Massimo Centini per il Festival della Criminologia
È difficile indicare una data che possa essere considerata il principio di quel diabolico criminale attualmente definito serial killer. È difficile perché questo tipo di attività criminale oggi ci pare un’esperienza contemporanea, quasi un prodotto caratteristico della cultura del secolo conclusosi da poco. In realtà il fenomeno ha radici lontane che possono essere scorte anche molti secoli fa.
Il problema interpretativo riguarda soprattutto l’atteggiamento della gente della strada e delle scienze, che in passato (in particolare fino al XVIII secolo), hanno commentato certi crimini efferati con toni tendenti ad ammantarli di magia, di mistero, relazionando quelli che oggi consideriamo omicidi seriali, all’universo del soprannaturale e in certi casi a quello demoniaco. Ciò, naturalmente, ha profondamente condizionato non solo l’approccio scientifico coevo, ma anche le memorie che nel corso del tempo ci hanno riportato alcuni degli aspetti più truculenti della follia umana.
Quindi è sempre abbastanza rischioso pretendere di fissare una data d’inizio quando si parla di serial killer, ma per dare un senso preciso a questa nostra storia dei crimini seriali in Italia da qualcuno dobbiamo pur cominciare. Scegliamo quindi di dare inizio a questa nostra galleria degli orrori nostrani, con un personaggio di cui sappiamo poco, così come non ci sono noti tutti i suoi crimini, ma il cui curriculum criminale è particolarmente nutrito. Ci riferiamo al cosiddetto “Mostro di Stretta Bagnera”, al secolo Antonio Boggia.
Nato a Milano nel 1797, Boggia può essere definito un serial killer “anziano”, infatti iniziò ad uccidere a 52 anni, quindi ben oltre l’età media di questo genere di criminali. Le sue vittime furono quattro, tre uomini e una donna, e vennero uccise in un arco di tempo molto ampio, dieci anni: tale lasso di tempo non è un’anomalia, infatti, negli omicidi seriali, sono stati spesso registrati periodi di “inattività” tra un crimine e il successivo, che possono continuare anche per alcuni anni.
Allora gli investigatori posero l’accento su un aspetto rilevante tendente, oggi, a creare qualche attrito tra il caso Boggia e la metodologia dei crimini seriali: l’attenzione dell’assassino per i vantaggi economici che poteva trarre dall’omicidio.
Senza dubbio però nel modus operandi di questo criminale non risultavano di certo assenti atteggiamenti maniacali tipici del serial killer.
Tre dei crimini vennero commessi tutti nello stesso posto, all’interno di uno scantinato sito in una piccola via del centro di Milano: Stretta Bagnera, tra il 1849 e il 1859. In quel periodo Milano faceva parte dell’impero austro-ungarico e Antonio Boggia era un uomo come tanti, la cui attività si concentrava sostanzialmente nella gestione di beni immobili altrui: era quello che oggi definiremmo un “amministratore di condomini”, probabilmente abituato a vivere bene. Quale fosse il suo status possiamo solo immaginarlo, poiché ci sono completamene ignoti quegli aspetti rilevanti della sua biografia che potrebbero consentirci di tracciare un quadro meno approssimativo del suo ambiente, delle sue amicizie, dei suoi rapporti con gli altri.
Di certo le vittime non erano sconosciute: tutte avevano già intessuto con il Boggia un qualche rapporto, anche di semplice conoscenza: quindi erano persone che l’assassino non scelse a caso, ma individuate a priori per alcune caratteristiche specifiche. Quali?
Gli inquirenti dissero che gli omicidi furono determinati soprattutto da motivi di interesse: infatti, almeno tre delle quattro vittime, erano benestanti e soprattutto con limitati rapporti con i parenti. Ad esclusione della prima, un operaio, tra le altre troviamo un commerciante, un uomo d’affari e un’anziana donna possidente.
Ma gli omicidi non furono solo alimentati dal mero interesse economico; infatti le modalità che caratterizzarono le azioni del “Mostro di Stretta Bagnera”, ebbero toni in cui è facile scorgere gli effetti di un’attività maniacale ben precisa.
Dopo l’uccisione, effettuata in un caso con un corpo contundente e negli altri casi con una scure (secondo un metodo tipico del serial killer che solo in casi molto rari si avvale di armi da fuoco), l’assassino si fermava sul luogo del crimine dedicandosi ad alcune quelle attività presenti nella patologie che accompagna chi uccide non solo per motivazioni criminali dirette (sottrazione di beni, vendetta, ecc.) ma spinto da impulsi maniacali.
In effetti, il “Mostro di Stretta Bagnera”, dopo aver acquistato con l’inganno la fiducia delle vittime, le uccideva a quindi compiva alcune azioni che esprimevano una forte patologia psichica: necrofilia, necromania; una delle vittime fu decapitata e depezzata.
L’attività rituale connessa alla sfera sessuale, non gli impediva però di cercare di sottrarre i beni delle vittime. Nei giorni successivi all’omicidio, dopo aver fatto sparire il cadavere, il Boggia si dedicava con calma a depredare la casa della vittima, giungendo anche a venderne i mobili per cercare di ricavare la maggior quantità di denaro. Il fatto che scegliesse vittime con pochi o nessun parente o amico, è emblematico della sua tecnica di serial killer organizzato, che comunque fu sempre travolto dalla forte tensione scaturita dallo scontro tra i momenti di lucidità e quelli di follia.
Forse fu proprio l’avidità a renderlo vulnerabile. Nel 1859, venne arrestato perché una potenziale vittima, già colpita con una bastonata sulla testa, riuscì a fuggire e a dare l’allarme.
Malgrado le pesanti accuse che gravavano su di lui, Antonio Boggia riuscì a beffare polizia e giudici, fingendosi pazzo. In questo modo ottenne la scarcerazione ottenendo la libertà.
A conferma di quanto il Boggia fu convincente nel farsi credere matto, abbiamo anche un frammentario ma indicativo riferimento di Cesare Lombroso, presente all’interno di una sua analisi dei manicomi criminali: “L’invio ai manicomi è seguito da altri malanni. Essi vi portano tutti i vizi e le abitudini delle classi immorali d’onde sortirono ; continuo vociferatori e attaccabrighe, pieni di morbosa idea di sé medesimi, si mostrano scontenti sempre del trattamento dell’asilo, e reclamano come un favore il ritorno alla prigione; si fanno apostoli di sodomie, di fughe, di ribellioni, di furti, a danno dello stabilimento e degli ammalati stessi, a cui coi loro modi osceni e selvaggi e colla triste nomea, che li precede, destano spesso paura e ribrezzo, come li desta nei congiunti il sapere accomunati con essi i propri cari; chi non sentirebbe orrore di avere avuto un figlio compagno di dormitorio con Boggia?” (tratto da “Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere”, 1872).
Appena fuori di prigione, incontrò un’anziana donna molto ricca: l’incontro probabilmente alimentò le sue fantasie omicide, senza però lasciare indenne la sfera degli interessi. La donna si chiamava Ester Maria Perrocchio, aveva settant’anni e bisogno di qualcuno che volesse amministrarle l’edificio in cui viveva: il “Mostro di Stretta Bagnera” colse l’occasione al volo…
Quando ormai la donna nutriva la piena fiducia nel Boggia, venne uccisa in casa con un colpo di scure. Su quell’azione il serial killer dirà: “Mentre la donna parlava vidi la scure: mi colse un estro e le vibrai un fortissimo colpo in testa”.
Inquietante l’affermazione: “Mi colse l’estro”, quasi come se dietro quell’azione l’assassino ponesse un impulso irrefrenabile, qualcosa di difficile da definire che forse sperava di sfruttare ancora in fase di giudizio. Questa volta le cose andarono diversamente, e la giuria non ebbe dubbi: lo condannò all’impiccagione.
Non sapremo mai con precisione se a tradirlo fu l’avidità o il solo perverso desiderio di relazionarsi il più a lungo possibile con la vittima: infatti, dopo aver ucciso la Perrochio, trascorse tutta la notte accanto al corpo della donna assassinata. E accanto a quel corpo venne scoperto, la mattina seguente, dal figlio della vittima che non ebbe alcuna difficoltà a fermarlo e farlo arrestare. A quel punto le imprese del “Mostro di Stretta Bagnera” erano finite per sempre.
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