I beni ci appartengono veramente?
Chi di noi non ha mai sognato di vivere in un suo angolo di proprietà, magari coronando il sogno di una vita, alla ricerca forse di una maggior sicurezza, che donasse a sé e ai propri cari quel senso di protezione tanto agognato.
Oppure il possesso dell’automobile dei sogni, con quella commistione di stile, potenza e senso di libertà che inebria i sensi.
Per non menzionare un abbondante flusso di denaro da poter accumulare e nel quale riporre la certezza di un futuro scevro da indeterminatezze.
O ancora un pezzo di terra da coltivare o dove allevare degli animali, dando, in tal modo, espressione concreta a quel vincolo indissolubile di appartenenza che lega l’essere umano alla natura.
«La mia casa, il mio denaro, il mio campo, il mio orto, la mia macchina, ecc. …», si sente spesso dire, a volte con una tal enfasi da lasciar supporre che il bene in questione ed il suo sedicente proprietario siano vicendevolmente legati da un vincolo indissolubile ed eterno.
Nell’inestinguibile ricerca di beni e oggetti di cui disporre, nella quale debellare quel senso latente di precarietà che spesso pervade questa esistenza terrena qual impreteribile peculiarità, gli sforzi degli esseri umani volgono in gran parte al tentativo di conseguirne un possesso esclusivo, una proprietà, che nel nostro ordinamento giuridico viene definita “proprietà privata”.
Benché tale stato di cose appaia essere la normalità per la maggior parte degl’individui, se ci soffermiamo un attimo sulla nozione di “proprietà privata”, non possiamo far a meno di notare una significativa discordanza concettuale, primo indizio del reale stato dell’arte.
Essa si compone del sostantivo “proprietà” e dal participio passato del verbo “privare”, utilizzato qui come aggettivo, entrambi di derivazione evidentemente latina, il primo che determina appunto il concetto di “proprio” e il secondo stante ad indicare una privazione, “togliere a qualcuno qualcosa che è suo, renderlo privo, mancante, sprovvisto di qualcosa che possedeva, che gli era proprio”.
Quindi… “togliere a qualcuno qualcosa che gli era proprio”. Che concetto singolare! Vi è qualcosa che mi è proprio, ma al contempo me ne ritrovo privato.
Avrebbe tutta l’aria di un accostamento ossimorico, tuttavia è proprio qui che troviamo una prima indicazione su ciò che è previsto dal nostro ordinamento giuridico.
A questo punto, addentriamoci per sommi capi, senza la pretesa di dare lezioni di giurisprudenza, nel nostro codice civile, dove incontriamo l’art. 832 che recita testualmente: «Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico».
Notiamo, quindi che al proprietario vengono posti dei limiti e degli obblighi stabiliti dalla legge. Ma quali sono questi limiti? Vediamolo un po’ più in dettaglio.
Cominciamo dall’art. 42 della nostra Costituzione, che al 3° comma prevede: «[…] La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale. […]». Questo principio è confermato dall’art. 834 del nostro Codice Civile oltre che dall’Art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Seguono poi, sempre della nostra Costituzione, l’art. 43: «A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.» (i riferimenti nel Codice Civile sono l’art. 834, 835 e 838) e l’Art. 44: «Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà. La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane.» (i riferimenti nel Codice Civile di quest’articolo si trovano negli art. 840, 846 e 857).
Sappiamo per esperienza, ad esempio, che ogniqualvolta intendiamo apportare una modifica alle nostre case è necessario farsi accordare un permesso dall’amministrazione comunale, secondo quanto previsto dal Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. 380/2001).
Quanto abbiamo fin qui osservato è già sufficiente affinché la seguente domanda nasca spontanea:
«Ma se il bene è di mia proprietà, perché devo chiedere un permesso per apportarvi le modifiche che desidero o addirittura mi può venir confiscato o pignorato?». Se fosse realmente e internamente di mia proprietà, a rigor di logica nessuno dovrebbe potermelo toccare, a meno che non sia io a disporne in un modo o nell’altro.
Di conseguenza, se, come risulta dalla normativa vigente, non posso disporre dei miei beni a pieno titolo, potrebbe questo fatto stare a significare che essi non siano miei?
Ebbene è proprio questo che si evincerebbe da quanto finora esposto. Dalla normativa in vigore in Italia, risulterebbe in effetti che il concetto di “proprietà privata”, nella realtà dei fatti, sia ben lungi dal significare un qualcosa che ci appartenga, bensì indichi semplicemente un titolo di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico ossia avere il possesso e il diritto di utilizzo di un bene, ma non la sua proprietà.
La piena proprietà si chiama, infatti, “allodio” e in questo caso essa viene definita “proprietà allodiale” e non già “proprietà privata”. Ma in Italia l’allodio pare non essere più stato praticato da molti secoli ormai. Qui si pratica la “proprietà privata”, laddove privata, come si diceva, è il participio passato del verbo privare, quindi togliere, rendere privo.
È curioso notare come il diritto alla proprietà sia stato sancito in maniera inequivocabile dalla “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (DUDU)”, il cui all’art. 17 recita:
«1. Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri.
2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà.»
mentre nella legge 881 del 25 ottobre 1977, con la quale si dà ratifica ed esecuzione del patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, nonché del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottati e aperti alla firma a New York rispettivamente il 16 e il 19 dicembre 1966, non si ritrovi riferimento alcuno al contenuto del surriferito Art. 17 della DUDU, né si faccia menzione alcuna al diritto di proprietà. Solo l’art. 11 recita laconicamente, al comma 1: «Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, che includa un’alimentazione, un vestiario, ed un alloggio adeguati, nonché al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita. Gli Stati parti prenderanno misure idonee ad assicurare l’attuazione di questo diritto, e riconoscono a tal fine l’importanza essenziale della cooperazione internazionale, basata sul libero consenso.»
Che siano solo singolari coincidenze? O ci troviamo di fronte ad una certa intenzionalità?
Il giudizio è arduo, ma certo è che laddove le concomitanze abbondano, lo spazio lasciato alla casualità necessariamente si ridimensiona. Fatto sta che appare piuttosto chiaro come ciò che noi, come cittadini, consideriamo essere di nostra esclusiva proprietà, tale nei fatti non sia.
La breve analisi fatta fin qui indica che a noi cittadini viene concesso il possesso, il diritto d’uso (per tale ragione viene infatti richiesto il pagamento dei tributi) e il dovere di cura e di mantenimento a proprie spese e, in cambio, si acquisisce la facoltà di utilizzo del bene, di disporne e di passarlo in eredità.
Ma in nessun caso possiamo parlare di beni nostri. Se andiamo a guardare un atto notarile relativo ad una transazione immobiliare, ad esempio, vi leggiamo sopra “Atto di compravendita” e non già “Atto di proprietà”.
Un’ulteriore domanda sorge allora spontanea: «Se i beni non sono nostri, allora di chi sono?».
La risposta a questo quesito è da ricercarsi indietro nei secoli. I fatti che hanno determinato l’attuale giurisprudenza sono molteplici e articolati, per cui dedicheremo all’argomento almeno un successivo articolo o forse più di uno.
Nel frattempo, per il lettore interessato ad approfondire, potrebbe essere utile andare a riguardare un precedente articolo, diviso in due parti, che illustra brevemente le basi giuridiche di questo stato di cose, che vengono poste nel 1302 dal papa Bonifacio VIII, tramite l’enciclica “Unam Sanctam Ecclesiam”, a sua volta integrata dalla “Romanus Pontifex” del 1454 di papa Niccolò V seguita poi nel 1481 dalla “Aeternis Regis Clementia” pubblicata dal papa Sisto IV.
I links sono i seguenti:
- Parte 1: https://civico20-news.it/cultura/1302-bonifacio-viii-pubblico-lenciclica-unam-sanctam-ecclesiam-sancendo-definitivamente-per-suo-tramite-la-superiorita-del-potere-spirituale-su-quello-temporale-parte-ia/27/03/2024/
- Parte 2: https://civico20-news.it/cultura/1302-bonifacio-viii-pubblico-lenciclica-unam-sanctam-ecclesiam-sancendo-definitivamente-per-suo-tramite-la-superiorita-del-potere-spirituale-su-quello-temporale-parte-iia-ultima/28/03/2024/
Possiamo chiosare questa prima succinta esposizione desumendo che il cittadino non è proprietario di nulla, dei beni possiede unicamente il titolo di proprietà che gli conferisce il diritto d’uso, di mantenimento e di disposizione (a meno che un ordine gerarchico superiore non intervenga e ne disponga secondo una sua propria determina) e la facoltà di passare il bene in eredità, secondo precise norme, che, una volta di più, non è detto che siano il pieno riflesso della propria volontà personale.
Il tutto con il consenso di noi cittadini stessi, che, consapevoli o meno, da secoli avvalliamo questo stato di cose senza soluzione di continuità.
luca rosso
Volere o volare, siamo rimasti servi della gleba, ci agitano la carota davanti al naso per tenerci buoni fino al momento cruciale che ci spoglieranno di ogni bene:” poveri ma felici”.
esattamente. Siamo da secoli mantenuti in uno stato di schiavitù, di fatto però con il nostro consenso, per lo più inconsapevole. In quanto alla spogliazione di ogni bene, è un’operazione già in corso da tempo, che è stata anche dichiarata in modo palese (vedasi l’agenfa 2030 del WEF, ad esempio). Solo una presa di coscienza collettiva potrà arginare questo processo, in quanto sarà la base sulla quale far venire meno il nostro consenso a questo stato di cose. Senza consenso da parte nostra, nulla di questo può avveire. Pian piano ci s’arriverà.
Se ci basiamo sull?utilizzo dei terreni per il.bene comune anche l’alimentazione è un bene comune per cui il popolo italiano dovrebbe unito fare causa alle espropriazioni per il bene comune… l’eolico è I pannelli solari possono metterli si terreni vicino alle autostrade alle ferrovie
il popolo italico avrebbe tutti i motivi per fare causa alla corporazione privata denominata “repubblica italiana” per le espropriazioni e per mille altri motivi. Il popolo italiano invece no, in quanto esiste unicamente come finzione giuridica, ma non è reale. Di fatto è un artifizio legale istituito per giustificare l’esistenza e l’applicazione di una giurisprudenza redatta su misura di particolari interessi privati. Esso non è giuridicamente costituito da esseri umnai viventi, ma da beni di scambio, chiamati “human capital”. Non mi posso dilungare molto su questo aspetto qui, ma conto di proporre nel prossimo futuro alcuni articoli di approfondimento su questo aspetto delle cose.
Eppure, per i Super ricchi questo non vale. Quindi: ci vorrebbe una facilita’ di confluizione nel popolo italico, a favore dei neo-consapevoli!! E non Corsi a pagamento e complessi documenti. Del resto, se siamo schiavi, non possiamo restare in Europa per statuto!!