L’Europa che non c’è (di Aldo A. Mola)
Ma quale Europa?
L’Unione Europea odierna non è quella sognata da quanti ottant’anni orsono si batterono per una “libera comunità europea” fondata sulla “solidarietà e la fraternità dei popoli in lotta contro il nazifascismo” per instaurare “libertà democratiche e giustizia sociale”. Ne ha scritto Marta Arrigoni in “I Patti di Saretto del 30-31 maggio 1944 tra storia e memoria”. Gli “Accordi di Saretto” furono punto di arrivo dei rapporti di collaborazione politica e militare concordati tra “maquisards” francesi e partigiani italiani in circostanze irripetibili. Alla luce della storia essi risultano un sogno fugace, una speranza rapidamente emarginata dalla rinascita degli stati nazionali riemersi dalle rovine della guerra dei trent’anni (1914-1945), animati da rivendicazioni grette. Motivo in più per ricordare uomini e fatti di quell’alba della Nuova Europa. Ed è giusto farlo nei luoghi ove gli accordi furono stipulati, nell’alta Valle Maira, tra Acceglio e le sue borgate, in specie Saretto, ove la locanda che ospitò le delegazioni franco-italiane è la stessa di allora, con l’identico tavolo sul quale essi furono firmati.
Gli accordi italo-francesi di Saretto
Gli “Accordi di Saretto” si collocano in un contesto bellico e in un quadro politico generale e locale che li rende un “unicum” nell’ambito della lotta di liberazione italiana e francese. Essi ebbero il primo impulso da Costanzo Picco, ufficiale del regio esercito, rimasto in Francia dopo la resa incondizionata del 3-29 settembre 1943. Presero corpo nella primavera avanzata del 1944, quando le “bande” partigiane piemontesi, investite da massicci rastrellamenti da parte di germanici e della Repubblica sociale italiana, si stavano “politicizzando”.
I preliminari della fraterna collaborazione tra i due fronti della lotta di liberazione furono avviati il 12 maggio 1944 con un incontro al col Sautron (m 2800 s.l.m.). Il 22 maggio a Barcelonnette (Val di Larche) Maurice Lecuyer, comandante della resistenza francese nelle Basse Alpi, e Tancredi (Duccio) Galimberti, comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” in Piemonte e valle d’Aosta, con ampia delega “politica” di Ferruccio Parri, comandante generale delle “bande” del Partito d’azione, sottoscrissero un primo accordo militare. Redatto in francese, lingua familiare a tutti i partecipanti, esso impegnava a intensificare i legami transfrontalieri.
Il 17 gennaio 1944 gli anglo-americani sbarcarono ad Anzio-Nettuno ma cozzarono con la tenacia dei tedeschi agli ordini del maresciallo Albert Kesselring, attestati sulla linea Gustav. La completa distruzione dell’Abbazia di Montecassino (15 febbraio), ordinata dal maresciallo inglese Harold Alexander, non comportò vantaggi operativi per gli anglo-americani e i corpi aggregati, come i polacchi. Suscitò invece indignazione in Italia e molte riserve anche all’estero. A fine maggio il generale americano Marc Clark si trovò dinnanzi alla scelta strategica. Poteva avanzare da sud verso l’Adriatico, avvolgere il nemico e costringerlo alla resa o alla fuga precipitosa. In pochi giorni avrebbe chiuso la guerra in Italia. Oppure poteva puntare su Roma. Scelse il successo per lui più vistoso. Entrò nella Città Eterna il 4-5 giugno, vigilia dello sbarco anglo-americano in Normandia (6 giugno), militarmente di gran lunga più importante dell’ingresso in Roma.
I tedeschi ripiegarono sulla “linea gotica” (da Viareggio a Pesaro) e vi ressero sino alla primavera del 1945: quelli della fase più atroce della guerra civile, destinata a incombere sul dopoguerra. Il quadro politico-diplomatico internazionale, già modificato con l’inserimento dell’Urss e di France Libre nella Commissione militare alleata di controllo in Italia, si intersecò con quello interno. Il 12 aprile, ruvidamente pressato dagli anglo-americani, Vittorio Emanuele III annunciò che alla liberazione di Roma avrebbe trasferito tutti i poteri della Corona al principe ereditario, Umberto di Piemonte. Il 22 aprile il maresciallo Pietro Badoglio formò a Salerno un nuovo governo con esponenti dei partiti del Comitato di liberazione nazionale. Il 18 giugno si insediò il governo presieduto da Ivanoe Bonomi.
In quel contesto la “guerra partigiana” nelle regioni amministrate dalla Repubblica sociale italiana incontrò le crescenti difficoltà documentate dal carteggio tra Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco, con riferimento al teatro liguro-piemontese. La “pianurizzazione” avrebbe aumentato i rischi di cattura e di eliminazione di commissari politici e comandanti militari e avrebbe fatto trovare le “bande” impreparate a svolgere un ruolo decisivo nell’“ora x”. Questa convinzione si fondava sulla granitica certezza che, giunti a Roma, gli anglo-americani sarebbero presto balzati sulla costa ligure per respingere i tedeschi dalle Alpi occidentali: lo stesso errore di valutazione compiuto nel settembre 1943. Politici e militari italiani non compresero che gli Alleati, affiancati da France Libre, allestita in Algeria da Charles De Gaulle, non combattevano per gli italiani ma per i propri Stati, spesso in competizione.
L’intensificazione delle relazioni dirette tra partigiani italo-francesi prese corpo a fine maggio del 1944, in giorni che lasciavano ritenere imminente la “svolta” militare nello scacchiere italiano. Per valutare la portata degli incontri di Sautron, Barcelonnette e Saretto occorrono due precisazioni. In primo luogo balza evidente l’asimmetria dei “poteri” delle due delegazioni. Quella francese faceva capo a un governo non ancora insediato sul territorio nazionale ma riconosciuto dalle Nazioni Unite. Le sue forze da mesi combattevano in Italia, con comportamenti talora deplorevoli (rievocati in “La ciociara”) e persino peggiori di quelli talora usati dagli anglo-americani (ne ha scritto Angelo Squarti Perla in “Le menzogne di chi scrive la storia”, ed. BastogiLibri). La delegazione italiana, invece, operava su mandato del CLN del Piemonte, ma era costituita solo da esponenti del Partito d’Azione, il cui vertice regionale tenne per sé l’esclusiva dell’iniziativa. Sennonché nel maggio 1944 i CLN dell’Italia non ancora liberata non rappresentavano il governo nazionale.
Nella fase cruciale i vertici torinesi del partito d’azione decisero di emarginare Galimberti con argomenti sconcertanti. Il 27 maggio Agosti ne precisò il motivo a Bianco. Anche se “queste trattative e gli accordi che ne deriveranno non possono avere per noi dei risultati militari o politici molto importanti”, Galimberti, fondatore della banda “Italia Libera” ma figlio di un parlamentare liberale approdato al fascismo, andava escluso perché ne avrebbe tratto prestigio personale, decisivo nelle elezioni postbelliche.
Nel Diario sotto la data del 29 maggio 1944 Dante Livio Bianco annotò l’incontro con suo cognato, Gigi Ventre, con Ezio Aceto, comandante militare del II settore, e “col delegato pel Piemonte delle forze della resistenza francese [l’avvocato Jean Lippmann, NdA]. Persona simpaticissima”. Bianco aggiunge: “Proseguiamo tutti insieme, in corriera, per Acceglio, dove pernottiamo”. L’impiego di un mezzo pubblico, attraverso molti paesini e con varie soste di servizio, indica che, pochi giorni dopo l’“ultimatum” della RSI (25 maggio), i partigiani cuneesi e i loro “ospiti” d’Oltralpe potevano muoversi su un ampio territorio senza soverchi timori di controllo.
Al termine di due giorni di colloqui nella Trattoria-Albergo di Saretto (passata in eredità a Marta Arrigoni, che ne ha curato il restauro e vi ha ospitato importanti convegni), Max Juvenal e Bianco sottoscrissero il “documento” che, redatto in francese, va sotto il nome di “accord de Saretto”. Sull’onda di visioni condivise tra “confrères” (è il termine usato da Juvenal, socialista massonizzante) i delegati convennero che “aussi pour l’Italie – ainsi que pour la France – la meilleure forme de gouvernement pour assurer le mantien des libertés démocratiques et de la justice sociale, est celle républicaine”. Il 22 aprile i ministri del nuovo governo Badoglio erano entrati in carica giurando sul proprio onore di rispettare la “tregua istituzionale”. Perciò Agosti sollecitò Bianco a informare Juvenal che quella clausola andava cassata, come in effetti avvenne.
Quando la Francia di De Gaulle voltò le spalle
Gli eventi bellici che si susseguirono in Italia e Oltralpe, a cominciare dallo sbarco in Normandia e dall’insediamento a Roma del governo presieduto da Bonomi, ridimensionarono la portata politica e militare dell’accordo di Saretto, peraltro mai pervenuto a Roma. La riorganizzazione delle formazioni partigiane “dopo ampie e laboriose trattative” (come scrisse Bianco), anche in vista degli assetti di potere postbellici portò alla stipula dell’accordo tra due divisioni di Giustizia e Libertà e due divisioni “autonome”, una comandata da Enrico Martini (“Mauri”), ufficiale di stato maggiore dichiaratamente monarchico, “valoroso e popolare comandante” (Bianco), l’altra da Piero Cosa, affiancato dal giovane avvocato Dino Giacosa, fiero repubblicano, reduce dal confino di polizia e accolto da Galimberti nel suo studio forense. Lo “spirito” dell’accordo fu sintetizzato in un memorandum che rivendicò il valore innovativo delle “forze partigiane”, premessa del “radicale rinnovamento politico, morale e sociale del paese”, l’instaurazione di “una sana democrazia” e la libera scelta da parte del popolo italiano degli “ordinamenti che più gli convengono” (Valle Pesio, 7 agosto 1944).
L’accordo, detto “della Certosa”, perché discusso e deliberato alla Certosa di Pesio, al suo 7° punto andò oltre quello di Saretto. Mentre Juvenal e Bianco avevano auspicato il ritorno alla fraternità italo-francese, quale perno della futura “comunità europea”, il memorandum della Certosa affermò: “Siamo contro tutti i nazionalismi e gli imperialismi e, senza per nulla rinnegare l’alto valore umano e storico dell’ideale nazionale e della tradizione patriottica italiana, auspichiamo una federazione di liberi popoli del nostro continente, che, lasciando intatta nei tratti essenziali la fisionomia delle singole nazioni, realizzi una vera comunità europea, sola via per assicurare una pace duratura e garantire le migliori possibilità di progresso.” I firmatari non indicarono alcun limite territoriale all’auspicata federazione europea. Il 4° punto dell’accordo recitò: “Intendiamo impegnare tutte le nostre forze contro l’instaurazione e la conservazione di qualsiasi regime totalitario e dittatoriale, di qualsiasi tipo e colore” e aggiunse: “Siamo perciò contro la dittatura della reazione (grosso capitale, alta finanza, agrari, militaristi, ecc.) non meno che contro quella del proletariato o di qualsiasi altra classe o gruppo.” Esso, come già il riferimento alla repubblica nell’Accordo di Saretto, risultò irricevibile da parte dei comunisti e dei socialisti del CLN del Piemonte.
Mentre il “Patto della Certosa” era in discussione, il 15 agosto l’operazione “Dragoon” cambiò drasticamente il contesto bellico e politico generale. Un convoglio di 300 navi da guerra, 2.000 trasporti e mezzi da sbarco rovesciò rapidamente sulla costa francese tra Cannes e Tolone quasi 100.000 uomini (americani e corpi francesi agli ordini del generale de Lattre de Tassigny) senza incontrare significativa resistenza da parte della 19^ armata germanica. Il crinale alpino divenne spartiacque tra i tedeschi, che dalla pianura si affrettarono a raggiungerlo per controllare le rotabili, e gli Alleati. La Resistenza d’Oltralpe venne incorporata nell’esercito francese. Alle 7 del 25 agosto la 2^ divisione corazzata francese entrò in Parigi, seguita mezz’ora dopo dalla 4^ divisione americana. Alle 15:15 il comandante tedesco della piazza, Dietrich von Choltitz, chiese la resa.
Nessuno tra i partigiani italiani, neppure in Piemonte, previde la svolta politica della Francia nei confronti dell’Italia dopo lo sbarco in Provenza e l’ingresso di De Gaulle in Parigi. Il 14 febbraio 1944 il segretario generale agli Esteri, Renato Prunas, informò Badoglio che secondo de Panafier, rappresentante della Francia presso la Commissione di controllo e del Comitato consultivo per l’Italia, De Gaulle aveva in animo, “appena regolate le maggiori questioni italo-francesi, di promuovere una qualche forma di federazione latina” e aveva costituito un apposito ufficio “Italia” ad Algeri presso il Commissariato francese agli Esteri. Però il 15 marzo sempre da Algeri il generale Giuseppe Castellano, capo della Missione militare italiana presso il comando alleato, riferì a Prunas che secondo “un ben quotato funzionario del ministero degli Esteri di De Gaulle” il governo Badoglio non comprendeva figure rappresentative dell’opinione pubblica italiana ed era colpevole di “non aver ancora ufficialmente dichiarato la completa rinunzia alle famose rivendicazioni sulla Francia”.
Dopo l’annuncio dell’istituzione della Luogotenenza da parte di Vittorio Emanuele III, su ruvida pressione anglo-americana, l’ambasciatore francese Massigli incalzò il governo Badoglio per un “cambio di passo” nei rapporti italo-francesi. Il 5 maggio venne sollecitata la “pubblica sconfessione delle rivendicazioni fasciste: Savoia, Corsica, Nizza, Tunisia”. Il 15 da Tangeri il console generale Alberto Berio aggiunse che De Gaulle intendeva trattare solo con “un’Italia nuova, radicalmente sbarazzata dal fascismo”, retta con forme istituzionali liberamente scelte dal popolo. Erano trasparenti le sue riserve nei confronti della monarchia e l’indebita interferenza nella futura scelta referendaria.
Nel frattempo il CLN dell’Alta Italia premeva per essere riconosciuto quale autorità centrale dell’“entire resistance activity” sia politica sia militare nell’Italia settentrionale (31 maggio 1944), in un quadro internazionale fortemente pregiudicato dall’andamento generale della guerra. Il 10 giugno la segreteria generale degli Esteri ne informò Badoglio, di lì a poco estromesso dal governo. Constava che sin dal 1° aprile “l’organizzazione italiana della resistenza si era accordata con quella di Tito sulla base di una linea confinaria al Tagliamento”. Sull’integrità territoriale dell’Italia postbellica si addensavano nubi sempre più fosche. Il 6 luglio da Salerno Bonomi assicurò a De Gaulle che il nuovo governo aveva tra i compiti fondamentali “una chiarificazione tra Francia e Italia e il progressivo rinsaldarsi della loro amicizia”. Il 17 agosto, due giorni dopo lo sbarco franco-americano sulla costa francese sud-orientale, Bonomi informò il ministro della Guerra, Alessandro Casati, che il Comandante supremo del corpo di spedizione alleato in Italia riconosceva “i patrioti italiani come esercito combattente, comandato e diretto da ufficiali e comandanti” facente parte “delle Forze di Spedizione Alleate in Italia”; ma essi dovevano portare “un distintivo regolarmente notificato in base alle leggi internazionali”. Ogni rappresaglia contro di loro “sarebbe dunque violazione delle leggi di guerra che legano anche la Germania”. Quante “bande” si adeguarono? Il 7 ottobre, mentre si infittivano i timori di svalicamento di truppe francesi in Valle d’Aosta, Prunas riferì a Bonomi, per la sua veste di ministro degli Esteri, di aver comunicato all’ambasciatore francese a Roma, Maurice Couve de Murville, l’“insoddisfazione” dell’Italia perché le autorità francesi consideravano “ripristinato lo stato di guerra fra noi e la Francia” e assumevano misure vessatorie nei confronti degli 800 mila italiani residenti in Francia, benché 1.200 volontari italiani, a prezzo di un centinaio fra morti e feriti, avessero concorso a liberare Parigi.
Lo “spirito di Saretto” era ormai un lontano ricordo. Il 14 settembre 1944 Aurelio Verra, commissario politico della Brigata “Valle Maira”, datò una lunga Relazione sul trattamento riservato dai francesi agli italiani profughi in Francia. Accolto a fucilate mentre marciava nella neve per ripristinare il contatto con i partigiani francesi in forza degli Accordi di Saretto, ebbe la spiegazione da un altezzoso tenente George: “Car tous ces italiens viennent à immerder le sol de notre Patrie!”.
La “communauté européenne” svanì sull’orizzonte prima di nascere. Gli anglo-americani volgevano la loro precipua attenzione ai problemi politico-militari dell’Estremo Oriente: la guerra contro il Giappone e le posizioni di tutti i Paesi interessati a quell’area, dall’India all’“Indocina”, alla Cina stessa e all’Unione sovietica, che solo l’8 agosto 1945, dopo il bombardamento atomico americano su Hiroshima, dichiarò guerra all’impero nipponico, seguita il 12 luglio 1945 dall’Italia. Il conflitto mondiale non era tra ideali e ideologie bensì tra potenze. L’“Europa” nacque su basi del tutto diverse dallo “spirito di Saretto”. Motivo in più per rievocarlo là dove esso soffiò, come avverrà il 10 agosto per iniziativa del Comune di Acceglio (sindaco Giovanni Caranzano) e dell’Unione Montana Valle Maira.
Aldo A. Mola
La copertina del volume di Marta Arrigoni (martasaretto@libero.it), punto di arrivo di decenni di studio e valida base del Convegno organizzato nell’80° dell’Accordo di Saretto.
Il 19 maggio 1945 il socialista Giuseppe Saragat, ambasciatore a Parigi, avvertì il democristiano Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri: “La situazione è tutt’altro che rassicurante e tale da preoccupare coloro che auspicano nell’interesse della patria e del pacifico assetto dell’Europa un’intesa sempre più cordiale tra l’Italia e la Francia […] La Francia vuole annettersi gli alti bacini della Roia, Vesubia, Tinea, il massiccio dello Chaberton, i colli del Moncenisio e del Piccolo San Bernardo. Ma la Francia vuol annettersi soprattutto le valli del Pellice e la valle d’Aosta”, previo plebiscito da celebrare “nella scia di un esercito di occupazione”. L’ultima parola toccò al Trattato di pace del 10 febbraio 1947, nettamente sfavorevole all’Italia su entrambi i confini dell’Italia, con la Francia e, peggio ancora, con la Jugoslavia, in spregio al suo concorso alla guerra contro la Germania di Hitler e i suoi alleati interni e internazionali, sia come Stato co-belligerante, sia con il Corpo Volontari della Libertà, comandato da Raffaele Cadorna.
AAM
Scarica in PDF