Tra Machiavelli e Kelsen si gioca il nostro destino
Verso la fine della Seconda guerra mondiale – più precisamente nel 1944 – il giurista e filosofo austriaco Hans Kelsen (1881-1973) dava alle stampe “La Pace attraverso il diritto”: libro, a sua volta, influenzato dalla lezione razionalista e universalista di Immanuel Kant che nel 1795 pubblicava “La pace perpetua”.
Per anni, il testo di Kelsen ha rappresentato la prospettazione più nota e interessante della speranza di un equilibrio mondiale contraddistinto da una condizione di perdurante pace (che Kelsen definiva “assenza di forza”) da realizzarsi tramite l’istituzione di un Tribunale internazionale che applicasse un diritto sopranazionale.
In estrema sintesi, terminata la guerra, per Kelsen si sarebbe dovuto dar vita (mediante la stipula di un trattato sottoscritto dal maggior numero di Stati) a una “Lega permanente per il mantenimento della pace”, nonché a una corte mondiale che – come detto – possedesse una giurisdizione vincolante.
Le nazioni aderenti sarebbero state così costrette a rinunciare alla guerra e a sottomettere eventuali dispute con altri popoli alle decisioni del Tribunale. Inoltre, le responsabilità degli Stati e dei rispettivi capi che avessero violato i principi internazionali, sarebbero state perseguite attraverso processi e, di conseguenza, sanzionate.
Benché assolutamente consapevole che si trattasse di un progetto difficile da realizzare (soprattutto nella fase di applicazione delle sentenze), Kelsen risultava sostanzialmente fiducioso. Cosciente che, in ultima istanza, soltanto il ricorso alla forza avrebbe garantito l’efficacia di un giudicato (scriveva Kelsen: “Forza e diritto non si escludono. Il diritto è un’organizzazione della forza”), il pensatore austriaco riteneva che il metodo più efficace per far rispettare le decisioni della Corte consistesse nell’istituire un potere esecutivo centralizzato, gestito da una polizia indipendente da quella dei singoli Stati, accompagnata (contestualmente) da una riduzione degli eserciti nazionali, in modo da assicurare ciò che Max Weber definiva il “monopolio della forza legittima”.
Sono oramai trascorsi ottant’anni dall’uscita di “Peace through Law” e, il mondo, dopo la parentesi bipolare caratterizzata dall’egemonia delle due superpotenze USA e URSS e un decennio di “pax romana” sotto l’egida USA intercorsa tra il crollo dell’URSS (1989-‘91) e l’attentato alle torri gemelle del 2001, è diventato multipolare e, conseguentemente, in maggior misura instabile.
Infatti, i c.d. “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti, senza contare le prossime adesioni che potrebbero coinvolgere paesi importanti quali l’Arabia Saudita e il Venezuela), con 3,24 miliardi di persone e una percentuale del 32% del PIL globale, rappresentano un’alternativa quanto mai agguerrita all’occidente a guida USA, non solo in termini economici e demografici, ma anche militari, come dimostrano le recenti guerre in Ucraina e tra Israele e Hamas-Hezbollah-Iran.
Per il vero, alcune proposte dell’elaborazione di Kelsen si sono realizzate (anche se in termini non esattamente identici), basti pensi alla nascita nel 1945 dell’ONU e nel 2002 della Corte penale internazionale, ossia di un tribunale specificatamente inteso a punire crimini di guerra e contro l’umanità.
Eppure, con la simpatia (ma anche le criticità) che la prospettazione di Kelsen di una “pace attraverso il diritto” può dar vita, la realtà sembra andare in altra direzione. Limitandosi a prendere a riferimento gli attuali due principali conflitti, ovvero la guerra russo-ucraina e quella tra Israele e Hamas-Hezbollah-Iran (e paesi satelliti), il diritto internazionale bellico e le istituzioni preposte (ONU e Corte penale) si sono rivelate incapaci di prevenire, prima che si facesse ricorso alle armi, quindi che più di un crimine contro l’umanità venisse perpetuato.
Senza voler aspirare all’esaustività, decine sono stati gli episodi di attacchi indirizzati contro infrastrutture pubbliche e private, le violenze sui prigionieri, l’uccisione di donne e bambini (per offrire un’idea – secondo Oxfam – di circa 40.000 morti palestinesi, almeno 6.000 sarebbero donne e 11.000 bambini, di contro a 1.600 israeliani uccisi, anche in questo caso in prevalenza civili).
Nonostante i ripetuti e disattesi appelli dell’ONU e l’apertura di indagini e sentenze della Corte penale internazionale (tra cui il mandato d’arresto nei confronti di Vladimir Putin per crimini di guerra nel conflitto in Ucraina del marzo 2023, per il momento disatteso) la situazione risulta in larga misura fuori controllo.
In particolare, quello che è (o sarebbe meglio dire “dovrebbe essere”) il diritto internazionale bellico appare sempre più inadatto a gestire conflitti non più (o non solo più) combattuti da eserciti regolari, bensì caratterizzati da azioni di terrorismo e guerriglia, a cui gli stessi “eserciti ufficiali” rispondono con strategie militari che talvolta oltrepassano la legittimità del diritto internazionale bellico. Lo scoppio simultaneo di migliaia di cercapersone in dotazione a sedicenti esponenti di Hezbollah in Libano e Siria – che ha provocato diversi morti e migliaia di feriti – ne è uno tra i tanti esempi.
Cosa dobbiamo pensare. Certamente è brutto smettere di sperare in un mondo dove diritto, giustizia e pace siano capaci di coabitare e primeggiare, ma se la storia è un giudice severo, allora siamo costretti a prendere atto che la forza e il realismo di Machiavelli – per adesso – stiano vincendo sul sogno illuministico e razionale di Kant e Kelsen.
Molto interessante! Grazie!
Concordo appieno! Grazie!
Complimenti, anche questo articolo mi è molto piaciuto.
È scritto molto bene, e anche l’argomento è molto interessante