«Quando si dice che gli elettori scelgono il loro deputato,
si usa una locuzione molto impropria:
la verità è che il deputato si fa scegliere dagli elettori
e, se questa frase sembrasse in qualche caso troppo rigida e severa,
noteremmo temperarla dicendo che i suoi amici lo fanno scegliere»
- Mosca, Elementi di scienza politica, Torino, Bocca, 1896.
Mancano un paio di settimane all’appuntamento elettorale e cresce febbrile la ricerca di consenso da parte dei candidati. I giornali si riempiono di réclame, le buche di volantini, i cartelloni di visi sorridenti e di slogan accattivanti. Specie nelle piccole e medie realtà di provincia, i mercati brulicano di aspiranti sindaci, assessori e consiglieri (comunali e regionali) che stingono mani, dispensano complimenti, abbozzano strategie talvolta senza avere idea di quali siano gli strumenti economici e giuridici che servono per realizzarle.
I social diventano infuocati spazi di conflitto dove, più che i programmi, spesso trova spazio la denigrazione dell’avversario. Gli stati delle messaggerie si inzeppano di richieste di voto, mentre i più spregiudicati non mancano di distribuire santini pure davanti ai sagrati delle chiese o di offrire cene e aperitivi elettorali. Le promesse pullulano, le millanterie pure.
Una parte della popolazione si appassiona, un’altra ostenta disprezzo, un’altra ancora – perché scoraggiata o di natura apatica o pusillanime – osserva disincantata, rimandando all’ultimo ogni decisione sul voto, oppure semplicemente rinunciandovi.
Passata la bulimia elettorale, non essendo riuscita a venir eletta, la stragrande maggioranza dei candidati rientra mesta nei ranghi della propria vita privata, salvo un esiguo numero di persone che, per tempra e costanza, nutre particolare passione verso la politica.
Le stesse sezioni locali dei partiti che, durante i mesi antecedenti alle tornate elettorali, si sono affannosamente prodigate per ricercare candidati, catturare visibilità e consenso, spariscono dall’orizzonte delle piazze, eclissandosi in qualche sporadica iniziativa o comunicato stampa.
Eppure non è sempre stato così. Dalla fine del secondo conflitto mondiale sino ai primi anni Novanta – ovvero durane la c.d. “prima repubblica” – i partiti erano organizzazioni “di massa” sia per quantità d’iscritti sia per capacità di penetrazione – talvolta anche collegata a nefasti meccanismi clientelari – nella vita economica e sociale.
A conferma basti citare qualche esempio. Se nel 1972 gli iscritti ai principali partiti ammontavano a oltre 4.500.000 milioni su 37.000.000 di elettori – pari al 12,52% – nel 1996 i tesserati superavano di poco i 2.000.000 su quasi 49.000.000 milioni di votanti, pari al 4,21% (fonte: F. Raniolo, La partecipazione politica, il Mulino, Bologna, 2002), per poi crollare adesso sotto il milione (circa 200.000 per Fratelli d’Italia, 150.000 per il PD, 100.000 rispettivamente per Lega e Forza Italia).
Ogni partito della “prima repubblica” aveva le sue potenti e diramate associazioni culturali e di categoria (si pensi alle ACLI, alla CISL e alla Coldiretti per la DC, alla UIL per il PSI, alla CGIL per il PCI), nominava referenti dentro importanti enti pubblici ed economici (la sola IRI controllava colossi quali Alfa Romeo, Alitalia, Autostrade, Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Fincantieri, Finmeccanica e Rai), aveva sedi e giornali “amici” disseminati per la penisola.
Negli ultimi decenni tutto ciò si è (in larga misura) liquefatto. Da quando l’inchiesta giudiziaria “Mani pulite” ha spazzato dalla scena la Democrazia cristiana e il Partito socialista e la caduta del Muro di Berlino ha obbligato il vecchio Partito comunista a ridefinirsi, prima nel Partito democratico di Sinistra, quindi nel PD, pur con i dovuti distinguo (perché Fratelli d’Italia, il PD e in parte la Lega – specie quella bossiana degli albori – hanno comunque mantenuto una discreta struttura organizzativa), i movimenti politici si sono essenzialmente trasformati in “comitati elettorali”.
Sul modello USA, i partiti sono così diventati entità fluide che – al pari di quanto ebbe a sottolineare, oltre un secolo fa, Moisei Ostrogorski in un interessante libro intitolato “La democrazia e i partititi politici” – si mettono primariamente in moto a ridosso dei passaggi elettorali, finendo per somigliare ad aziende (emblematica è la nascita di Forza Italia ad opera di Berlusconi) strettamente legate alle fortune e sfortune dei rispettivi leader (i c.d. “partiti personali” lumeggiati da Mauro Calise).
Anche l’elettorato è divenuto maggiormente mobile. Mentre fino agli anni Settanta (tendenzialmente) gli operai votavano il PCI, i piccoli agricoltori la DC, la media borghesia intellettuale il PSI, i ceti agiati i liberali, oggi si aspira ad essere “pigliatutto” (dalla definizione coniata dal politologo Otto Kirchheimer di “catch-all party”), ovvero a catturare il voto di qualsiasi persona e categoria sociale.
Dalle ideologie si è passati alle idee, dai contenuti agli slogan, dalle lotte nelle piazze ai dibattiti nei salotti televisivi. Non solo i partiti non appaiono più strettamente connessi alla società che mirano a dirigere, ma (al netto di roboanti promesse elettorali) nemmeno sono in grado di governare il presente, tanto meno di progettare un futuro.
Naturalmente ciò non significa che la colpa sia interamente da accollarsi ai partiti: le società e le economie contemporanee si sono fortemente globalizzate e non appaiono facili da gestire, anche per via di influenti gruppi di pressione, la cui influenza non fatica quasi mai a oltrepassare i confini nazionali. Inoltre, esistono indubbiamente leader e amministratori che sanno ancora fare politica e raccogliere consensi. Spetterà agli elettori individuarli e premiarli.