Narrata da Gianpaolo Romanato (di Aldo A. Mola)
Nel centenario del rapimento da parte di una “squadraccia” fascista e della morte di Giacomo Matteotti, deputato e segretario del Partito socialista unitario, lo storico rodigino Gianpaolo Romanato ne ricostruisce la figura, la terra e i tempi.
Le “questioni” della Terza Italia
C’era anche una “questione settentrionale” nell’Italia di fine Ottocento, unita solo in parte e a fatica tra il 1848 e il 1870. Anzi, ve n’erano molte. Nel 1882, l’anno dell’ampliamento del diritto di voto da 600.000 a quasi 3 milioni di cittadini, i comuni con più di 6.000 abitanti venivano classificati “città” o “cittadine”. Gli altri venivano classificati “rurali”. Erano la stragrande maggioranza, ma avevano meno diritti e, soprattutto, meno servizi. La popolazione italiana era in massima parte dispersa in zone collinari o alpine, in borghi arrampicati in vista del mare e in plaghe da secoli ai margini della “storia”. La vita vi trascorreva monotona. «Nasce l’uomo a fatica; ed è rischio di morte il nascimento», aveva scritto Giacomo Leopardi. Da millenni, con minor mestizia, lo insegnava l’Ecclesiaste.
Nel 1861-1870 l’unificazione mise la cornice al nuovo Stato. La tela però andava ancora dipinta. Poco si sapeva poco delle condizioni effettive del “giardino d’Europa”. L’Istituto Geografico Militare di Firenze disegnò le mappe, ma il suo ritratto “dal vero” emerse solo dalla lunga e vastissima “Inchiesta sulle classi agrarie” voluta dal deputato radicale Agostino Bertani, medico garibaldino, e presieduta da Stefano Jacini, un moderato senza paraocchi. Il quadro risultò agghiacciante. Appena fuori dai centri principali, spesso chiusi in antiche mura che li privavano di luce e di aria salubre, si passava dallo squallore alla desolazione assoluta. La “questione meridionale”, a lungo dominante, era stata contenuta nella dimensione economico-sociale. La repressione militare le aveva impedito di divenire politica e di precipitare in questione internazionale, capace di rimettere in discussione l’unificazione appena conseguita. La sanguinosa guerra franco-tedesca del 1870 e l’annessione di Roma furono la fortuna della Nuova Italia, che poté mettere tra parentesi i tanti guai dalle radici affondate nel passato prossimo e remoto. Valevano per lei come per tutti gli altri Stati d’Europa. Ma per l’Italia pesavano il doppio perché, appena nata, doveva mettersi subito al passo con quelli più “progrediti”, anche con il costosissimo e niente affatto redditizio espansionismo oltremare, e doveva nascondere lo sciopero politico dei cattolici, i quali disertavano le urne su direttiva dei papi che l’avevano scomunicata.
A inizio Novecento l’Agro romano era immobile come da secoli. Tuguri, analfabetismo, denutrizione. Imperversavano pellagra, malaria e febbre terzana. Ne era contagiata anche la borghesia urbana. Di quando in quando (1867, 1884…) il colera falcidiava migliaia di corpi dalle difese stente. Anche se, a differenza di quella “meridionale”, erano prive di denominazioni altrettanto “stentoree”, ogni regione aveva le sue tristi “questioni”, dalle valli piemontesi alla Bergamasca, dal Grossetano all’assetato tavoliere delle Puglie. A tacere delle grandi e piccole isole. La miseria della Sardegna neppure faceva notizia.
Fra le terre più infelici della Nuova Italia v’era il Polesine. Ne scrisse Adolfo Rossi (Valdentro di Lendinara,1857- Buenos Aires, 1921). Le sue “cronache” sono state riproposte da Gianpaolo Romanato col titolo “L’Italia della vergogna” (Longo, 2010). Autodidatta, migrato negli Stati Uniti d’America, giornalista “d’inchiesta” sugli emigranti oltre Atlantico e sulla prima sventurata guerra d’Africa, asceso infine a diplomatico di alto rango, Rossi fu uno dei tanti miracoli dell’Italia di allora, quando vigeva la regola “volere è potere” e le persone valevano per quello sapevano e facevano. Nel suo nativo Polesine la “povera gente” desiderava «una rivoluzione, perfino una invasione straniera, persuasissima che peggio di così la baracca non potrebbe camminare». Medici condotti, parroci e promotori di leghe contadine, seguaci di Nicola Badaloni, massone e protosocialista, concordavano: la popolazione era ancora selvatica. L’assalto famelico alle spoglie di una mucca dichiarata da un veterinario morta per malattia e quindi non commestibile ad Adolfo Rossi ricordava «i negri dell’Africa e i cannibali dell’Oceania». Narrò che una vecchia, afferratane la testa per le corna, fuggiva. Fu assalita. «Urlava come una ossessa, fu percossa ferocemente, e gettata a terra.» La fame, atavica, abbrutiva.
Il precoce tirocinio politico di Giacomo Matteotti
Nel cuore di quel “mondo”, a Fratta Polesine, il 22 maggio 1885 venne alla luce Giacomo Matteotti, penultimo dei sette figli di Girolamo, nato nel 1839 a Comasine, nel Trentino, e di Elisabetta Garzarolo, di Fratta. Quattro, tra sorelle e fratelli, morirono poco dopo la nascita. Silvio, l’ultimogenito, si spense di tisi a 23 anni; Matteo, laureato e già avviato a prestigiosa carriera accademica, lo seguì a 32. Anche Giacomo contrasse la tubercolosi, ma ci convisse. Divenuto dovizioso proprietario terriero con il piccolo commercio e prestiti per lui remunerativi, Girolamo volle che Giacomo alzasse la prora verso il mondo. Laureato in giurisprudenza a Bologna a 22 anni con una apprezzata tesi sulla recidiva, militante a sedici anni nel partito socialista italiano, nel 1908 Matteotti fu eletto consigliere comunale di Fratta. Due anni dopo entrò nel consiglio provinciale per il mandamento di Occhiobello. Eletto nei consigli di vari altri comuni del Polesine, nel 1912 divenne sindaco di Villamarzana. Non era certo una metropoli ma una buona base per il tirocinio nell’amministrazione locale. L’anno seguente, quello delle prime elezioni a suffragio quasi universale maschile, partecipò al consiglio provinciale del Psi, presieduto da Benito Mussolini, capofila dei massimalisti. Forse, annota Romanato, per la prima volta i due si intravidero.
Al congresso nazionale socialista di Ancona, nell’aprile 1914, a larghissima maggioranza Mussolini impose l’espulsione dal partito dei massoni, a suo giudizio strumento occulto della borghesia. “Più luce” invocò il futuro duce, roteando le pupille. Due anni prima, al congresso di Reggio Emilia, l’ala riformista era stata cacciata e si era riorganizzata in partito, guidato da Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi e Angiolo Cabrini. Nessuno dei tre risulta affiliato al Grande Oriente d’Italia e men che meno poteva esserlo alla Gran Loggia d’Italia, i cui maggiorenti nel febbraio 1908 avevano bocciato alla Camera la mozione Bissolati volta a vietare l’insegnamento del catechismo cattolico nella scuola elementare. Erano gli anni centrali del papato di Pio X, studiato a fondo da Romanato, che stava “ammodernando” in ogni suo ambito la Chiesa cattolica senza scosse né tentazioni di “modernismo”, condannato anzi come eresia dalla sua enciclica “Pascendi dominici gregis” (1907). Ad Ancona i socialisti si fecero in cinque. A Mussolini si opposero il sanremasco Orazio Raimondo, orgoglioso di essere in loggia «da quando il Ministro Pelloux disciolse nella raffica del 1898 tutte le organizzazioni politiche e non rimaneva modo e scampo ai socialisti di adunarsi», e Giovanni Lerda, che profeticamente sferzò Mussolini: «Ovunque tu andrai porterai rovina.» Per terzo, il trentunenne Matteotti illustrò il “profondo dissidio” tra il socialismo, fondato sulla lotta di classe, e la massoneria, «incubatrice di mescolanze e connubi politici dannosi alla chiara fisionomia del Partito e contrari ai suoi supremi interessi», dichiarò incompatibile per i socialisti l’iniziazione massonica, esortò i compagni a uscire dalle logge ma si dichiarò contrario alla loro espulsione per non ritornare alle “liste di proscrizione”.
Come Romanato documenta, Matteotti ebbe per avversari in Polesine proprio due “compagni” massoni: Luigi (Gigi) Piva, figlio naturale di Giosue Carducci e di Carolina, moglie di un illustre generale, e Guido Podrecca, direttore del settimanale satirico “L’Asino”, ferocemente anticlericale e istoriato da “RataLanga”, ovvero Gabriele Galantara, affiliato alla “Propaganda massonica”. Alle tre diverse opzioni (Mussolini, Lerda e Matteotti) una quarta corrente propose di ignorare la questione e una quinta si astenne dal votarla. Anche nel 1919 Matteotti ribadì pubblicamente l’incompatibilità tra le logge e il suo partito, suddiviso in correnti e in gran parte ammaliato dalle Rivoluzione bolscevica che in Russia stava annientando democratici e socialisti.
Il 19 marzo 1915 Matteotti pronunciò al consiglio provinciale di Rovigo un discorso contro l’intervento in guerra così violento e antipatriottico da meritarsi una denuncia e la decadenza della carica. L’8 gennaio 1916 sposò Velia Titta, sorella del celebre cantante di nome Ruffo e cognome Titta, noto come Titta Ruffo. Richiamato alle armi benché riformato per insufficienza fisica e la malattia debilitante, fu assegnato a Messina. Nelle brevi licenze incontrò Velia (appellata Chini), che il 9 maggio 1918 dette alla luce il primogenito Gian Carlo, al quale seguirono Matteo (1922) e Isabella (1922).
Nella tempesta del dopoguerra: deputato di opposizione
Come bene argomenta Romanato e già avevano compreso tanti “compagni” del “socialista con la pelliccia”, poliglotta in una plaga che parlava in dialetto, giurista raffinato dove i patti erano suggellati da strette di mano benedette con la saliva, nella sua provincia il “milionario” impegnato nella lotta di classe contro la borghesia usava toni estremi, non privi di violenza verbale, per compiacere la “base” e assicurarsi il seguito dei popolani. Nell’“Altrove” costituito dal gruppo parlamentare, formalmente indipendente dal partito e dal groviglio di sindacati, inclini a ottenere i benefici consentiti da legislazione sociale (appalti, fondi pubblici, vantaggi fiscali per leghe e cooperative…) Matteotti si mostrava più pragmatico e temperato, anche se sempre intransigente con se stesso e il partito. Eletto trionfalmente deputato il 16 novembre 1919, nella maggior parte degli interventi in Aula dette prova di preparazione tecnica ma anche di spirito polemico, specialmente nei confronti di Giolitti, attirandosi la simpatia di Gaetano Salvemini che aveva bollato “ministro della mala vita” lo statista liberal-democratico piemontese. Anche per il suo fervore, in provincia di Rovigo alle amministrative del 1920 i socialisti conquistarono quasi tutti i comuni e, come in altre parti d’Italia, festeggiarono la vittoria rimuovendo dall’aula consiliare i ritratti del re.
I grandi scioperi agrari del 1919-1920, completi di invasione dei latifondi da parte di braccianti corrivi a ottenere “la terra ai contadini” ingannevolmente promessa dai governi nella fase terminale della guerra, e l’occupazione delle fabbriche nell’autunno 1920 accelerarono la risposta del “padronato”, che si valse di squadre armate, formate da arditi e da ex combattenti in cerca non di lavoro stabile (mal pagato) ma di precariato ben remunerato, in cambio di imprese, anche criminali, ai danni di “rossi”, sindacati “ bianchi” e, perché no?, del clero che organizzava i popolani nel solco della fede cattolica. La guerra civile passò da bassa ad alta intensità e in certe plaghe capovolse i rapporti di forza in sede elettorale. Nel clima di violenza del marzo 1921, in vista delle elezioni politiche del 15 maggio, a Castelguglielmo Matteotti fu sequestrato dai fascisti, condotto su un camion in campagna e seviziato. Per disperdere le beffe che si aggiungevano al danno, si ritenne in dovere di smentire in Aula di essere stato sodomizzato. Fondata o meno, la diceria concorse allo smottamento i tanti braccianti dalle file dei rossi a quelle di quanti si mostravano più forti e, ciò che più conta, impuniti.
Rieletto deputato, Matteotti si trovò attorno terra bruciata nel suo collegio elettorale e dovette trasferirsi stabilmente a Roma con Velia e i tre figli, in un appartamento di via Pisanelli, non lontano dal ponte che conduce al Lungotevere Arnaldo da Brescia e avvia verso i Palazzi del potere. Lì egli soleva raccogliersi per studiare e preparare gli interventi in Aula. Grazie ai blocchi che li videro in lizza col fascio littorio a fianco socialdemocratici, agrari, cattolici estranei al partito popolare e liberali, quasi quaranta fascisti, per lo più giovani, entrati alla Camera apprendevano celermente la tecnica della legislazione e le regole della dialettica parlamentare: ottime in tempi normali, aggirabili in altri. Molti di loro rimanevano convinti che il manganello fosse l’argomento più con-vincente. E ne fecero uso.
Nel 1922 la democrazia parlamentare mise a nudo la sua irrimediabile impotenza, bene descritta da Romanato nella biografia di Matteotti. Alle dimissioni di Bonomi, ex socialista riformista, seguì la crisi più lunga dal 1861. Tentate altre soluzioni, Vittorio Emanuele III invitò anche il socialista Turati a formare il governo, ma questi rifiutò e si sottrasse a una coalizione con i giolittiani. Nell’impossibilità di un patto con il partito popolare (contrario ad allearsi con i socialisti dichiaratamente atei), contro l’opinione di Turati il segretario Matteotti fu tra gli intransigenti che al ritorno di Giolitti opposero il “veto”, espresso anche dal segretario del partito popolare, don Luigi Sturzo, anni dopo e a mente fredda giudicato da Giolitti “prete intrigante, senza cultura politica e di governo”.
La crisi finì con l’avvento del grigio Luigi Facta a capo di un governo debole, costretto alle dimissioni dopo cinque mesi, reincaricato per mancanza di alternative e durato stentatamente altri quattro mesi senza convocare il parlamento, eludendo i moniti sempre più incalzanti del re. Che cosa seppero fare i “rossi” nella fase culminante della crisi, mentre Mussolini e i quadrumviri Bianchi, De Bono, De Vecchi e Balbo organizzavano le squadre minacciando la “marcia su Roma”? I fascisti miravano alla conquista del potere centrale sull’esempio di quanto avevano fatto in tante città senza incontrare speciale resistenza da parte degli avversari politici e sempre meno dallo Stato, a parte i rari casi di convergenza tra militari e antifascisti, come a Sarzana e a Parma. I “rossi” fecero poco più di niente. In speci non indissero uno sciopero generale che avrebbe potuto paralizzare l’avversario. I comunisti andarono a Mosca per il congresso della Terza Internazionale. I socialisti a ottobre di divisero in due. Nacque il Partito socialista unitario capitanato da Turati, con Matteotti segretario. Il ventaglio delle sinistre, insomma, come ha più volte scritto Aldo G. Ricci, risultò irrilevante dinnanzi all’avvento del governo Mussolini (31 ottobre 1922), comprendente esponenti di tutti i gruppi costituzionali e sorretto dal consenso delle potenze estere.
Matteotti, un isolato
A quel punto, ma solo a quel punto, Matteotti imboccò eroicamente (come fa notare Romanato), ma tardivamente, la via della difesa strenua del Parlamento, per anni denunciato quale strumento della reazione borghese e additato al disprezzo delle “masse”. A governo insediato e subito forte del consenso di confindustria, grandi banche, chiesa cattolica, corriva a trattare col duce del fascismo passando sulla testa del partito popolare, Mussolini giocò la carta decisiva della legge elettorale che avrebbe assegnato due terzi dei seggi al partito che avesse ottenuto il 25% dei voti validi. A legge approvata, quando i suoi possibili effetti erano ormai sotto gli occhi di tutti, le sinistre fecero quello che sino ad allora avevano mostrato di fare meglio: rimanere divise e combattersi mentre sprofondavano nelle sabbie mobili della storia. Spaccavano i capelli dell’ideologia mentre le “squadre” dei manganellatori spaccavano la testa agli avversari irriducibili. I comunisti subordinarono l’unità d’azione alla lotta contro il parlamento. Matteotti e i socialisti unitari rifiutarono; a metà strada rimase il Psi. Stalin, succeduto a Lenin alla guida dell’Unione sovietica, andò per la sua strada e aprì a Roma l’Ambasciata russa senza invitarvi i “rossi”. In nessuna fase della lunga crisi gli antifascisti si mostrarono capaci di organizzare un vero e decisivo sciopero unitario, come già era accaduto nel maggio 1915, quando subirono il corso degli eventi.
Le elezioni del 6 aprile decretarono il trionfo della Lista nazionale allestita dal partito fascista e il tracollo delle opposizioni, ridotte i minimi termini e privi e di una strategia unitaria. All’inaugurazione della Camera Matteotti denunciò i brogli ma non poté impedire ciò che contava: la dichiarazione di eleggibilità dei candidati del listone, che entrarono nell’esercizio dei loro poteri. Matteotti si dedicò a preparare un nuovo discorso. Ma era ormai un isolato. Verso le 16 del 10 giugno 1924, a pochi passi da casa, fu assalito da una squadraccia di picchiatori fascisti capitanata da Amerigo Dùmini, noto per crimini politici, decisi a impartirgli una lezione. In circostanze mai chiarite (ne ha scritto a lungo Enrico Tiozzo, citato da Romanato come Mauro Canali e altri storici) Matteotti morì. Venne frettolosamente sepolto in una fossa improvvisata a venti chilometri da Roma. Dùmini e i suoi complici si condussero in modo così sprovveduto che furono subito individuati e arrestati.
Anche Domizio Torrigiani, gran maestro del Grande Oriente d’Italia, a pochi giorni dalla sua scomparsa, sulla base di informazioni riservate giuntegli per molte vie, nella “Rivista massonica” evocò Matteotti come martire: preludio alla fine del regime democratico parlamentare. Ricalcando Giuseppe Bottai, il “fascista critico”, Romanato denuncia la stupidità della liquidazione della persona fisica di Matteotti «in quel modo selvaggio». «Il fascismo non si rese conto che avrebbe creato un mito, egli scrive. E uccidere un mito è molto più difficile che uccidere un uomo».
Malgrado tutti i tentativi compiuti da Mussolini per farlo dimenticare, l’ombra di Matteotti, come poi quelle di Piero Gobetti e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli si allungarono cupe sul “Ventennio” e ne minarono la rappresentatività dell’“altra Italia”, incarnata da Matteotti, “un italiano diverso”, come diversi dai fautori del regime reazionario rimasero milioni di cittadini, sia pure costretti a lungo silenzio. Continuavano a ripetere sommessamente: «Bastone tedesco Italia non doma…». Serbarono l’eredità del Risorgimento.
Aldo A. Mola
Gianpaolo Romanato (Rovigo, 1947), (sopra, in fotografia), ha insegnato storia contemporanea e storia della chiesa moderna e contemporanea all’Università di Padova. Dal 2007 è componente del Pontificio comitato di scienze storiche. Presiede il Comitato scientifico della Casa-Museo Giacomo Matteotti a Fratta Polesine. Collabora a riviste e quotidiani, quali “L’Avvenire” e “L’Osservatore Romano”.
Nel corso di decenni Romanato ha spaziato su molte aree, pubblicando libri che uniscono rigore accademico e immediatezza comunicativa. Tra le opere principali spiccano, per un verso, gli studi sulle missioni in Africa e nell’America meridionale, coronati dal corposo volume “Daniele Comboni. L’Africa degli esploratori e dei missionari” (Longanesi, 1998) e “Le Riduzioni gesuite del Paraguay. Missione, politica, conflitti” (Morcelliana, 2021) e, per altro verso, le ricerche sulla chiesa e la cultura cattolica in Italia tra Otto e Novecento sintetizzate in “Cultura cattolica in Italia ieri e oggi”, scritto con don Franco Molinari (Marietti, 1980) e nella biografia di papa Pio X (“La vita di papa Sarto”, con la prestigiosa prefazione di Roger Aubert, Rusconi 1992, e “Alle origini del cattolicesimo contemporaneo”, Lindau 2015, Premio Acqui Storia, tradotto in spagnolo).
Romanato ha dedicato inoltre lungo e profondo impegno allo studio del Veneto con opere sulla diocesi di Adria-Rovigo, su istituti e congregazioni religiose, chiesa e società nel Polesine di fine Ottocento e sulla figura di “Giacomo Matteotti. Un italiano diverso” (Longanesi, 2010). Quindici anni dopo, sulla scorta di ulteriori scavi documentari, l’Autore propone Matteotti come il politico che intuì la natura intrinsecamente liberticida del fascismo e la totale inaffidabilità del suo “duce”, istrionico, camaleontico, deciso a svuotare il Parlamento di ogni potere rappresentativo col segreto proposito di disfarsi prima o poi della monarchia e di afferrare il potere assoluto sull’Italia.
Nel profluvio di libri e saggi sul tema, già usciti o d’imminente pubblicazione, il “Matteotti” di Romanato spicca per profondo senso della storia. Alle h.16.30 del 23 aprile l’Opera viene presentata ai Martedì Letterari del Casinò di Sanremo per iniziativa della dottoressa Marzia Taruffi, direttrice dell’Ufficio Cultura. È anche omaggio a un “25 aprile”, inclusivo e senza settarismi.
Aldo A. Mola
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