Gianluca Ruggiero per Civico20News: “Un esempio di schizofrenia legislativa”
L’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio, dopo il sì definitivo della Camera dei deputati del 10 luglio scorso, sta suscitando fra gli operatori giuridici numerose perplessità, evidenziando una schizofrenia legislativa parecchio pericolosa per la tenuta del sistema.
L’abrogazione, voluta fortemente dalla classe politica degli amministratori pubblici non contrattualizzati (in primis i sindaci, gli assessori e i governatori regionali) ha lo scopo di evitare che il giudice possa intromettersi nell’attività amministrativa, così stravolgendo il principio illuminista della separazione dei poteri, dimenticando però quello, sempre di derivazione montesquieuiana, secondo cui “le pouvoir arrête le pouvoir”.
Se l’intenzione legislatore era ed è quella di sottrarre alla valutazione del giudice l’esercizio distorto del potere discrezionale della pubblica Amministrazione, già evidenziata con la zoppicante aggiunta del 2020 «e dalle quali non residuino margini di discrezionalità», nessuno sembra essersi accorto che nel diritto pubblico lo studio del potere discrezionale è da sempre non solo il “punto logico di partenza” ma anche il punto logico di arrivo e definizione di molte costruzioni e teorie, sia di carattere generale che rilevanti sul terreno pratico-applicativo.
Più che incentrarsi sulla scarsità di tipicità della fattispecie, cui si ricollegava una strumentalizzazione della norma come reato-spia per accedere a più gravi reati di corruzione o di concussione, ci si è limitati agli sconfortanti risultati dalla sua applicazione: 5 mila e 418 procedimenti di cui 4 mila e 622 si sono chiusi nell’ufficio del Giudice delle indagini preliminari: nove condanne e 4 mila 613 archiviazioni. Le restanti approdate al dibattimento in tribunale si sono concluse con diciotto condanne. Se aggiungiamo i trentacinque patteggiamenti, arriviamo a sessantadue (dichiarati) colpevoli su 5 mila e 418.
Perché questo? Perché la norma è stata scritta per non essere applicata ed è questo il difetto genetico di cui dicevo (ma le difficoltà non mancavano nemmeno prima della riforma del 1997).
Più un’area politica è al centro del dibattito generale, più è probabile che si verifichi un divario tra l’espressione simbolica delle aspettative e l’efficacia delle misure operative. Quanto meno “politicizzata” è una legge, tanto più è probabile che l’influenza delle organizzazioni attuatrici si faccia sentire già nella fase di formulazione. Per “politicizzazione” intendiamo il processo in cui i soggetti coinvolti nel processo decisionale politico portano le alternative nel dibattito pubblico e cercano di sostenere le loro preferenze mobilitando le opinioni nei gruppi sociali e nei mass media.
Quanto più forte è la politicizzazione del processo legislativo, tanto più le alternative vengono presentate in modo semplificato e tanto meno possono essere trasmessi argomenti differenziati come le interrelazioni tra attuazione, efficacia e impatto. Maggiore politicizzazione significa maggior pressione a non risolvere efficacemente le contraddizioni tra le pretese di validità e la validità effettiva, portando alla ribalta i significati simbolici del mantenimento delle pretese normative. Per cui si dice che, se la norma non funziona, tanto vale abrogarla.
A ben vedere, abrogare l’abuso d’ufficio, significa voler rinunciare a punire le condotte di prevaricazione dei pubblici funzionari in materia concorsuale, appalti pubblici, edilizia e favoritismi vari.
Inoltre, l’abrogazione secca dell’art. 323 c.p. comporta, da una parte, la caducazione dell’“abuso in danno” di terzi ma anche dell’“abuso a vantaggio” del pubblico ufficiale; d’altro lato, implica la cancellazione della rilevanza penale del c.d. conflitto di interessi, la cointeressenza cioè del pubblico agente in affari pubblici, quando costui ha da guadagnarci dall’affare pubblico gestito e non si astiene dal provvedere.
Si invoca, da parte della classe politica, una persistente paralisi della pubblica amministrazione dovuta alla “paura della firma”, espressione stereotipa con la quale si giustifica la lentezza burocratica del pubblico funzionario che, per evitare di emanare atti illeciti, sovraccarica di adempimenti – anche non richiesti – la procedura amministrativa.
In realtà è un falso problema, un alibi. Il pubblico funzionario sa benissimo quello che può o non può fare e, se emana un atto illegittimo (per violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza) questo sarà sindacabile da un Tribunale ammnistrativo regionale o in sede di ricorso straordinario.
Un modo per ridurre gli affari penali e, soprattutto, di evitare che le carriere pubbliche vengano rovinate da una semplice iscrizione nel registro degli indagati (inevitabile, stante l’obbligatorietà dell’azione penale) è quello di rendere al massimo efficace il parametro della “ragionevole previsione di condanna” introdotto dalla riforma Cartabia, applicato dal pm e dal gup, tese a richieste di archiviazione e sentenze di non luogo a procedere.
Il legislatore distrugge il mostro che egli stesso ha creato, offrendo una nuova “licenza a delinquere”.
Con il decreto legge 4 luglio 2024, n. 92 (c.d. decreto carcere), è stato inserito nel codice penale un nuovo art. 314 bis secondo cui «Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto».
Si tratta di una norma abrogata nel 1990 per ridurre la portata del peculato ordinario di cui all’art. 314 c.p. e miracolosamente resuscitata dal Governo con un discutibilissimo ricorso alla decretazione d’urgenza, per mettersi – maldestramente – al riparo da eventuali procedure di infrazione da parte dell’Unione Europea per aver indebolito l’intervento penale in materia di corruzione.
Esiste, infatti, una connessione politica tra la corruzione, l’abuso d’ufficio e il comportamento infedele, in particolare nelle vere e proprie “cleptocrazie” (Stati saccheggiatori), dove i controlli parlamentari sono blandi o inesistenti, così come quelli svolti internamente dalla pubblica amministrazione, dove l’accesso alla magistratura amministrativa è spesso scoraggiato da esosi contributi unificati e dove la magistratura penale non svolge una funzione “filtro” dei comportamenti punibili (ma che rappresenta pur sempre quel minimo di tutela che i cittadini invocano).
Si tratta della cosiddetta grande corruzione. La situazione è caratterizzata da favoritismi e nepotismo, corruzione, appropriazione indebita di denaro pubblico, contratti fittizi, strategie di eliminazione di concorrenti politici ed economici, etc.
Già da una prima lettura ci si accorge di essere al cospetto di una norma disfunzionale, i cui risultati in termini applicativi saranno deludenti, perché ripropone la stessa formulazione dell’abrogato abuso d’ufficio (specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità) con tutti i problemi che ne derivano dal punto di vista applicativo.
In primo luogo perché non risolve, come dovrebbe i problemi legati alle condotte distrattive realizzate senza violazione di legge; in secondo luogo perché punisce meno severamente tutte quelle ipotesi di uso indebito di cose di proprietà della pubblica amministrazione, vietate dal Codice di comportamento de pubblici dipendenti.
In questa prospettiva non sussiste peculato per distrazione secondo il nuovo 314 bis c.p. laddove al denaro o al bene mobile sia data una nuova destinazione, diversa da quella fissata dalla disciplina interna dell’ente pubblico cui appartiene il pubblico agente, ma comunque funzionale a soddisfare interessi istituzionali dell’ente stesso.
Quali i margini di applicabilità della nuova norma che sembra possedere tutte i difetti normativi del precedente abuso d’ufficio, del quale ritaglia una porzione di tipicità? Pochi, a ben vedere. Verosimilmente gli stessi numeri invocati per giustificare la necessità di abrogare l’art. 323 c.p. Ai posteri l’ardua sentenza.
Gianluca Ruggiero
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