Un delitto quasi perfetto che ha ancora qualcosa da raccontare…
6 dicembre 1921. Una mattinata come tante a Torino, l’alba era sorta alle 7:52 e la temperatura sottozero faceva sperare a chiunque si trovasse per strada che l’inverno finisse in fretta, facendo sognare campi in fiore e il delicato tocco dei primi raggi del sole.
Margherita Palmero, giovane serva della signora Carolina, nativa di Barge, era uscita di casa, in via Nizza 9, per una delle sue solite occupazioni: l’acquisto del latte per la colazione. Sotto al braccio teneva il raminin, una sorta di secchiello con manico, nel quale si metteva il latte per poi poterlo scaldare sul fuoco. Camminava normalmente, tanto che le numerose donne che la incontrarono, in seguito dissero che non avevano notato nulla di strano in lei e che anzi, si era fermata a chiacchierare del più e del meno, esattamente come al solito.
Margherita però nascondeva un segreto, era sicuramente entrata nell’appartamento della padrona per prendere il contenitore del latte, e lì aveva per forza veduto l’anziana Carolina, la padrona, e la sua figlioccia, senza vita, nel soggiorno di casa. Nonostante questo era uscita, senza dire nulla, era andata a prendere il latte, l’aveva riportato a casa, e poi era uscita nuovamente. Poteva forse essere stata tratta in inganno dalla posizione delle vittime? Aveva ritenuto che non fossero morte ma che stessero riposando? Impossibile. Mentre la signora Carolina Cogo era afflosciata su una poltrona, la giovane Rita era sdraiata per terra, con accanto un libro mezzo bruciato. Si saprà dopo che in realtà Margherita aveva visto i cadaveri, eccome, ma non aveva ritenuto di avvertire nessuno, neppure la portinaia, che incontra uscendo di casa, decidendo però di recarsi in via Madama Cristina per aspettare una sua compaesana, che era a servizio della cugina della signora Cogo. Solo in quel momento, dopo aver incontrato la contessa, Margherita parlerà di quello che ha visto, suggerendo che si trattava quasi certamente di una disgrazia… forse per le esalazioni della stufa?
La contessa si precipitò nell’abitazione di via Nizza. La porta non si riusciva ad aprire, mancavano le chiavi (ma dove erano finite quelle di Margherita? Nessuno si pose il problema) e venne chiamato un fabbro per forzare l’uscio, che una volta aperto, mostrò senza ombra di dubbio il dramma che si era svolto all’interno. Malgrado la posizione dei corpi, tutti pensarono subito che il principale colpevole fosse il monossido di carbonio, ma con il passare delle ore, gli uomini della questura, chiamati immediatamente per denunciare l’accaduto, iniziarono a notare delle incongruenze: come la posizione della sedia, spostata rispetto al corpo di Rita e si inizia a pensare che il soggiorno dell’abitazione, la scena del crimine, sia stato preparato ad hoc per far pensare che la morte delle due donne fosse dovuta a un tragico incidente.
I giornalisti non si fecero ingannare e fiutarono che qualcosa di strano c’era, infatti sul quotidiano La Stampa del 7 dicembre uscì il primo di numerosissimi articoli sul caso Cogo: «Il tormentoso mistero della morte di una vecchia signorina e della sua figlia adottiva – Sinistro quadro nella sala da pranzo – Un grido nella notte – L’enigmatico contegno della giovane fantesca – L’indagine della Polizia e del Giudice istruttore. Tra il groviglio delle ipotesi, l’atteso responso della perizia necroscopica» e ancora: «Due signorine, una di età avanzata, l’altra giovanissima, sono state ieri mattina trovate morte dalla donna di servizio nella sala da pranzo dell’appartamento che abitavano al terzo piano di via Nizza, 9. Da anni, infatti, la signorina Carolina Cogo, di anni 65, abitava nella casa insieme alla signorina Rita Bordon, di anni 21, che si diceva avesse adottata. La duplice morte improvvisa è apparsa ai vicini molto misteriosa e del fatto venne subito dato avviso all’autorità di Pubblica Sicurezza. Dalla vicina sezione di San Salvario accorse prontamente sul posto il Commissario cav. Rabino, col vice commissario Janni, l’ispettore investigativo Catoni e l’agente Ruggero. Partiva subito dalla centrale il cav. Failla, vice-commissario alla squadra mobile, e dal Palazzo di Città correva pure il medico municipale dott. Giulio Oliveri. Il sostituto procuratore del Re, cav. Moretti, ed il giudice istruttore avv. Cirimele, sopraggiungevano poco dopo».
Sembra che lo strano atteggiamento della servetta Margherita avesse insospettito non solo la polizia, ma anche la stampa.
Come in tutti i delitti che si rispettino, vicini, passanti e tutti coloro che potevano aver visto o sentito qualcosa vennero interrogati, e, come spesso accade, era molto difficile stabilire quali fossero i ricordi veritieri e quali quelli ricostruiti dalla mente. La portinaia sostenne ad esempio di aver visto Margherita passare davanti alla portineria due volte, e che portava un paio di guanti, fatto che aveva notato perché non l’aveva mai vista indossarli. Margherita, dal canto suo, dopo una prima deposizione dove affermò che aveva visto i cadaveri ma non aveva ritenuto di dover avvertire nessuno se non la cugina della vittima, dopo parecchie ore di interrogatorio crollò, facendo nomi di persone che vennero tirate dentro l’indagine a forza.
I frequentatori abituali della casa vengono interrogati senza sosta: “La cugina, contessa Manassero di Costigliole, di tanto in tanto qualche rara amica, il commendator Lavagna, ex segretario particolare di s.e. Giolitti col quale la signorina era imparentata, a volte una ex compagna di scuola di Rita Bordon e infine i due nipoti, Carlo e Agostino, figli del fratello notaio, che la signorina ospitava in una parte del suo alloggio, ma che facevano vita a sé, entrando e uscendo da un ingresso indipendente per non disturbare la parente. A loro si aggiungeva in rare occasioni anche un terzo nipote, l’avvocato Giacinto, fratello maggiore degli altri due. Carlo e Agostino Cogo, avevano necessità di abitare a Torino per seguire gli studi universitari, il terzo, Giacinto, era residente nella natia Barge, ma quando capitava in città era solito fare visita alla zia. Quando il notaio glielo aveva domandato, la generosa Carolina si era subito offerta di dare ospitalità ai nipoti e a tale scopo aveva parzialmente modificato la sistemazione dell’appartamento al terzo piano di via Nizza 9”.[1]
Da questo momento in poi il caso Cogo diventa una questione quasi nazionale, infatti si tratta di uno dei grandi delitti italiani che infiammarono le famiglie e i lettori dei quotidiani. L’indagine fece emergere insoddisfazioni, strani rapporti famigliari, l’enorme ricchezza della signora Carolina, la scontentezza verso le sue decisioni, come quella di adottare la giovane Rita e la caratteristica mediatica di questo duplice omicidio divenne qualcosa al quale siamo molto abituati al giorno d’oggi: continui scoop che tengono legato il lettore all’avvenimento, facendo diventare un po’ tutti degli investigatori privati.
Un colpevole venne infine trovato. Ma è solo oggi, a cento anni dal delitto, che siamo in grado di affermare che qualcosa di molto strano avvenne durante il processo: la nota scrittrice e saggista Laura Fezia, pronipote del giudice che emise il verdetto, ha condotto un’indagine serrata, partita dalle storie di famiglia e giunta a una conclusione pubblicata nel libro “Torino 1921: un delitto (quasi perfetto)”.
L’autrice è l’unica che poteva cercare e svelare una verità rimasta sepolta per decenni e dare pace agli innocenti ingiustamente colpevolizzati che da quegli eventi ebbero la vita distrutta.
Bibliografia: