal movimento delle nuvole e dal vento e le correnti, si prevedeva tempo buono, almeno sino al giorno dopo. Antioco diede un ultimo sguardo alla sua città, ormai molto lontana e quasi completamente occultata dal buio della notte. Per molti anni non l’avrebbe più vista.
Forse mai più.
Il suo futuro lo portava a Cartagine. Era li che avrebbe iniziato una nuova vita. Il cielo era ormai tutto scuro ed erano comparse le stelle. Pensò che fosse il momento di ritirarsi. Andò a poppa della nave, si coricò, si avvolse in una coperta e si mise a dormire.
Il mattino seguente il mare era sempre calmo. La navigazione si svolgeva in condizioni ideali.
A Siracusa, il traffico navale era intenso, ma una trireme portava a bordo degli ospiti particolari. Si trattava di Demetrio e di sua moglie Antea. Era il figlio di un patrizio fatto uccidere da Gerone, di nome Diogene. Questi aveva manifestato idee non gradite al tiranno della città. La vittima avrebbe voluto creare un sistema politico simile a quello ateniese. Lo aveva predicato nell’agorà e nelle vie principali di Siracusa.
Purtroppo per lui, a Gerone, signore indiscusso, la cosa non era andata a genio e aveva fatto uccidere quello scomodo cittadino. Così Demetrio, figlio dell’ucciso, temendo soprattutto per la vita della moglie, ma anche per la propria, aveva pensato di abbandonare Siracusa e di trasferirsi a Cartagine. Era giovane, ma era un bravo oratore. Era sicuro che anche in quella città non avrebbe avuto grandi difficoltà ad ambientarsi. I giovani sovente sono ottimisti verso il futuro. Guardava la sua città allontanarsi, mentre la nave prendeva il largo, ma non sentiva nostalgia per la patria che stava lasciando.
Provava un profondo odio per Gerone, e soprattutto l’impossibilità di vendicarsi lo faceva rodere dall’ira. Un’ira impotente.
Avrebbe voluto sfidare il tiranno, misurarsi con lui, ma sapeva che non era possibile. Non avrebbe nemmeno potuto ucciderlo. Era troppo protetto dalle sue guardie. Sapeva che i cittadini avevano amato suo padre ed erano favorevoli alle sue idee, ma nessuno si sarebbe mosso contro quell’oppressore. La gente ammira e stima chi è nel giusto, ma si schiera sempre con il più forte, con colui che da un tornaconto. Ricordava che suo padre gli aveva insegnato un proverbio: “Ricordati Demetrio, gli uomini ammirano le gazzelle, sono belle, eleganti e dolci, ma rispettano molto di più il leone, che è feroce e che divora le gazzelle. Così è nella vita. Se dici la verità tanti ti daranno ragione, ma davanti al tiranno piegheranno la testa. Quando dovranno scegliere si schiereranno con lui.”
Sì, era così! Quando suo padre aveva iniziato a dare fastidio a Gerone, i siracusani lo avevano abbandonato. Si erano schierati con il tiranno, non con l’oppositore. Lo avevano lasciato uccidere. Lui era figlio di Diogene, e così i concittadini, per prudenza, avevano emarginato anche lui. Non aveva resistito, soprattutto per Antea. Era una donna molto dolce e le era particolarmente affezionato. Aveva già perso il padre, non voleva perdere anche la moglie sempre per questa faida con quell’oppressore.
Era la sera di un giorno successivo, quando le due triremi entrarono quasi contemporaneamente nel porto di Cartagine. Il porto era enorme, pieno di navi che venivano da quasi tutte le città del Mediterraneo, però solo quelle due arrivavano rispettivamente da Atene e da Siracusa, due dei porti più importanti del mondo greco.
Cartagine era una città molto grande e bellissima e rivaleggiava con Roma per il dominio del Mediterraneo. Lì nessun greco avrebbe osato molestare i due fuggitivi.
Si riconobbero, Demetrio aveva studiato retorica ad Atene, città ammirata da suo padre e lì aveva conosciuto Antioco, più giovane, ma già famoso per le sue idee. Diogene e l’ateniese erano diventati amici. Si erano tenuti in contatto per anni. Così il giovane siracusano aveva incominciato a nutrire una profonda stima per l’ateniese.
“Antioco, anche tu qui? Pensavo che tu fossi uno dei pilastri di Atene e che i tuoi concittadini ti amassero e ti tenessero in gran conto. Cosa fai qui a Cartagine?”
Il vecchio chinò la testa e rispose: “Demetrio anche se vederti è un piacere, quanti mi chiedi mi porta parlare di una cosa triste. Le mie idee non piacevano ad alcuni ateniesi. Sono ricchi e potenti. Convinsero il popolo a darmi l’ostracismo e così adesso sono qui in esilio. Atene non uccide i dissidenti, li caccia. Ma cosa fai tu qui? Tuo padre è un uomo ricco e rispettato, sei qui per studio o per affari?
“Mio padre era ricco e rispettato, ma le sue idee non piacevano a Gerone. I siracusani lo appoggiavano a parole, ma quando il tiranno decise di ucciderlo, nessuno si mise al suo fianco. Fu preso e decapitato. Per fortuna non fu torturato. I miei concittadini si allontanarono anche da me. Il figlio di un nemico del potere era un uomo scomodo. Così soprattutto per mia moglie, ma anche per me, decisi di abbandonare Siracusa e venire qui a Cartagine.”
“Il Fato fa strani scherzi a noi mortali. Per anni non ci siamo più visti, adesso che siamo in esilio entrambi, ci incontriamo in una città che non è greca. Non ha nemmeno i nostri dèi. Ma che gli dèi ci assistano.”
“Tu almeno sei stato più fortunato. Non sei stato ucciso come mio padre.”
Antioco scosse tristemente la testa: “Non mi hanno ucciso, questo è vero, ma hanno ucciso le idee per cui vivevo, quelle che erano lo scopo della mia vita. Allora cosa mi hanno lasciato?”
“Puoi ancora lottare per le tue idee. Mio padre prima di morire disse che lui moriva ma le sue idee gli sarebbero sopravvissute. Anche le tue idee possono sopravvivere.”
“Il martirio dà forza alle idee. L’esilio no. Mi hanno voluto umiliare e scacciare. Hanno fatto di me uno sconfitto. Ricordati Demetrio, le idee dello sconfitto muoiono con lui. Non come quelle di un martire. Quando si uccide una persona, tutti lo rispettano. La gente pensa che sia stato ucciso perché non gli si poteva chiudere la bocca ed è vero.”
“Sei sicuro di quanto dici Antioco? Io mi sento abbandonato da tutti.”
L’ateniese sorrise: “Ricordati Demetrio, se uccidi un oppositore significa che non sei abbastanza forte per contrastare le sue idee. Non puoi misurati con lui sul piano della logica e allora usi la violenza. La violenza è l’arma dei deboli e dei vili. Chi viene ucciso è un martire, dopo qualche tempo tutti lo apprezzeranno.”
Poi continuò. “Se invece i sicofanti, quelli al servizio dei potenti, convincono il popolino a votare contro di te, sarà il popolo che non ti ha voluto e ha bocciato le tue idee. In questo caso sei uno sconfitto e il mondo non ha pietà per gli sconfitti. Loro magari sopravvivono, ma le vere sconfitte sono le loro idee! Sono loro a morire nell’oblio. Aggiungi che il popolo non amia chi pensa. Soprattutto se non pensa come i suoi padroni. Il popolo si fa guidare come le mandrie. Se qualcuno non la pensa come i suoi pastori, disturba le loro certezze e viene in odio. Per di più il parere di uno stolto vale come quello di un genio e quello è il germe che distrugge la democrazia. Non c’è bisogno di diventare un genio.”
Demetrio lo aveva ascoltato in silenzio. Alla fine, si decise a parlare: “Dunque secondo te Antioco la dittatura uccide gli uomini ma lascia sopravvivere le idee, mentre la democrazia risparmia gli uomini e ne uccide le idee?”
“È esattamente quanto penso caro Demetrio, la democrazia non può permettersi di uccidere gli oppositori, ma si limita ad ucciderne le idee. La dittatura non può competere con le idee quindi uccide l’uomo, ma non può uccidere le idee. Anzi, crea i martiri e darà forza alle loro idee.”
Il loro dialogo fu distolto da un rumore inaspettato. Un pescatore aveva lottato per tirare fuori dall’acqua un grosso pesce: Finalmente ci era riuscito.
Demetrio si rivolse quindi a quell’uomo. “E tu brav’uomo, preferisci la democrazia o la tirannia?”
L’uomo lo guardò con aria stupita. “A me interessa che la pesca sia buona, poi va tutto bene.”
I due greci si guardarono e sorrisero, pur scuotendo le teste.
Francesco Cordero di Pamparato
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Bravo stupendissimo. Finalmente hai ricominciato a scrivere. Aspetto il prossimo pezzo
Rapita dal racconto…
Complimenti Francesco!!🌹