Quando vinse il “Listone” fascista (Di Aldo A. Mola)
I soldi, non la libertà: la vera posta in gioco
Gli italiani furono ingenue vittime del tiranno o suoi volonterosi complici quando nelle elezioni del 1924, 1929, 1934… e sino al crollo nella guerra del 1940-43 plaudirono il Capo che, come il pifferaio di Hamelin li stava conducendo alla rovina? La “narrazione” compiacente li ha dipinti come vittime del regime che li ridusse ad automi. Vent’anni dopo, il 12 gennaio 1944, il glaciale vicepresidente del Consiglio del popolo sovietico Andrea Juanuarevic Vyshinsky, pubblico accusatore nei processi ai “traditori del partito” fucilati su ordine di Stalin, in un colloquio a Salerno con Renato Prunas, segretario generale degli Affari Esteri del governo Badoglio, disse che «tutti i popoli erano almeno in parte responsabili dei loro governi e il popolo italiano pagava molto duramente gli errori e le colpe del regime che si era per vent’anni prescelto». Bando, dunque, alla pretesa innocenza perduta per colpa di Mussolini. Gli italiani erano stati complici del duce. Lo ribadì il nuovo rappresentante dell’URSS in Italia, Aleksandr Bogomolov che a inizio marzo del 1944 stipulò il riconoscimento italo-russo, una trama da tenere nascosta sino alla firma. A Badoglio consigliò di fingere di subirlo per poi mettere gli anglo-americani dinnanzi al fatto compiuto. Usò la tecnica suggerita a Riccardo III da lord Buckingham quando il popolo gli chiese di mettersi alla sua testa: «fare come la verginella che dice di no ma ci sta» (lo scrisse Shakespeare). L’accordo fece uscire l’Italia dal cono d’ombra nel quale gli Alleati la inchiodavano malgrado la dichiarazione di guerra contro la Germania proclamata da Vittorio Emanuele III, Fu un capolavoro diplomatico che mandò in bestia gli angloamericani, subito decisi a imporre al Re la rinuncia al potere. In aggiunta, ma senza esito, Bogomolov chiese anche una base aerea in Puglia per un “modesto numero” di aviatori sovietici impegnati a soccorrere Tito: era la ciliegina sulla torta della ritrovata amicizia italo-russa risalente alla visita dello zar Nicola II a Vittorio Emanuele III nel Castello di Racconigi il 29 ottobre 1909. La grande politica è fatta anche di accordi sottobanco, rispondenti agli interessi generali permanenti dei popoli. Lo sapevano i vertici del “sovietismo”: tra il tiranno e il popolo si instaura un meccanismo di complicità che dura sino quando il primo soddisfa i bisogni elementari del secondo. In caso contrario il castello incantato crolla di schianto, come avvenne in Italia il 25 luglio 1943. Ma per vent’anni le piazze piene di folle plaudenti al duce dissero qual era il sentimento prevalente nelle masse: il “consenso”. Il “popolo d’Italia”, insomma, non fu affatto “innocente”. Se ne ebbe la prova alle elezioni del 6 aprile 1924, vinte dal duce del fascismo con grande soddisfazione di Parigi, Londra e soprattutto Washington. Un governo sorretto dai “poteri forti” e dal seguito popolare, qual era il suo, avrebbe restituito il gigantesco debito di guerra: la vera posta in gioco nelle relazioni tra l’Italia e gli altri grandi Paesi. Chi mai avesse nutrito qualche dubbio, lo comprese il 7 febbraio 1924, quando il governo Mussolini riconobbe l’Urss di Stalin. Sette giorni prima, del resto, gli inglesi avevano fatto altrettanto. Al ricevimento all’ambasciata sovietica in Roma furono invitati gerarchi fascisti, industriali, banchieri e massoni, ma nessun esponente della sinistra, men che meno i socialisti Filippo Turati e Giacomo Matteotti, in quei mesi perseguitati a sangue dai fascisti. Per capire la Storia bisogna stare ai fatti. Vediamoli.
Urne truccate?
All’elezione della Camera dei deputati, il 6 aprile 1924, gli italiani decretarono il successo straripante del Partito nazionale fascista (PNF). Approvarono a larghissima maggioranza il governo presieduto da Mussolini. Insediato il 31 ottobre 1922, contava quattro ministri nazionalfascisti: Luigi Federzoni alle Colonie, Aldo Oviglio alla Giustizia, Alberto De Stefani alle Finanze e Costanzo Ciano, da poco subentrato ad Antonio Colonna di Cesarò, teosofo e democratico sociale. Gli altri erano liberali di varie tendenze e cattolici. Il generale Armando Diaz era ministro della Guerra; il grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel della Marina; il filosofo Giovanni Gentile dell’Istruzione. Affiancavano il “duce”, ministro dell’Interno, degli Esteri e commissario per l’Aeronautica.
Il 16 marzo, venti giorni prima del voto, Vittorio Emanuele III aveva conferito a Mussolini il Collare della Santissima Annunziata, che comportava il rango di “cugino del Re”. Non fu una sbandata filofascista del sovrano, ma il tributo al presidente del Consiglio che il 27 gennaio, trattando con la Jugoslavia, aveva assicurato Fiume all’Italia.
Il 25 gennaio 1924 fu sciolta la Camera eletta il 15 maggio 1921 con suffragio universale e riparto dei seggi in proporzione ai voti ottenuti. In tre anni essa aveva dato pessime prove: quattro diversi governi nei primi quindici mesi, seguiti dalla crisi extraparlamentare di fine ottobre 1922, riportata dal Re nei binari costituzionali. All’insediamento del governo, Mussolini l’aveva insultata e piegata ai suoi ordini.
Per l’elezione della nuova Camera, nel 1924 vennero chiamati alle urne quasi 12 milioni di maschi maggiorenni. Ai seggi andarono in 7.614.451, pari al 63.76%, il 5% in più rispetto alle precedenti votazioni: una tra le percentuali più alte dal 1861. La Lista nazionale, voluta e orchestrata da Mussolini, ottenne il 60,09% dei voti validi e, come previsto dalla legge, due terzi dei seggi: 356 deputati sui 535. Una Lista nazionale bis, allestita per concorrere al riparto dei seggi riservati alle minoranze e presente in quattro circoscrizioni (Toscana, Lazio-Umbria, Abruzzi Molise e Puglie), ebbe quasi 350.000 voti e 19 seggi. Gli scranni residui furono ripartiti tra altre diciotto liste. A eccezione del Partito popolare, fondato da don Luigi Sturzo, che conquistò 39 seggi contro i 106 uscenti, e del Partito socialista unitario, capitanato da Giacomo Matteotti, suo segretario, e da Filippo Turati, che ne ottenne 24 contro i 150 del 1919, gli altri partiti non riuscirono a presentarsi in tutte le circoscrizioni del collegio unico nazionale.
Gli unici gruppi parlamentari di qualche peso risultarono quelli eletti per il Partito socialista italiano (22 seggi), il Partito comunista d’Italia (19), il Partito democratico sociale italiano (10), l’opposizione costituzionale (8: ma un’altra lista omonima ne ebbe 5) e il Partito repubblicano italiano (7). Varie liste liberali (come quella capitanata da Camillo Corradini) ottennero un paio di seggi ciascuna o appena uno. I liberali di Giovanni Giolitti, cinque volte presidente del Consiglio tra il 1892 e il 1921 e ancora ritenuto possibile capo del governo, conquistò tre seggi in Piemonte (contro i 31 della Lista nazionale) e uno in Liguria (contro i 12 dei “fascisti”). Validi come “testimonianza”, politicamente un’inezia.
Il successo della Lista nazionale andò oltre le più ottimistiche previsioni di Mussolini. Esso dipese anche dal maggiore afflusso alle urne in regioni lontane dal “fascismo delle origini”. Nelle Puglie votò l’81,5% degli elettori; in Emilia il 74,73% e in Toscana quasi il 73%. Erano regioni prima a maggioranza socialista o (come le Puglie) liberale conservatrice. Quasi per misteriosa (e durevole) legge del pendolo, risultarono fascistissime. Nel dopoguerra tornarono “rosse”. In Lombardia, ove il partito popolare aveva solide basi, votò il 72%. In Liguria e in Piemonte, già roccaforti liberali, votò appena il 59% e il 54%.
Secondo Giovanni Sabbatucci, storico di valore, la vittoria della Lista nazionale va considerata “governativa” molto più che “fascista”. A prevalere non furono il PNF o il duce ma una compagine variegata, capace di raccogliere consensi nelle isole (quasi il 70% dei votanti), nell’Italia centrale (76%) e nel Mezzogiorno (81,5%). In regioni conservatrici e inclini a seguire le indicazioni dei notabili la il “Listone” comprese i nomi più rappresentativi della tradizione liberale: gli ex presidenti del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando in Sicilia e Antonio Salandra in Campania, oltre a Enrico De Nicola in Campania. Tutti e tre liberali, portarono a strascico i loro elettori sotto l’insegna del Fascio littorio, con unico contrassegno elettorale presente in tutti i collegi nel 1921, mentre i liberali ne avevano inventati diversi e talora anche un po’ ridicoli.
Durante la campagna elettorale del 1924 i fascisti perpetrarono violenze d’ogni genere ai danni delle opposizioni, specialmente dei due partiti socialisti e dei fascisti dissidenti. Non solo impedirono il libero svolgimento di comizi ma assalirono e devastarono sedi e persino le abitazioni degli oppositori, li aggredirono e malmenarono. Si registrarono anche alcuni morti e molti feriti (ma molti meno rispetto al 1921), soprattutto per opera di “ras” locali, mentre il presidente-ministro dell’Interno cercava di offrire all’estero l’immagine di un Paese più o meno ordinato. Dove le opposizioni (liberali, socialisti e cattolici) avevano basi più antiche e consistenti la Lista nazionale stentò ad affermarsi. Ottenne poco più del 35% a Torino, Milano e Venezia. Anche lì, però, superò la fatidica soglia del 25% dei voti validi: sufficiente per ottenere i due terzi dei seggi, come previsto dalla legge elettorale.
La trappola: la “Legge Acerbo”
La partita decisiva per le sorti dell’Italia non venne giocata alle urne il 6 aprile 1924 ma nell’estate del 1923. Per comprenderlo occorre compiere due passi all’indietro. Il 13 novembre 1922 Michele Bianchi, uno dei quadrumviri della cosiddetta “marcia su Roma”, nettamente repubblicano, dichiarò in un’intervista che urgeva passare dal proporzionale a un maggioritario con assegnazione «dei due terzi dei posti alla lista che avrà la maggioranza». La proposta incontrò l’ostilità dei “ras” che preferivano i collegi uninominali per esser certi della propria elezione. Era il caso di Roberto Farinacci, arroccato a Cremona. Il 16 marzo 1923 il Gran consiglio del fascismo, che non aveva alcun ruolo istituzionale ma era un “consesso privato”, approvò la linea di Bianchi. Il 4 giugno il consiglio dei ministri, che, come detto, non era composto da soli fascisti, approvò il disegno di legge approntato dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giacomo Acerbo, massone della Gran Loggia d’Italia. Esso previde l’istituzione del collegio unico nazionale e l’assegnazione dei due terzi dei seggi alla lista che avesse superato il 25% dei voti, mentre l’altro terzo sarebbe stato ripartito tra le liste soccombenti in proporzione ai voti ottenuti. La soglia del premio di maggioranza, a ben vedere modesta, fu individuata sia perché nelle elezioni del 1921 nessun partito l’aveva raggiunta sia perché Mussolini non voleva rischiare l’insuccesso. Aveva presente lo sfacelo delle sinistre. Nel 1921 i comunisti d’Italia si erano separati dai socialisti e nell’ottobre del 1922, poche settimane prima dell’avvento del suo governo, questi si erano a loro volta divisi in due. Nulla però escludeva che la sfida elettorale potesse generare la convergenza di tutte le sinistre. Un tentativo di accorpamento venne tentato, ma fallì per le pretese egemoniche dei comunisti, dipendenti da Mosca, come ricorda Gianpaolo Romanato nella bella biografia di Matteotti, edita da Bompiani. Non solo. Il Partito popolare aveva subito due scissioni, che però riguardavano i parlamentari. Se è vero che la Santa Sede non si riconosceva nel partito fondato da don Sturzo (ormai emarginato) il suo elettorato avrebbe potuto ricompattarsi sotto una nuova guida capace.
Il 9 giugno Mussolini illustrò alla Camera il disegno di legge. Come previsto dai regolamenti, per il suo esame il presidente della Camera, De Nicola, nominò una commissione di diciotto deputati. Presieduta da Giolitti essa comprese tre ex presidenti del Consiglio (Salandra, Orlando e Bonomi) e i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari. Per il PNF ne fecero parte Michele Terzaghi (massone) e Raffaele Paulucci, ai quale si affiancò Paolo Orano del gruppo misto, massonofago e fascista a sua volta. Tra i diciotto si contarono Turati, il popolare Alcide De Gasperi, il repubblicano Eugenio Chiesa, il socialista Costantino Lazzari, il comunista Graziadei. A luglio la Commissione concluse approvando la proposta di legge con dieci voti (fascisti e liberali, incluso Antonio Casertano, ex democratico e massone) contro otto.
In Aula si opposero non solo le sinistre ma anche il popolare Giovanni Gronchi che propose l’innalzamento della soglia premiale dal 25 al 40%: molto rischiosa per Mussolini. In una riunione ai margini della discussione, a strettissima maggioranza (41 contro 39, per alzata di mano, conteggiati “a vista”) i popolari decisero di approvare l’ordine del giorno favorevole alla legge. Dopo altre schermaglie si arrivò al dunque. Ancora una volta i popolari chiesero la soglia al 40% e l’assegnazione di tre quinti dei seggi anziché dei due terzi. Messa ai voti la legge ottenne 223 “sì” contro 123 “no”. Essa fu approvata da poco più del 40% dei 535 deputati. Poiché i 150 assenti erano quasi tutti dell’opposizione, vuol dire che alcuni popolari e (secondo Sabbatucci) anche alcuni socialisti votarono a favore, fidandosi della mano tesa da Mussolini, che proclamò in aula la vocazione “elezionistica” del fascismo. Promise lungo per mantener poi corto. La possibilissima bocciatura della legge avrebbe comportato la caduta del governo ma, come amaramente costatò Turati, l’opposizione aveva “paura di vincere”: «Siamo stati noi – aggiunse – a dare la vittoria al fascismo». Al Senato la legge passò il 15 novembre 1923 con larghissimo vantaggio: 165 voti contro 41.
Alle urne
Fatta la legge, urgeva preparare il successo alle urne. Nessuno sapeva quale fosse l’effettivo seguito di Mussolini. Alle elezioni del 16 novembre 1919 aveva raccattato appena 5.000 voti e 2.500 preferenze personali per una lista comprendente Arturo Toscanini, Filippo Tommaso Marinetti, Guido Podrecca e altri nomi altisonanti. Nel 1921 erano stati eletti 36 fascisti in blocchi nazionali comprendenti liberali, cattolici, ex combattenti, agrari, industriali ma nessuno sapeva quanti voti avessero avuto. Il partito venne fondato solo a novembre. Alla Camera i fascisti continuavano a essere quei pochi, alleati con una quindicina di nazionalisti: 50 su 535. Il più, dunque, era da fare. Per conseguire lo scopo il consiglio nazionale del PNF incaricò una pentarchia composta da Michele Bianchi, Giacomo Acerbo, Francesco Giunta, Cesare Rossi e Aldo Finzi. Le loro sorti individuali dicono che nulla era scritto nel libro del destino. Nel 1943 Acerbo rischiò il plotone d’esecuzione repubblichino perché il 25 luglio votò l’ordine del giorno Grandi-Bottai-Federzoni, costato la vita a Galazzo Ciano e ad altri gerarchi processati per alto tradimento e fucilati a Verona su sentenza di un tribunale della Repubblica sociale italiana. Finzi, da tempo dissociato da Mussolini, finì suppliziato alle Fosse Ardeatine. Rossi fu arrestato, carcerato e condannato a confino di polizia su ordine del duce.
I cinque allestirono una lista che comprese liberali, popolari, democratici, combattenti, agrari, ex riformisti: tutti notabili con ampio seguito elettorale. Era il caso dei confindustriali Stefano Benni e Gino Olivetti, massone, intrinseco del “fratello” Vittorio Valletta. Essa non venne presentata come “fascista” ma quale Lista nazionale, anche se per contrassegno ebbe il fascio littorio. Alcune frange numericamente irrilevanti ma culturalmente pugnaci (Julius Evola, Arturo Reghini…) lo interpretavano come riesumazione della Romanità e persino della Roma non solo dei Cesari, cioè imperiale, ma propriamente pagana, anti-cattolica: prospettiva, questa, da tempo accantonata da Mussolini, che all’inizio del 1923 aveva salvato dal fallimento il Banco di Roma, caro alla Santa Sede per motivi non propriamente spirituali, e avviato i primi passi verso la futura Conciliazione.
La vittoria del 6 aprile 1924 lasciò aperte le porte a due prospettive: la collaborazione con i socialisti “temperati” e con i liberali che criticavano i progetti antidemocratici del governo ma continuavano a sostenerlo in mancanza di alternative praticabili. Giacomo Matteotti si mise di traverso ai propositi concilianti del duce e il 30 maggio chiese in Aula con irruenza l’annullamento delle elezioni per violenze e per brogli. Il suo rapimento il 10 giugno, la presumibile morte, l’arresto dei colpevoli, il ritrovamento pilotato della salma in avanzato stato di decomposizione (16 agosto) segnarono la svolta. Il grosso delle opposizioni (socialisti, popolari, repubblicani e democratici, guidati da Giovanni Amendola) rifiutò di partecipare ai lavori e si arroccò su un immaginario “Aventino”, proprio quando il Re attendeva dall’Aula un segnale per sciogliere la crisi su basi istituzionali.
Senza volerlo né saperlo, quanti il 6 aprile votarono la Lista nazionale posero i presupposti della svolta autoritaria del 3 gennaio 1925: frutto tossico maturato nell’estate del 1924 e deciso da chi non voleva affatto perdere il potere e rimase in vita in assenza di alternative al suo governo. Le opposizioni fecero tutti gli errori possibili, isolandosi dalle pattuglie che continuarono a opporsi in Aula: i giolittiani e i comunisti, guidati da Antonio Gramsci, dal modesto seguito nel Paese e privi di appoggi all’estero.
A determinare la catastrofe fu dunque l’esito delle urne, il favore accordato da milioni di non fascisti alla Lista nazionale che aveva il suo zoccolo duro nel Gran consiglio del fascismo, nei “ras” e nella volontà personale del duce. Gli italiani furono conniventi, come Vishinsky vent’anni dopo fece osservare a Renato Prunas. E quindi dovevano pagare per la loro acquiescenza e per la ventennale connivenza con un regime che non scese dalle stelle ma uscì dalle urne, croce e delizia delle democrazie elettorali, spesso volgenti in regimi autoritari, e peggio.
Aldo A. Mola
Il fascio littorio sulla cupola di San Pietro: illusione dei fascisti “pagani”. È la copertina dell’“Almanacco della Ragione” organo dei Liberi Pensatori e dell’Associazione anticlericale “Giordano Bruno”. Con l’approvazione della Legge Acerbo la Camera non si limitò al proprio suicidio ma uccise la democrazia parlamentare fondata sulla libera scelta dei candidati nei collegi uninominali anziché sul voto senza alternative per candidati imposti dai vertici dei partiti: un sistema che scoraggia gli elettori.