Di Alessandro Mella
Nell’autunno del 1943 l’Italia attraversava uno dei periodi più difficili della propria lunga storia.
A luglio il regime fascista era imploso su se stesso, l’iniziativa del Gran Consiglio permise a Vittorio Emanuele III di avere il casus belli istituzionale per liquidare il capo del governo. In un paese ormai a pezzi e spossato inevitabile fu l’armistizio annunciato improvvidamente dagli alleati l’8 settembre, ben prima delle date concordate.
A questi due momenti era seguita l’incursione dei paracadutisti tedeschi sul Gran Sasso per “liberare” Mussolini e portarlo a Monaco ove il dittatore, volente e nolente, si trovò a dover riprendere le redini del fascismo. Una scelta obbligata, avrebbe voluto ritirarsi od almeno così scrisse, ma Hitler gli spiegò chiaramente che in caso contrario l’Italia avrebbe invidiato la sorte, assai infelice in verità, della martirizzata Polonia. Da Radio Monaco Mussolini tornò a far sentire la sua voce, ora stanca e disillusa, annunciando i “suoi” propositi:
Mussolini ha dichiarato che lo Stato repubblicano che egli vuole instaurare sarà nazionale e sociale nel senso più lato della parola, precisando che nell’attesa che il movimento si sviluppi, i postulati da realizzare sono i seguenti: 1) Riprendere le armi a fianco della Germania, del Giappone e degli altri alleati. 2) Preparare senza indugio la riorganizzazione delle nostre forze armate attorno alle formazioni della Milizia. 3) Eliminare i traditori; in particolar modo quelli che sino alle 21.30 del 25 luglio militavano, talora da parecchi anni, nel Partito e sono passati nelle file del nemico. 4) Annientare le plutocrazie parassitarie e fare del lavoro finalmente il soggetto dell’economia e la base infrangibile dello Stato.
Mussolini ha concluso chiamando le Camicie nere e il popolo al lavoro e alle armi e dichiarando che «la nostra volontà, il nostro coraggio, la nostra fede ridaranno all’Italia il suo volto, il suo avvenire».(1)
Fu in questo quadro che nacque lo stato fascista repubblicano i cui ministeri furono disposti lungo le rive del Lago di Garda. Mussolini pose la propria residenza presso la Villa Feltrinelli e qui, in un primo tempo, anche il proprio ufficio. Tuttavia, molte motivazioni lo spinsero a trasferire la “sede istituzionale” ad ottocento metri circa dalla sua residenza. C’è chi dice che l’ufficio nell’abitazione privata si fosse fatto troppo piccolo, chi che la moglie Rachele non tollerasse più l’intenso via vai e chi invece ipotizzò che la stessa moglie avesse avuto in verità un altro ruolo nel quadro della perpetua competizione sentimentale con Claretta Petacci abitante a Gardone alla Villa Fiordaliso:
In un primo tempo lo studio di Mussolini venne sistemato al primo piano della Villa Feltrinelli, accanto alla camera da letto, dove si trova l’ampio baldacchino stile Luigi XIV. Ma poi quando le scenate della moglie diverranno vieppiù intolleranti, l’ufficio si trasferisce alle Orsoline, al centro del paese.
Mussolini vi lavora con maggior tranquillità senza l’incubo di veder comparire la moglie col mattarello in mano. (2)
Sta di fatto che a questo punto il duce trasferì la presidenza del consiglio della Repubblica Sociale Italiana presso un altro stabile poco distante e cioè la villa detta “delle Orsoline”. (3)
Nome non casuale, ma dovuto alla presenza delle allieve delle Suore Orsoline fino a quell’infausto autunno.
L’edificio ottocentesco, edificato anche questo dai Feltrinelli, si trovava, e si trova oggidì, al centro di Gargnano, lungo il lago e ci si giunge attraverso una piccola strada che attraversa il centro storico. Nel novembre 1943 esso fu requisito e divenne de facto il vero cuore della piccola repubblica. Sede delle segreterie di Mussolini e del suo ufficio personale. Luogo in cui funzionari, militari, giornalisti e mille altre categorie si alternavano per udienze ed incontri.
Un centro del, residuo ed effimero, potere del regime, un potere ipotecato, condizionato da una sorveglianza congiunta divisa tra italiani e molti tedeschi sorveglianti. Tedeschi, occorre aggiungere, malvolentieri tollerati dal capo dello stato repubblicano:
Ogni giorno si alza verso le sette e mezzo, dà un’occhiata piena di disgusto alle acque azzurre del lago. Indossa l’uniforme di caporale della milizia senza gradi né nastrini, vecchia, logora perfino macchiata. Poi, accompagnato dal segretario Dolfin, va a Villa Orsoline dove ha l’ufficio. Legge riassunti-stampa, rapporti, detta lettere, riceve visitatori, scrive articoli (gli è tornata la passionacela giornalistica). Di tedeschi ne riceve il meno possibile, perché è in fase violentemente antitedesca. (4)
Furono innumerevoli gli episodi storici, legati a quella infelice stagione della politica e della storia italiana, che si verificarono tra le mura di questa sobria, ma graziosa palazzina lacustre. Un luogo tuttavia placido, dove la violenza e gli orrori della contrapposizione tra i fascisti repubblicani al loro disperato crepuscolo e le formazioni della Resistenza alla ricerca di una sospirata libertà giungevano solo ovattati attraverso rapporti, relazioni e notiziari spesso sterili e burocratici.
E poi le decisioni impopolari, le ingiustizie, i momenti disperati, i confronti serrati, la disperazione di un mondo claudicante, moribondo, ormai al proprio feroce e violento tramonto.
Per mesi qui si consumarono i momenti fatali di un regime che moriva dispensando morte e sofferenze, aggrappato disperatamente alle ultime energie di un occupante straniero ancora più feroce e forse ancora più disperato. Ma anche momenti incredibili al limite del paradossale:
Nel dicembre ’44, Mussolini incontrò in un’anticamera di villa delle Orsoline un giovane ignoto che a un certo punto gli disse di essere un partigiano. Ci fu un lungo silenzio poi il dittatore ribatté: «Se avessi la tua età lo sarei anche io». (5)
Oggi la Villa delle Orsoline è una struttura dell’Università degli Studi di Milano e quel passato oscuro è stato consegnato ai libri di storia.
I turisti passano e non sempre conoscono i fatti che vi accaddero, le tragedie che riempirono la più grande tragedia nazionale, momenti di cui dovremmo conservare memoria per impedire che tornino a verificarsi. Perché la storia della Repubblica Sociale fu una pagina su cui ancora si dovrebbe riflettere. Una tragedia che travolse banditi in divisa e molti in buona fede animati da sentimenti che magari non potremo mai giustificare, ma dovremo cercare di capire. Perché la storia questo dovere impone: Capirla per non ripeterla nei suoi lati oscuri.
Alessandro Mella
NOTE
1) Il Corriere Eusebiano, 73, Anno XXXVI, 22 settembre 1943, p. 1.
2) La Stampa, 210, Anno CIX, 19 settembre 1977, p. 7.
3) Il nome della RSI fu deciso proprio nel mese di novembre: «La denominazione del nuovo. Stato Nazionale Repubblica Sociale Italiana. Sotto la presidenza del Duce, Capo dello Stato e Capo del Governo nazionale repubblicano, si è riunito mercoledì, il Consiglio dei Ministri, presenti lutti i componenti. Fungeva da segretario il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Nel corso della riunione sono state prese decisioni di fondamentale importanza in tutti i settori della vita nazionale. Il Consiglio dei Ministri ha innanzitutto deciso che dal 1° dicembre p. r. lo Stato Nazionale Repubblicano prenda il nome, definitivo di Repubblica Sociale Italiana (…)». (Il Piccolo, 43, Anno XX, 27 novembre 1943, p. 1).
4) Stampa Sera, 134, Anno CXVII, 5 giugno 1985, p. 21.
5) Vettori, Vittorio, Mussolini antifascista, 1969, Armando Editore, p. 113.
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