
Onestamente non sappiamo se la criminalità, o anche semplicemente il disordine pubblico, stiano aumentando nel nostro paese, o stiano diminuendo, o siano stabili. Lo saprà forse l’amministrazione degli Interni, avendo a disposizione le opportune statistiche.
Quello che si può dire, invece, è che la percezione pubblica di questi due fenomeni sta crescendo giorno per giorno; e anche qui non sappiamo quanto questa percezione sia effettiva e giustificata, quanto sia dovuta a fatti reali oppure ad amplificazioni mediatiche o politiche; sta di fatto però che essa è ampiamente diffusa fra la gente assieme a un crescente senso di insicurezza e disagio.
Fatti di sangue, aggressioni, disordini di piazza si sono susseguiti insistentemente in questi ultimi tempi e hanno dato luogo a un diffuso dibattito su come fronteggiarli, dibattito che ha assunto essenzialmente due modalità: da un lato i rigoristi che chiedono pene più severe e immediate, dall’altro i buonisti che predicano comprensione, prevenzione, inclusione, inserimento e reinserimento sociale. In fondo è l’antico dibattito giuridico fra la funzione retributiva della pena e quella rieducativa, quest’ultima peraltro richiamata esplicitamente dall’articolo 27 della nostra Costituzione.
Appare pure evidente come questa distinzione, questa diversa mentalità nell’affrontare il problema, rispecchi anche una diversa appartenenza politica: la visione rigorista è condivisa soprattutto a destra, quella buonista soprattutto a sinistra; più semplice e netta la prima, più complessa e pensosa la seconda, anche se questo non significa necessariamente che i rigoristi siano persone rozze e i buonisti persone illuminate, come prospettato sovente dalla maggioranza dei mezzi di comunicazione.
Queste considerazioni, a nostro avviso, vanno però inserite in un fenomeno più ampio e profondo che sta investendo la nostra società: la “de-culturalizzazione” di strati sempre più ampi della popolazione dovuta a un vero e proprio mutamento antropologico dell’Occidente e, in particolare, del nostro Paese, un fenomeno che ha una serie di cause abbastanza individuabili.
Una prima causa è la massificazione della cultura che sembra non avere più riferimenti “alti”, nel senso che propone solo più narrazioni popolari, sempliciste, di immediata fruizione, prive di complessità e nemiche di ogni possibile difficoltà intellettuale. Sono cose risapute dai tempi della Scuola di Francoforte, ma riprese anche da studiosi più recenti come Christopher Lasch, Neil Postman e molti altri. Mantenendoci in ambito laico, tralasciamo la visione cristiana e quella Tradizionale che sottolineano il decadimento della spiritualità nell’uomo contemporaneo.
Una seconda causa è lo spostamento della funzione educativa dai suoi detentori tradizionali -famiglia, scuola, chiesa- ai mezzi di comunicazione di massa che, con la predominanza dell’immagine sulla parola (come ben descritto dal citato Postman), con la nevrotica ed effimera informazione digitale (internet e la galassia dei social) hanno depotenziato l’aspetto critico e strutturato del pensiero così come l’etica tradizionale condivisa dalla maggioranza della popolazione. A questo si è aggiunta poi la nascita di micro-culture circoscritte e autoreferenziali, senza una significativa dimensione intellettuale e, spesso, anche morale (musicali, etniche, alternative, di gruppo, e anche illegali o addirittura criminali) che si ritengono orgogliosamente autosufficienti nei loro valori, e più spesso nei loro disvalori.
Una terza causa è l’immigrazione selvaggia che ha prodotto l’inserzione di culture e sotto-culture straniere nel corpo un tempo abbastanza omogeneo delle nostre società. Si sono create così due situazioni: la prima riguarda la nascita di enclaves etnico-religiose estranee ai nostri valori e alle nostre regole, con la conseguente disarticolazione della società circostante, della sua cultura, della sua coesione, del suo ordine interno. La seconda situazione consiste nell’emarginazione sociale, economica e civile di una gran quantità di immigrati irregolari che non hanno alternative alla precarietà e alla delinquenza e contribuiscono fortemente all’aumento dell’insicurezza sociale, soprattutto nei grandi conglomerati urbani.
Ecco, in questo quadro si inserisce il tema iniziale: come fronteggiare questo crescente disordine sociale che troppo spesso assume la veste dell’illegalità o della criminalità?
La sinistra e un certo cattolicesimo non hanno dubbi in proposito: si fronteggia con l’educazione, l’integrazione e l’inclusione. Lo si è visto negli ultimi avvenimenti che hanno avuto come protagonisti disadattati, teppisti singoli e organizzati, stranieri inclini alla violenza, giovani e giovanissimi senza freni comportamentali, piccoli e grandi criminali. Peccato però che il mantra dell’educazione, dell’integrazione, dell’inclusione non scenda mai nei dettagli, nella concretezza operativa di interventi e progetti precisi.
Scolarizzare tutti questi soggetti? Vasto programma, considerando che essi semplicemente rifiutano la scuola, i suoi contenuti, i suoi operatori, la grande, bella, dignitosa cultura del passato e del presente, la quale potrebbe e dovrebbe riempire il loro vuoto interiore.
Educarli ai valori della cultura, ai suoi contenuti intellettuali, etici, estetici? Vale quanto appena detto, visto che il luogo dove ciò potrebbe avvenire è proprio la scuola.
Procedere a una terapia psicologica di massa per riportare queste persone ad un equilibrio interiore ed esteriore in grado di socializzarli efficacemente? Impensabile e probabilmente anche inutile.
Varare un grande reddito di cittadinanza per migranti irregolari, giovani teppisti di strada, sbandati di vario genere, emarginati e delinquenti -effettivi o potenziali- in modo da sottrarre tutti alla tentazione della delinquenza, all’auto-esclusione sociale, alla precarietà che affligge loro e, di riflesso, anche noi? Possibile forse, ma il disastro contabile provocato dai pentastellati nella nostra finanza pubblica è ancora troppo fresco per poterci permettere un’altra simile esperienza.
Ecco perché, di fronte a queste difficoltà, diventa praticabile e auspicabile una necessaria, ma equilibrata e umana, risposta repressiva, ripulendo questa espressione dai suoi connotati più estremi e vendicativi.
Preveniamo lo sdegno delle anime belle e dei buonisti strutturali, introducendo un concetto assolutamente accettabile e pienamente inserito nel perimetro dello stato di diritto, quello di certezza della pena, un concetto che si è progressivamente sfaldato nella nostra pratica giudiziaria inducendo chi vive nell’illegalità a ritenersi immune da ogni sanzione, o comunque a pensare di poterla sfuggire agevolmente.
Accanto a un doveroso aumento delle pene per i reati che la coscienza comune ritiene più detestabili, anche -e soprattutto- se apparentemente minori, dovrebbe esistere la certezza che una pena sarà irrogata sempre, presto e inevitabilmente, senza perdoni, condoni, riduzioni o commutazioni. È l’unica deterrenza reale ed efficace per chi coscientemente e deliberatamente sceglie di delinquere, soprattutto i piccoli e medi malfattori che troppo spesso pensano di farla franca tramite un buon avvocato e una qualche indulgenza del giudice. Così come una reale ed efficace deterrenza, al di là della detenzione o delle sanzioni pecuniarie che non spaventano più di tanto, è costituita dal rimpatrio o dall’espulsione dal territorio dello stato se il delinquente è straniero; cosa che potrebbe anche costituire un qualche rimedio all’affollamento carcerario.
E a proposito di carceri, perché non varare un piano per la costruzione di nuovi istituti di pena? Perché non sostituire i nostri barbari luoghi di detenzione, vecchi, fatiscenti, inumani, veri e propri stabulari in cui ammassare uomini e donne in condizioni vergognose, con strutture nuove e moderne, ben studiate e ben costruite, dove si possa veramente tentare il recupero morale e sociale del detenuto, e dove possano essere impiegati proficuamente i professionisti dell’educazione e della riabilitazione civile? Non è una cosa impensabile, pur nell’ambito di una spesa pubblica sottoposta a restrizioni ma anche caratterizzata da sprechi immensi e continuativi.
Al di là dell’effetto economico consistente nella moltiplicazione dell’investimento carcerario, con benefici sicuri per il reddito nazionale, si potrebbe rendere più tollerabile -e quindi veramente educativa- la necessaria esperienza del carcere; e ancora, e soprattutto, si renderebbe più facilmente realizzabile e moralmente apprezzabile proprio quella certezza della pena che si auspicava prima.