Riflessioni e considerazioni dell’Avv. Gianluca Ruggiero
Il 18 luglio scorso è stata pubblicata una importante sentenza della Corte costituzionale, la n. 135 del 2024, che ha ribadito alcuni punti fermi in materia di suicidio assistito, suscitando sulla stampa quotidiana sterili polemiche su possibili anticipazioni sui contenuti del provvedimento.
Entrando nello specifico ambito della decisione, riassumendo brevemente i termini del dibattito, il codice penale italiano punisce con la reclusione da cinque a dodici anni chiunque agevola in qualsiasi modo l’esecuzione del suicidio. Oggetto dello scrutinio costituzionale è il divieto di aiutare chi si fosse autonomamente e coscientemente risolto di porre fine alla propria vita, così comprimendo la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate al liberarlo dalle sofferenza.
Dal 2018, con una Ordinanza, la Corte, aveva invocato l’intervento del Parlamento a risolvere una questione di una delicatezza estrema, non potendo la Corte dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., perché ciò avrebbe lasciato del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, di fatto soggetti a possibili abusi.
In assenza di una specifica disciplina della materia, più in particolare, qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti.
Di tutte queste problematiche avrebbe dovuto farsi carico il Parlamento, la cui perenne assenza era già stata stigmatizzata con l’ordinanza 207 del 24 ottobre 2018 della Corte Costituzionale, nella quale si invitava con decisione il Legislatore a risolvere la questione che coinvolge l’incrocio di valori di primario rilievo, l’unico titolato, in un Paese democratico, a bilanciare, in via diretta ed immediata, i valori in gioco. Sono, queste, scelte rimesse necessariamente al Parlamento per ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale.
Come detto, le modalità di verifica dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura, sono questioni che avrebbe dovuto risolvere il Parlamento, i cui membri eletti dal popolo sono chiamati a dare una risposta ad un’esigenza di tutela, ad ascoltare i diritti reclamati dai cittadini.
Che la serie di questioni affrontate dalla Corte – sin dal 2018 – muova da una ritenuta illegittimità (parziale) dell’art. 580 c.p., nella parte in cui punisce l’aiuto al suicidio da parte di personale sanitario a soggetti che vogliono liberarsi dalle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, avrebbe potuto e dovuto trovare la sua naturale collocazione nella legge n. 219 del 2017 (contenente “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) piuttosto che in una sentenza costituzionale. Ma tant’è.
Come richiamato all’articolo 1, la legge 219 “tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.
I delicati bilanciamenti – come più volte richiamati dalla recente sentenza 135 del 2024 – sono individuabili fra due interessi fondamentali, entrambi radicati nell’art. 2 della Costituzione: il diritto ad una vita dignitosa ed un diritto ad una morte dignitosa, rispettose, entrambe di una prescrizione fondamentale: il rispetto della dignità umana.
Non ci nascondiamo tutte le questioni di carattere etico, religioso e ideologico agitate a livello sociale e politico, ma il Parlamento non può rimanere silente di fronte a questo problema, la cui soluzione, nell’esercizio della discrezionalità politica, incontra i limiti dettati dalle esigenze di rispetto dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali delle persone coinvolte.
Quali le novità introdotte con la sentenza (interpretativa di rigetto) n. 135 del 18 luglio scorso? In verità nessuna. Vengono ribaditi i requisiti per l’accesso al suicidio assistito stabiliti dalla sentenza n. 242 del 2019, compresa la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale. Tutti questi requisiti – (a) irreversibilità della patologia, (b) presenza di sofferenze fisiche o psicologiche, che il paziente reputa intollerabili, (c) dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, (d) capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli – devono essere accertati dal servizio sanitario nazionale, con le modalità procedurali stabilite in quella sentenza.
In secondo luogo, ci si è chiesti se fosse possibile estendere analogicamente la ratio della sentenza 242 del 2019 anche al caso in cui il paziente sia in condizioni di acuta sofferenza, determinata da una patologia irreversibile, senza essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Il quesito sottoposto alla Corte dal GIP di Firenze riguarda proprio quest’ultimo punto.
La Corte ha ribadito che ogni paziente ha un diritto costituzionale di rifiutare qualsiasi trattamento medico non imposto per legge, anche se necessario per la sopravvivenza. Il diritto, nella sostanza invocato dal GIP di Firenze, a una generale sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo è però più ampio del diritto a rifiutare il trattamento medico, e va necessariamente bilanciato con il contrapposto dovere di tutela della vita umana, specie delle persone più deboli e vulnerabili. Ciò al fine di evitare non soltanto ogni possibile abuso, ma anche la creazione di una «pressione sociale indiretta» che possa indurre quelle persone a farsi anzitempo da parte, ove percepiscano che la propria vita sia divenuta un peso per i familiari e per i terzi.
La Corte ha nuovamente ribadito che il compito di individuare il punto di equilibrio più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione e il dovere di tutela della vita umana spetta primariamente al legislatore, con l’osservanza dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
Tuttavia, la Consulta ha precisato che la nozione di trattamenti di sostegno vitale deve essere interpretata dal servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni in conformità alla ratio della sentenza n. 242 del 2019. Questa sentenza si basa sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività.
Si precisa, quindi, che, ai fini dell’accesso al suicidio assistito, non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali. Dal momento che anche in questa situazione il paziente può legittimamente rifiutare il trattamento, egli si trova già nelle condizioni indicate dalla sentenza n. 242 del 2019.
È però necessario che le condizioni e le modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio siano verificate da strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge n. 219 del 2017, previo parere del comitato etico territorialmente competente, senza che possa venire in rilievo l’ipotetica equivalenza di procedure alternative in concreto seguite.
Infine, la Corte auspica la garanzia a tutti i pazienti di una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010.
Noi, oramai avvezzi ai provvedimenti “toppa”, restiamo, nel frattempo, in attesa che il Parlamento si svegli dall’eterno letargo.
Gianluca Ruggiero
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