
Due belve nei pressi di Torino (1882)
Due belve nei pressi di Torino, questo titolo, che compare nella cronaca giudiziaria della Gazzetta Piemontese dell’anno 1882, non allude ad animali feroci fuggiti da qualche circo, ma agli esecutori di un feroce omicidio commesso nella zona di Pozzo Strada e che ha destato notevole clamore in Torino. La vicenda inizia l’11 aprile 1882 quando il quotidiano pubblica questa notizia:
Assassinio. – In questo momento (ore 11) giunge la grave notizia che nei pressi della tesoriera (stradale di Rivoli) sia stato commesso la scorsa notte un omicidio nella persona di uno sconosciuto, il quale fu trovato colla gola recisa.
Le autorità si sono trasferite sul luogo per gli incombenti di legge.
Fin dal giorno seguente l’omicidio di Pozzo Strada viene chiarito nelle sue linee essenziali con la rassicurante notizia dell’arresto dei due responsabili.
Il povero giovane trovato ucciso nei pressi di Pozzo Strada era un muratore di nome Giovanni Battista Zanetti, di 29 anni, di Donato (Biella), proveniente dalla Val d’Aosta, dove aveva lavorato alcune settimane, e diretto in Francia alla ricerca di impiego. A Pozzo Strada è entrato nell’osteria di un certo Giovanni Negro per rifocillarsi. Ha poi chiesto all’oste se poteva alloggiarlo per la notte, ma questi ha risposto di non avere letti. Due giovani presenti nel locale si sono offerti di trovargli una sistemazione lì vicino. Zanetti è uscita dall’osteria con i due sconosciuti e si sono diretti verso la cascina dell’avvocato Giardino.
Il giorno seguente, al mattino, Zanetti è stato trovato assassinato in un prato, crivellato da quaranta coltellate. Sul collo le numerose ferite vengono a costituire un solo taglio che ha quasi staccato la testa dal busto. Il prato dove giace il cadavere appare tutto calpestato, a conferma della terribile lotta fra la vittima e gli assassini.
A breve distanza dal cadavere si scorgeva una larga pozza di sangue. Sparse per terra vi erano dei documenti sporchi di sangue, un sacco con attrezzi da muratore e un pezzettino di catena di orologio. I due malviventi, giunti lontano dall’osteria, hanno afferrato Zanetti e, malgrado la sua resistenza, lo hanno sgozzato per depredarlo dell’orologio che teneva nel taschino del panciotto. Gli assassini sono stati arrestati dai Carabinieri. Sono Paolo Boeris, di 23 anni, conciatore di pelli, e Carlo Bosio, di 22 anni, fabbricante d’inchiostro. Sono entrambi torinesi.
Ha condotto le indagini Giovanni Roveda, vicebrigadiere della caserma di San Donato. La mattina dell’11 aprile si è recato a Pozzo Strada e ha raccolto le voci che accusavano Boeris e Bosio. È andato ad arrestarli nelle rispettive fabbriche. Dapprima hanno negato, ma, quando li ha perquisiti, ha trovato addosso a Bosio, sotto la camicia, un coltello insanguinato. L’uomo continuava a negare. Bosio e Boeris sono stati messi a confronto e hanno finito per confessare il crimine, dichiarando di aver colpito Zanetti tutti due, a turno, usando lo stesso coltello. Cinicamente hanno ammesso di essere rimasti sordi quando lui li supplicava di lasciargli almeno la vita. Ammettono anche di avergli preso l’orologio, l’unico frutto dell’omicidio: Zanetti era in cerca di lavoro e aveva con sé soltanto pochi soldi.
Boeris sostiene di aver perso questo orologio, ma una donna lo consegna ai Carabinieri. Nel mattino dell’11 aprile, infatti, Boeris è andato tranquillamente al lavoro nella conceria Azimonti e ha affidato l’orologio rubato a un collega di lavoro. Questi lo ha preso, senza chiedere spiegazioni e lo ha portato a sua moglie. Quando ha saputo dal padrone che i Carabinieri erano venuti a cercare Boeris ha subito pensato che l’orologio fosse rubato. È andato a casa, ma la moglie l’aveva già consegnato ai Carabinieri.
L’autopsia, eseguita nella camera mortuaria di Pozzo di Strada, ha accertato che Zanetti ha ricevuto numerose ferite al collo, inferte con un coltello dalla lama corta. Gli è stata tagliata la carotide, la giugulare e la trachea; ha subito parecchie incisioni vicino all’orecchio e sotto la nuca. La morte è stata quasi istantanea.

Il rapido arresto e l’immediata confessione dei due uccisori abbreviano notevolmente i tempi dell’istruttoria. Già al 5 luglio dello stesso anno alla Corte d’Assise viene celebrata la prima udienza del processo. È Giovanni Saragat, con il nome de plume di Toga-Rasa a redigere le cronache del clamoroso processo sulla Gazzetta Piemontese, col titolo Due belve nei pressi di Torino. Così Toga-Rasa descrive la risonanza dell’omicidio in Torino:
Il titolo ricorda un orribile assassinio che impressionò vivamente e buttò lo sgomento in tutta la popolazione torinese, per quella giusta paura che sorge sempre nell’animo di tutti, dopo l’avvenimento di qualche reato crudele che avvenga a scopo di depredazione. Tutti pensano che possa darsi il caso dell’oggi a te domani a me; e che una bella mattina ci possiamo svegliare nell’altro mondo, con un palmo di coltello in corpo, senza orologio e senza portafoglio.
E poi, l’idea che nella razza umana vi sono degli esseri più crudeli delle stesse belve, che nel concorso per una cattedra di ferocia potrebbero regalare dei punti alle tigri, è una cosa che profondamente sconforta e rattrista ogni animo ben nato.
Ed ecco la descrizione degli accusati, da lui definiti «due miserabili».
Siedono degnamente in gabbia le due belve umane (davvero poco umane) Bosio Carlo e Boeris Paolo. Il primo è un giovane robusto sui 22 anni, con una faccia… da se stesso (d’assassino) che consola. Un brutto ceffo, in fede mia. Ha i capelli un poco biondi, tagliati in tondo, si vede, col sistema della scodella; certi occhi da gatto spiritato, ed un naso (non due) volgarissimo.
L’aristocrazia della razza umana la si discerne dal naso.
Paolo Boeris, il conciatore di pelli, è stato congedato alcuni mesi prima dall’Esercito, dopo aver prestato un ottimo servizio, senza mai meritare una punizione.
Boeris è un giovane sui 25 anni, robusto, ed ha una faccia da… prof. Lombroso. È biondo ed ha anch’egli, come Bosio, i capelli ritagliati sull’orlo d’una scodella.
I due imputati scherzano e ridono fra di loro che è un piacere a vederli.
Il cattivo comportamento dei due imputati nel corso del processo sarà costante e Toga-Rasa non mancherà di sottolinearlo, anche per far comprendere quanto sia difficile il compito degli avvocati difensori. Difficoltà che Toga-Rasa, come avvocato, ben comprende e che così spiega ai suoi lettori:
La difesa si appiglia all’unico mezzo di difesa possibile in una causa tanto disperata: l’ubbriachezza degl’imputati, la ricerca degli antenati beoni, lo scoprimento di parenti matti, la domanda d’una perizia di periti alienisti [così sono definiti al tempo gli specialisti di malattie mentali e gli psichiatri, N.d.A.].
Secondo questa linea di difesa, gli imputati sostengono che al momento dell’omicidio
Avevano già fatto la via crucis delle bettole; perciò, erano mezzo ubbriachi, vedevano doppio e bevevano quadruplo.
I difensori insistono perché siano presenti dei periti alienisti ed hanno perciò chiamato il professor Lombroso, ma questi è assente da Torino per motivi urgenti e vengono convocati altri periti, i professori Angelo Perotti, per l’accusa, ed Enrico Morselli, per la difesa.
Gli accusati durante gli interrogatori ammettono la loro responsabilità, anche se Bosio cerca di addebitare al complice Boeris un ruolo più attivo nell’omicidio e vorrebbe far credere di non aver colpito Zanetti.
Incomincia la sfilata dei testimoni, con momenti di particolare drammaticità
Il primo interrogato è Zanetti Alberico, muratore, padre della povera vittima.
Il buon vecchio, parlando del suo figliuolo, singhiozza.
Era buono – egli dice, – attivo e laborioso. Era il conforto della mia vecchiaia, il sostegno della mia famiglia. Quando ritornava a casa, dopo qualche mese passato a lavorare fuori paese, portava alla famiglia dei gruzzoli da trecento a quattrocento lire. Ora, povero vecchio, sono solo a lavorare!
Il pubblico è profondamente commosso. Il presidente mostra allo Zanetti l’orologio ed il libretto-portafoglio della vittima tutto chiazzato di sangue raggrumato, e gli chiede se riconosca quegli oggetti.
Tutti proviamo come un senso d’orrore, e nella sala s’ode qualche voce: Basta! Basta!
Sono dure formalità che si eseguiscono a maggiore garanzia di giustizia. Il presidente è più commosso di noi, e mette in libertà il testimonio.
Quale strazio per l’animo di un padre!
Appare toccante anche la testimonianza di Caterina Negro, la figlia dell’oste che tiene l’osteria di Pozzo Strada, dove Zanetti si è fermato a mangiare un boccone, che racconta:
Il forastiere arrivò alle 6 ½, comandò mezzo litro e un soldo di pane. Udì a suonare in cortile un organino di Barberia e andò a ballare. Poi tornò al suo tavolo, posò la testa sulle braccia e dormì. Entrò Boeris con altri 4 o 5 (non 405), bevettero un litro e andarono via. Alle 10, Boeris ritornò con Bosio e comandarono due ciliegie allo spirito. Poco dopo udii Boeris che diceva a Zanetti: Se vuoi dormire ti conduciamo assieme a noi. Si levarono ed uscirono tutti e tre. Bosio e Boeris precedevano lo Zanetti d’un passo. All’indomani quando seppi il fatto dissi: L’han fatto dormire in un bel posto!
Prima e dopo l’omicidio, i due si sono recati in diverse osterie. Tutti gli osti confermano che non erano affatto ubriachi e ragionavano benissimo.
I difensori hanno richiesto una serie di testimoni per provare la pazzia di Boeris e l’imbecillità di Bosio. Toga-Rasa li definisce «l’uno più insulso dell’altro» e non provano nulla, anche se Augusto Bo, fabbricante d’inchiostro, afferma che Bosio, in passato suo lavorante, era un grande imbecille. Bosio lo ascolta e ride.
In questo sforzo disperato della difesa si è attivata anche la madre di Boeris, benché il figlio sciagurato la notte del 10 aprile, quando è tornato a casa, volesse bastonarla.
Arlaudo Lucia, vicina di casa di Boeris, racconta […] di una volta che egli legò un suo fratellino ad un palo, il ragazzo piangeva dibattendosi, ed egli stava a guardarlo ridendo. Dice che l’imputato ha la mania di stracciarsi la roba.
Il pubblico ride, e la teste mostra una camicia stracciata, consegnatale dalla madre del Boeris.
– Perché la madre ha conservato la camicia – dice il Presidente. – Sapeva forse che poteva un giorno essere presentata ai giurati?
L’imputato nega d’aver mai stracciato camicie.
Povera madre! Quale poema di materno amore!
Così Toga-Rasa commenta questo commovente momento del processo.
Il Presidente chiede ai periti di accertare se si possa ritenere che Boeris, quando ha commesso il reato, fosse in preda alla pazzia e Bosio imbecille. I periti domandano di visitare gli imputati. Il Presidente fa portare nell’emiciclo Bosio e Boeris. I periti li tastano, li palpano, guardano loro in bocca, negli occhi e svolgono altri accertamenti. Toga-Rasa commenta:
Vorrei sapere che cosa ne avranno pensato gl’imputati di quei due signori che li guardavano in bocca.
Bella domanda, ma anche a noi viene da chiedersi come si possa accertare lo stato mentale di una persona guardandogli in bocca. In ogni caso l’esame dei periti risulta disastroso per gli imputati:
Dopo la visita il prof. Morselli, perito della difesa, con una bellissima relazione fatta a braccio, escluse assolutamente la pazzia o la alterazione mentale in Boeris e l’imbecillità in Bosio. Il perito d’accusa prof. Perotti aggiunse alcune ragioni a quelle dette dal Morselli, associandosi alle di lui conclusioni.
Il processo si conclude il 7 luglio. Lasciamo la parola a Toga-Rasa:
Eccoci all’ultima scena di questo tristissimo dramma. Appena cominciata l’udienza il Presidente dà la parola al Pubblico Ministero cavaliere Magenta. La difesa previene lealmente che non si varrà della invocata pazzia degl’imputati come mezzo di difesa.
Il Pubblico Ministero sostiene che le prove della colpevolezza degli imputati sono lampanti. Entrambi hanno accoltellato il povero Zanetti, non erano ubriachi, hanno preparato e commesso l’omicidio a mente fredda, poi hanno cercato di distruggerne le tracce. Conclude dicendo che in un reato eseguito con tanta ferocia non è il caso di concedere le attenuanti e si dice fiducioso che i giurati vorranno negarle.
L’avvocato [difensore N.d.A.] Bracale sostiene che il Boeris era ubbriaco; discute a lungo sull’ubbriachezza, e conclude dicendo ai giurati che, quando diano un verdetto di piena colpevolezza, vogliano concedergli almeno le circostanze attenuanti onde evitare una condanna a morte.
L’avv. Frisetti si limita a chiedere per il Bosio le circostanze attenuanti, perché – dice il difensore – fu istigato dal Boeris, e si mostrò, dopo il reato, pentito del fallo commesso.
Il Presidente chiede agli imputati se abbiano nulla ad aggiungere. Bosio si leva a protestare dicendo che egli non ha colpito. – Via, via – interrompe Boeris, – io ho dato allo Zanetti la prima coltellata, tu gli hai dato le altre, e poi gli hai dato anche un calcio.
A questo punto il Presidente fa il riassunto dei dibattimenti processuali e propone ai giurati i quesiti cui devono rispondere. I più importanti sono: 1° Se gl’imputati abbiano commesso la rapina; 2° Se a scopo di rapina, con intenzione di uccidere, abbiano provocato alla vittima ferite che ne hanno provocato la morte; 3° Se, quando hanno commesso i fatti indicati nei due primi quesiti, erano completamente ubbriachi.
Alle 15:30 i giurati si ritirano in camera di consiglio. Dopo aver chiesto una spiegazione, alle 16:00 escono e il loro capo legge le risposte ai quesiti. Al 1° sulla rapina: Sì; al 2° sull’omicidio: Sì; al 3° sull’ubriachezza: No.
Gl’imputati non battono ciglio. Un mormorio d’approvazione s’ode nel pubblico. La condanna sarà a morte ed il voto popolare è compiuto.
La Corte si ritira per pronunziare la sentenza. Gli occhi di tutti sono rivolti alla gabbia degl’imputati. Boeris mastica un givo [mozzicone di sigaro, N.d.A.] e pare profondamente immerso in quella operazione; Bosio ha la testa appoggiata ai ferri della gabbia, si dibatte, poi si butta per terra e fa un pianto postumo di breve durata, perché d’un tratto si rasserena e prende anche egli a masticare il givo. Nella gabbia vi sono quattro angeli custodi vestiti da Carabinieri ed alcuni altri ronzano all’infuori della gabbia.
Non si sa mai!
Alle 4 ½ rientra la Corte e pronunzia una condanna a morte per entrambi gl’imputati. Essi l’ascoltarono con la massima indifferenza.
Intanto nel pubblico vi era un vero fermento. Si diceva che dal popolino del cortile si parlasse di strappare i due imputati dalle mani dei Carabinieri per mettere in pratica in questo caso la legge di Lynch, giustiziando a furia di popolo quei due miserabili. Il presidente, con ottima idea, mandò a richiedere un picchetto di soldati. Intanto i Carabinieri facevano sgombrare la sala; e Boeris, rivolto a qualcuno del pubblico, gridava: – Ciao, Flip: a l’an ancora nen ampicame. E masticava il givo, sputando dei salivoni.
Cinismo ributtante!
Alle 5 arrivò nel cortile un picchetto di soldati che si disposero in cordone. I due imputati, lieti come se andassero in Campidoglio, anzi quasi ghignazzanti, salirono sulla vettura, che partì seguita da grida d’indignazione contro quelle due belve umane.
Il verdetto dei giurati trovò una eco concorde nell’animo di tutti i cittadini. Se Bosio e Boeris non saranno giustiziati per alte leggi d’umanità, si sappia almeno che per la loro crudeltà meritavano la morte.
Sarà un’impiccagione… onoraria, e varrà quanto meno a soddisfazione del pubblico indignato e ad esempio contro la tristizie di quei cattivi ladroni giustamente chiamati barabba.
Si rispetti la legge e quella giusta, santa e solenne indignazione del pubblico che rinnega per suoi simili queste mostruose creature che scroccano la figura d’uomini!
La conclusione del nostro Toga-Rasa esprime il dilemma sull’applicazione della pena di morte che assilla le persone più acculturate e progressiste, prima del 1889, quando il nuovo Codice Penale Zanardelli cancellerà la pena capitale dalla legislazione italiana.
Si tratta di persone contrarie alla pena di morte, ma che si rendono conto di quanto sia difficile, di fronte a certi individui, mantenere l’asserzione di non voler punire un omicidio con un altro omicidio. Non è un caso che nel 1898, un decennio dopo il nuovo Codice Penale, Alberto Viriglio scriva «Noi, gente mite e remissiva, neghiamo alla società il diritto di uccidere, lasciandolo integro però ai signori assassini». Viene la tentazione, in questo tristissimo caso, di rifarsi a una cinica affermazione dello scrittore statunitense Henry Louis Mencken (Baltimora, 1880 – 1956): «Impiccare un farabutto, sembra, non funge da deterrente per il prossimo. Bene, e allora? Almeno ci siamo sbarazzati del primo».