Racconto in sette puntate di Giancarlo Guerreri
Prima Puntata
Appennino ligure A.D. 1127
Eliot aveva camminato tutta la notte, le scarpe piene di fango non erano servite a proteggerlo dalla pioggia battente che rendeva il selciato lucido di riflessi mattutini.
Una fredda alba dai toni pastello aveva deciso di dar inizio alle danze di una lunga giornata autunnale; le foglie, ormai marcite nei mesi passati, lasciavano una striscia viscida di poltiglia vegetale che rendeva ancora più scivoloso il tragitto.
Eliot stava morendo di freddo. Consapevole del fatto che se si fosse fermato sarebbe morto per davvero, aveva raccolto in sé le ultime forze rimaste, agendo sul proprio corpo con una volontà che non immaginava di avere ma che gli impediva di lasciarsi andare, come sicuramente avrebbe voluto, fermando la clessidra del tempo in un momento preciso: quel preciso momento!
La bruma velava quel progetto di luce che, indebolito da nuvole basse, sembrava appartenere ancora alle ore che anticipavano la nascita del Sole. Durante l’inverno i suoni della foresta parevano svuotati di ogni presenza di vita; solo il fruscio silenzioso della pioggia, filtrata dai rami e dalle foglie delle conifere, ed il rumore delle scarpe sfondate che creavano nel fango altre pozze di melma, facevano sentire l’uomo non completamente solo.
Eliot alzò lo sguardo al cielo, maledicendo quella pioggia, quel freddo insopportabile e quella dannata fame che lo stava spossando. Vide in lontananza, dove il percorso disegnava un’ampia curva in salita, un riparo nella parete di calcare che fiancheggiava il sentiero. Raggiunta la fiancata della montagna si introdusse nella piccola zona asciutta sperando di non incontrare altre creature, cadendo in un sonno pesantissimo.
Qualche ora più tardi fu svegliato da un senso di calore sul collo che gli fece andare il cuore in gola, un cane di media taglia lo stava letteralmente leccando e guardando con aria stupita.
Forse l’animale si era incuriosito per quella complessa collezione di afrori che provenivano dall’uomo, oppure, più probabilmente, dall’odore del pane secco che Eliot aveva posto nella sua bisaccia, nascondendolo tra i ferri del proprio lavoro di scalpellino. Il cane lo guardò toccandogli il collo con la punta del naso, quindi sembrò indicargli la bisaccia con il suo gustoso contenuto.
Il giovane uomo, indifferente alle reali necessità della bestiola, gli mise la mano sulla testa grattandogliela per qualche minuto, poi si alzò, preceduto dall’animale che si era incamminato lungo il sentiero nella direzione che stava percorrendo anche lui.
Eliot non amava particolarmente i cani, ma in quel caso comprese che forse quell’animale gli era stato mandato dal destino per aiutarlo a uscire da quella complicata situazione.
Era partito dieci giorni prima da Piacenza lungo sentieri e viali poco frequentati, allungando di molto il tragitto per poter raggiungere il mare nei pressi di Genova. La sua meta finale sarebbe stata la Sacra di San Michele, in Piemonte. Eliot faceva lo scalpellino di mestiere e apparteneva ad una antica scuola di maestri provenienti dalla zona di Como. Aveva lavorato con un grande costruttore, Wiligelmo, un Maestro fatto e finito che aveva costruito numerosi edifici sacri, ricoprendo con preziose opere d’arte le pareti esterne e gli interni delle chiese. Grandi sculture dalla forma umana, mostri di fantasia e volti diabolici decoravano i capitelli delle colonne gotiche, rendendo i luoghi sacri ancora più tetri di quello che potevano apparire a prima vista.
In realtà lo scopo era proprio quello di spaventare i fedeli, rappresentando il male e le mostruosità del mondo invisibile affinché trovassero rifugio nelle chiese, lontano dai pericoli di un mondo terrificante, accolti dall’unica realtà possibile che potesse dar loro conforto.
Il peccato era ovunque, il male invadeva gli spazi fisici senza alcuna pietà: violenza, malattie, povertà, ingiustizie sociali e ogni genere di nefandezze, consumate nelle case o nei luoghi pubblici, erano i protagonisti di ogni storia e di ogni realtà.
I volti diabolici che pendevano dai capitelli, o che formavano i terminali delle grondaie, guardavano con smorfie di scherno i poveri fedeli, come per dire loro quanto fossero piccoli e indifesi, quanto fosse inutile la loro presenza sulla terra e quanto fossero da considerare solo carne da mandare al macello come soldataglia o servi senza speranza perduti negli immensi latifondi dei loro signori.
Se gli uomini contavano poco o nulla, le donne contavano ancora meno. Non dovevano parlare mai e se gli uomini avessero potuto avrebbero impedito loro anche di pensare. In realtà non avevano molte occasioni per parlare o per esprimere i propri pensieri, ma anche nel caso ne avessero avute, i loro uomini, prima i padri poi i mariti e poi anche i figli, avrebbero tolto loro ogni possibilità per dire una sola parola. Dovevano lavorare e figliare come animali, il resto era solo inutile e dannoso spreco di tempo.
Eliot seguiva il cane a rispettosa distanza, anche se sarebbe stato meglio dire che quest’ultimo lo precedeva mantenendo sempre una buona manciata di passi tra di loro. La sensazione dello scalpellino era quella di essere guidato da un cane che conosceva perfettamente la meta alla quale condurlo, senza farsene quasi accorgere. Un uomo, per quanto di nobile animo e di buoni principi, avrebbe fatto una certa fatica ad ammettere la necessità di farsi indicare la strada da un cane, per di più un animale che non conosceva e che avrebbe potuto anche condurlo nel pericolo o farlo perdere nel bosco, ma Eliot ebbe la sensazione che avrebbe potuto e dovuto fidarsi di quella bestia.
La pioggia autunnale cadeva ad intermittenza, disegnando nel cielo sipari spostati dal vento. Il cane si arruffava il pelo, scuotendosi regolarmente, esibendo quel gesto con una certa dose di vanità tutta umana. Dopo una buona mezz’ora Eliot intravide in lontananza una sorta di casolare nascosto dalle piante, una sorta di sagoma scura che si stagliava sullo sfondo più luminoso di un cielo ceruleo. Vide una colonna di fumo uscire da un lato del muro, dedusse che fosse abitato.
Il cane corse avanti, scodinzolando vistosamente, perdendosi tra la macchia. Si mise ad abbaiare e questo determinò l’apertura di una grande porta del casolare, che fece diffondere un’ampia lama di luce rossastra. Una figura piuttosto massiccia comparve in controluce, tenendo una lanterna in mano, nonostante la luce del giorno avesse iniziato a disperdere le tenebre, il cane entrò in casa sgusciandogli tra le gambe; la figura chiuse la porta ma da fuori si udiva perfettamente il latrato del cane che voleva segnalare la presenza di qualcuno. Dopo breve tempo la porta venne riaperta e la figura maschile che sorreggeva la lanterna venne a trovarsi di fronte al nostro scalpellino.
I loro occhi si incrociarono a lungo ma nessuno iniziò il benché minimo dialogo.
– Piota torna in drent!
Il cane, che ora aveva un nome si diresse in casa senza protestare.
– Te sé chi l’ha indicat il can Piota, che siete amici?
– Si mi sembra, ma è vostro quindi?
– Se! L’è na bestia chi viv cum mi da semper! Ma viste ca pioven cur entra che te scaldi.
Eliot non se lo fece ripetere due volte, entrò e percepì un piacevolissimo calore proveniente da una stufa che doveva servire anche per cucinare; si tolse, quindi, il pastrano intriso di pioggia posandolo vicino al fuoco. Il padrone di casa gli allungò la mano, pronunciando il proprio nome:
– Vincens, tuti me chiaman così, che alora so che sarà anche il mio nome! Vivi qui da semper sono senza moglie che l’è morta da due ani de febre, e lavoro la mia tera e faccio le pulizie a casa del Mat.
– E chi sarebbe il Mat?
– Si, poi ti dico, e te chi se?
– Mi chiamo Eliot, vengo da Piacenza e mio padre si chiamava Solomon, siamo ebrei e veniamo dal nord, dal grande freddo.
– Ah un ebreo! Mah?!? Comunque mangi come noi no?
Eliot scoppiò a ridere e gli fece ben comprendere che avrebbe gradito anche un pezzo di pane con una crosta di formaggio. Vincent lo fece sedere al tavolo, aprì lo sportello di una sorta di madia piuttosto mal concia e prese una tazza tutta sbeccata che riempì di liquido rosso.
– So chè alè lo vin che fè lo Martino di quel cascinale che non so se l’ha vist prima che si viene di qua e fan cò de mangè. Poi te do una mela e due tocchi de formagi che sarebbe da mettere ne la polenta che non c’è. Poi te do una parte di fritata che mangi me dopo che torni da lavorà. Se vuoi c’è anche un po’ di salame, ma poco.
– Grazie ho poco di pagare ma qualcosa ti do, dopo che ho mangiato.
Vincent si sedette anch’egli a tavola; lo guardava mangiare con i gomiti sul tavolo e le grosse mani a tener su le guance. Lo guardava come si guarda una cosa mai vista prima, una cosa rara.
Gli riempì un paio di volte la scodella di vino e si pulì la bocca con i polsi come se avesse bevuto anche lui. Eliot dopo un po’ iniziò a riprendersi, quel vino e quel calore inaspettato lo avevano forse salvato dalla morte, tuttavia la sua tempra e il suo orgoglio di giovane artista gli permisero di mascherare molto bene l’evidente disagio. l’ospite guardò il cane Piota con gratitudine passandogli la mano sulla nuca.
– Allora chi è sto Matto che mi dicevi?
– El Mat l’è il Mat, ossia quello che vive sulla montagna che c’è lassù verso Ceva, dopo le colline di Altare.
– Ma perché te lo conosci?
– E lo chinosivu tuti, al’è Mat mica per niente! E poi ci ho anche lavorato per lù, che qui vicino c’è una sua casa che si è disabitata ma che qualcuno ci andava di certe notti che non so chi l’è. Poi pensa che il Mat l’han vist di notte cercare i morti drent al cimiteri cul caret per fare la rubada di mort! E poi se na va co sti morti anche un po’ marci a casa tra le muntagne verso Ceva per far cosa? Te lo sai? Io no!
Mentre parlava, Vincent, gesticolava liberamente, come un direttore d’orchestra che desideri rendere partecipi tutti gli strumenti. Si alzava con una bottiglia in mano, faceva una piroetta, posava la bottiglia sul tavolo, prendeva un pezzo di pane, lo lanciava in aria facendolo cadere regolarmente, lo raccoglieva da terra, poi si sedeva di nuovo. Eliot lo osservava con malcelata perplessità: in fondo si era scaldato e aveva risolto il problema del pranzo, problema non certo trascurabile: inoltre era sicuramente incuriosito dalla storiella del Matto.
La conversazione tra i due rischiava di essere piuttosto sterile: da un lato Vincent tentava di raccogliere informazioni personali sul suo ospite, dall’altro Eliot sembrava desideroso di conoscere qualcosa di più sui misteri di quella povera regione abbandonata tra gli Appennini.
Il vino offerto da Vincent sposò la sua stanchezza. Una sorta di torpore invase la mente di Eliot, facendolo entrare nella dimensione onirica dove i ricordi, fondendosi tra loro, si organizzavano in una ricapitolazione di eventi che utilizzavano immagini ed emozioni per raccontarsi.
Durante il sogno lucido riuscì a rivivere tutti i momenti più significativi del suo lungo viaggio, del suo lungo viaggio dell’Anima:
partito da Piacenza, aveva percorso strade improbabili, sentieri impervi, giungendo alle propaggini delle Alpi marittime per tuffarsi nella Macchia della verde Liguria; aveva percorso oltre centotrenta chilometri per giungere a Genova, attraversando zone pressoché deserte e spopolate. Aveva voluto allungare la strada per vedere quel mare di cui tanto si parlava.
Genova nel 1096 si era resa autonoma, svincolandosi dal Sacro Romano Impero in seguito al suo contributo alla prima Crociata, divenendo a tutti gli effetti un libero Comune. Il nome della città derivava da quello latino di “Genua”, che secondo certe fonti voleva dire ginocchio, per via della forma arcuata che presentava; più tardi il nome venne alterato in “Ianua”, dal latino Porta di Passaggio, poiché il protettore delle Porte era il dio Giano Bifronte. Quindi Genova, si considerava protetta da un dio che aveva uno sguardo rivolto alla montagna e l’altro al mare.
Quando Eliot vide per la prima volta quella linea azzurra che tagliava come una lama affilata il bordo basso del cielo ebbe un sussulto. Le nuvole invernali, più definite di quelle estive, dipingevano la volta che lo sovrastava correndo verso Est. Seduto su una roccia, in una zona con rara e bassa vegetazione, Eliot rimase ad osservare quella lenta migrazione di forme bianche cangianti che si fondevano continuamente proponendo sempre nuove possibili fisionomie. Come un bambino si lasciò invadere dalla bellezza: respirò a pieni polmoni quella fredda aria invernale, riempiendosi di luce e di benessere.
Lo sguardo era orientato verso la linea dell’orizzonte, il fuoco calibrato verso l’infinito. Se fosse mai possibile esprimere quello che provò in quella situazione si dovrebbe immaginare un sentimento di estasi completa, di “stupor”, di abbandono.
Nella sua mente, abituata a cullarsi tanto nella bellezza delle forme classiche, quanto nell’orrore di quelle “seducenti mostruosità” che egli stesso aveva imparato a scolpire, si cristallizzarono forme-pensiero di natura sicuramente magica che diedero alle nuvole forme diverse da quelle reali, come modellate dai ferri del proprio mestiere.
La sua attenzione si posò su quella linea azzurra che definiva una zona nuova del mondo, che gli era ancora sconosciuta ma che sembrava attrarlo come un Amore “a prima vista”.
Eliot iniziò il tragitto lungo la discesa che lo avrebbe condotto verso la città, ascoltando il regolare tintinnio dei suoi ferri che rispondevano ai sussulti dell’impervio sentiero.
Lo scultore, a Piacenza, aveva conosciuto un altro grande artista della Scuola modenese, formatosi anch’egli con il suo primo Maestro Wiligelmo, il Maestro Niccolò. I due erano diventati subito amici, sebbene Eliot fosse più giovane di 15 anni.
Niccolò lo istruì con grande perizia, intuendo che nel giovane vi fosse quella innata presenza di un’Arte superiore, così rara e forse unica. Il Maestro era solito osservare i propri Apprendisti, cercando di correggerli fin dall’inizio, per togliere le cattive abitudini che, altrimenti, li avrebbero segnati per tutta la vita.
Lo scalpello doveva diventare il prolungamento del braccio sinistro, la mazzetta di quello destro. L’occhio andava sul pezzo e il colpo doveva essere solo sentito per lasciare lo sguardo sul punto di contatto con la pietra. L’artista era uno con la scultura, non era separato dal blocco, anzi doveva amare quel marmo o quel granito come se fosse la propria carne e soffrire quando la punta di ferro ne asportava piccole schegge.
“Sudore e sangue”, ripeteva Niccolò. Sudore, sangue e dolore erano componenti essenziali, come il rumore regolare del martello che doveva riprendere il ritmo del cuore, perché solo con il cuore si potevano ottenere risultati degni di riguardo.
Fine Prima Puntata
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