Come sfruttare ideologicamente un evento senza ideologia
Un tempo, qualche anno fa, le Olimpiadi erano una pausa rasserenante dagli impegni della vita quotidiana, un momento in cui la gente normale riprendeva fiato dall’ansietà dell’esistenza tramite il puro e limpido spirito agonistico; proprio come, nella Grecia antica, era un momento di tregua nelle guerre che laceravano il mondo ellenico.
Le Olimpiadi parigine contemporanee sono state invece un fastidioso momento di conflitto ideologico che ha trascinato lo spirito olimpico, per definizione sereno ed elevato, nel fango di una politica che non era neppure più tale: se avesse avuto un motivo alto, umanistico, ispirato – ad esempio l’opposizione a una guerra, a un genocidio o a una violazione palese di diritti umani – avrebbe avuto un senso; fare però di un’Olimpiade il podio propagandistico di una opinabilissima concezione woke dell’esistenza rappresenta non solo la negazione di ogni perenne e consolidata filosofia sportiva ma anche il tentativo di imporre al mondo la visione di una piccola e aggressiva minoranza sociale, quella LGBTQ, qualunque cosa voglia dire questa sigla intricata.
Perfino un giornalista pacato, e certo non ascrivibile al rozzo popolo vannacciano, come Federico Rampini ha definito la comunità LGBTQ “potentissima e cattivissima, che è arrivata a punte di aggressività”.
Non staremo a rimescolare le tante opinioni sulla supposta profanazione dell’Ultima Cena o sulle sberle del pugile algerino dal sesso incerto (o certissimo per chi guardi anche solo una sua fotografia) contro la povera Angela Carini, fatti su cui si è detto fin troppo e su cui si rischia il cortocircuito ideologico; vorremmo invece puntualizzare due aspetti più generali.
Il primo è l’indubbia responsabilità di una Francia macroniana in cerca di identità. Non negheremo mai la nostra eterna simpatia e la sincera riconoscenza verso una grande nazione che ci ha regalato Montaigne, Pascal, Molière, Proust, Camus e un’infinità di altri geni in ogni campo artistico e scientifico; una nazione che ha dato al mondo, forse più di ogni altra, un’impareggiabile costruzione di intelligenza e cultura.
Ma lo spettacolo di dilettantismo culturale, di infantilismo ideologico, di scenografia disneyana e, soprattutto, di ostentata volontà inclusiva che essa ha voluto imporci con l’ouverture olimpica è stato veramente di basso livello.
Che la laicità sia l’asse portante della Francia sin dai tempi di Voltaire e degli altri illuministi – sia sotto l’aspetto culturale che sotto quello sociale e politico – è un dato di fatto innegabile e che deve essere riconosciuto a quella nazione come un alto e apprezzabile principio di conoscenza, di cultura e di convivenza, e che sta anche alla base di un altro encomiabile principio come quello della tolleranza; ma nel momento in cui esso diventa un dogma e un fattore di paralisi intellettuale è certamente lecito metterlo sotto analisi.
Purtroppo il triste dramma della laicità è quello di non potersi sottrarre alla critica di se stessa.
Ma se laicità significa soprattutto stare al di fuori di ogni dogmatismo religioso o non religioso, la Francia non ha onorato, e non onora, questo principio nel momento in cui ha abbracciato appassionatamente quella forma di supposta laicità che va sotto il nome di ideologia woke fatta di irrazionalità gender, di aggressività omofila, di femminismo uterino, di inclusività ossessiva, di fluidità ovviamente indefinita.
E’ come se sul tronco robusto della razionalità umanistica e illuministica che in Francia va dal medioevo sino al positivismo si fosse innestato un ramo molto più fragile fatto di una cultura esile e sognante, di concetti vaghi, insicuri, opinabili, tutti verbali e verbosi, fortificati però da un’arroganza di fondo, da una rozzezza intellettuale, e infine da un’aggressività concettuale che può facilmente degenerare – e in altri contesti l’ha già fatto – in aggressività fisica o, peggio, in intolleranza istituzionale.
In fondo la cultura woke sta alla cultura vera, come la new age, un po’ di anni fa, stava alle religioni storiche.
E il secondo aspetto, che ci porta fuori dalla contingenza olimpica francese, ma che costituisce un esempio solare di ciò che sta succedendo in tutto l’Occidente, è proprio quello dell’invasività più o meno sottile, più o meno inarrestabile, di questa nuova cultura mondiale che ricorda sempre più il vecchio film cult di Don Siegel del 1956 L’invasione degli ultracorpi in cui gli esseri umani venivano infiltrati nel sonno (e, sottolineiamo, nel sonno) da invisibili esseri alieni che ne prendevano la forma e li riducevano a replicanti tutti uguali e ferocemente in caccia di uomini o donne diversi, ancora non uniformati, per renderli uguali a sé o eliminarli.
Un processo che è stato analizzato da una schiera di psicologi, sociologi, intellettuali che vanno da Le Bon a Bernays, da Chomsky a Overton, intellettuali che ci mettono in guardia da quei processi di “ingegneria del consenso” che oggi, con la nuova potenza di fuoco dei mezzi di comunicazione, è diventata un vero e proprio pericolo per la nostra integrità intellettuale e morale.
L’idea di “inclusività” che, nelle stesse parole degli organizzatori parigini, è stata alla base dello spettacolo inaugurale delle Olimpiadi, è una delle colonne portanti di questa nuova ideologia che lentamente ci viene imposta, un’idea che – ben lungi dall’assicurare una benevola e amorevole accoglienza di chi finora è stato emarginato – sembra piuttosto tendere proprio a quell’omologazione del film di Siegel in cui tutti diventano uguali nel corpo e nella mente e vanno in caccia dei “divergenti”.
Tantissimi nel mondo, e in Italia, si sono chiesti quale fosse il nesso fra giochi olimpici e questa visione omologante in cui prevalevano un omosessualismo e un genderismo prorompenti e, per molti aspetti, fastidiosi.
La risposta è, a un tempo, difficile e semplice. In apparenza nulla lega le due cose, nella sostanza bisogna ricordare che ogni stato e ogni regime hanno sempre usato le Olimpiadi, spettacolo coreografico e mondializzato, per promuovere se stessi, a partire da quelle del 1936 a Berlino aperte ufficialmente da Hitler e peraltro stupendamente mitizzate da Leni Riefenstahl con la sua cinematografia sontuosa, monumentale ed eroica, a dimostrazione di come ogni potere tenda a sfruttare al massimo il mezzo di comunicazione più efficace per celebrare se stesso.
Discorso simile per le ultime Olimpiadi di Pechino a gloria di una Cina ancora comunista ma avviata sulla strada della modernità globalista.
Macron e i suoi Riefenstahl di oggi hanno fatto esattamente questo, innestando sulla antica e perenne radice della laicità francese il nuovo mondo ideologico che la cultura (o pseudo-cultura) genderista gli offre come manifesto di modernità, come narrazione valida per tutto e per tutti proprio in virtù della sua genericità e sedicente inclusività, una pappa buona per ogni palato – molto cheap ma anche apparentemente elevata – e dunque facilmente spendibile in chiave politica, autocelebrativa e propagandistica.
Aspettiamo con ansia le prossime Olimpiadi, per capire se lo spettacolo parigino è stato solo un eccesso di spettacolarità ideologica o se si tratta purtroppo di una tendenza che si sta consolidando.
Civico20News
Elio Ambrogio
Editorialista
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