Seconda Puntata
Eliot raggiunse il mare di Genova, lo volle toccare perché non credeva ancora che fosse vero. Si lavò le mani sentendo il freddo pungente solo sui polsi, più sensibili delle dita ormai consumate dal lavoro.
Eliot si svegliò dal quell’insolito torpore, vinto da un crescente solletico provocato dal Piota che impassibile cercava qualche traccia di cibo dalla sua mano, leccandogli le dita che penzolavano inermi lungo il fianco della sedia.
Vincent, accortosi che l’ospite era semi addormentato, con una furbizia tutta sua cercava di raccogliere maggiori dettagli sulla vita, propinandogli sempre con maggior generosità rosse dosi di quel liquido che egli, con estremo coraggio, definiva vino.
– Ma te che fa lo scalpellino de le pietre, no? Ecco come te fase a campare che mica tutti si fanno le chiese?
Pronunciò questa arguta considerazione ridendo forte e palesando un’arcata dentale piuttosto intermittente.
– Mentre viaggio per le vie del mondo mi fermo nei borghi e cerco se qualcuno si deve rifare la tomba o aggiungere delle scritte… Oppure riparo nelle case qualche angolo poco preciso o scrivo il nome del padrone sulla trave della porta d’entrata.
– Ma alora già ti g’ho trovat un lavuret per me, che così ti sdebiti del pranzo e del vino.
Tirando l’ospite per un braccio Vincent lo accompagnò verso la cucina, che era poi al fondo dell’unico stanzone che costituiva il casolare.
– Ecco vedi questa pietra che tiene il buco del gancio da apendere le robe? Ecco sotto c’era un legno che si mettevano le cose e ora s’è sciapato da tempo e volevo metterci una pietra di punta che faceva lo stesso di prima, no?
– Si ho capito vedo cosa si può fare.
Eliot infilò un dito nel buco per misurarne la forma e la larghezza, poi prese della mollica di pane, vi avvolse un rametto di alloro che aveva trovato sulla madia e fece una specie di stampo da mettere nel buco. Quando lo tolse, grazie al rametto che fungeva da manico, uscì ed estrasse dalla bisaccia una scaglia di marmo e dei piccoli ferri da rifinitura. Trascorse qualche minuto ad armeggiare sotto il tettuccio che proteggeva l’uscio dall’esterno e rientrò con il pezzo perfettamente lavorato.
Sotto gli occhi stupiti di Vincent, Eliot introdusse il nuovo tassello di marmo nel foro per verificare le misure, non dovette neppure rifinirlo poiché lo stampo aveva permesso la massima precisione del suo lavoro. Eliot fece un impasto usando la mollica dello stampo, un poco d’acqua, dei gusci d’uovo triturati fini, del fango e un poco di albume. Sotto lo sguardo sempre più perplesso di Vincent riempì il foro con il impasto, fino a farlo sbordare, quindi introdusse il tassello di marmo spingendolo prima con forza e poi assestandogli qualche colpo di martello, dopo aver protetto il marmo con una scheggia di frassino.
Il lavoro risultò essere perfetto, un tassello di marmo di Carrara sporgeva dal filo del muro per almeno quattro dita, una piccola scanalatura permetteva agli oggetti che vi avrebbero appeso di non scivolare in avanti. L’impasto in eccesso al contatto dell’aria iniziò ad indurirsi, mentre lo scultore raschiava con una punta fine quello che sbordava dal foro.
– Ora lasciamolo seccare il giusto che diventa più duro del cemento, poi domani potrai attaccarci anche il Piota.
La giornata scivolò senza grandi incertezze. La pioggia aveva ridotto la sua intensità smettendo di tamburellare sulle tavole che fornivano riparo ai conigli sistemati in un ricovero posto a fianco del muro di casa.
Vincent era seduto vicino alla stufa con un falcetto cui faceva il filo, il Piota dormiva ai suoi piedi tenendo una coda di coniglio tra le zampe ed Eliot era assorto di fronte ad un blocchetto di marmo tolto dalla bisaccia, nel quale forse intravvedeva una piccola figura da far riemergere dalla pietra.
Il tempo sembrava rallentare il proprio corso, nella casa vi era un silenzio pesante fatto di pensieri che non volevano svelarsi, immersi in un’intimità che sembrava proteggerli. Quei pensieri formati forse da ricordi o da desideri inespressi, galleggiavano pigramente nell’aria, sopra le loro teste, come se appartenessero ad un mondo sconosciuto, un mondo che li osservava senza interagire con le loro menti, come se fosse lontano, impalpabile, alieno.
Eliot era incuriosito dalla vicenda del Matto, non aveva raccolto altre informazioni su quel personaggio, ma si era fatto l’idea che si trattasse di uno di quei tanti misteri che si integravano nel contesto del luogo.
In quel lontano periodo storico la realtà era spesso sciolta nella leggenda, amalgamata nelle trame di convinzioni superstiziose credute vere da tutti.
Se tutti pensavano che un determinato evento fosse possibile, quell’evento diventava reale e concreto, senza che nessuno dubitasse o provasse a pensare il contrario. La magia era percepita come una grande presenza che abbracciava la Natura e gli uomini, le forze occulte interagivano nell’immaginario collettivo come Cause non meno vere di quelle fisiche. I fantasmi erano presenti, visti nel lampo di un temporale o nella nebbia del mattino, uditi nel grido di un corvo o nell’urlo di un topo catturato da una civetta. Demoni e spiriti di varia natura convivevano con gli uomini, abitanti di un mondo che aveva imparato a coesistere con il terrore della notte, nel buio delle proprie paure.
Vincent guardò Eliot immerso nei pensieri, osservò le sue mani giocare con il pezzo di marmo e lo sguardo perso nel vuoto.
– Alora te raconto del Mat, che se no poi dice che ciò i segreti:
– Tanto tempo fa, che non mi ricordi neanche bene, mio padre mi disse che nel bosco di sopra aveva vist uno che ciaveva un morto su la schiena, Cioè diceva che uno, che saria poi il Mat, se portava un altro, che non si sa, morto su la schiena. Poi mi dice che se lo guardava senza che lo vedeva e che poi sto Mat prende una pala e fa un buco in tera. Ma ci sepelisce solo il corpo, che la testa la toglie con una specie di lama di fero che aveva dietro. Chiude il buco e ci mette la terra di sopra, poi porta la testa dentro la casa. Mio padre dice che sera preso la paura, poi a nostra casa non sapeva se dirlo o tasere come se aveva un segreto, no? Allora non dice niente a mia madre e me e il giorno dopo va a vedere da vicino se c’era ancora quel Mat. Ma io che capivo poco ma qualcosa, lo avia seguito e quando vedo che si mete soto la finestra e poi si alza per vederci dentro capisco che ci sarebbe di strano e mi nascondo.
Intanto, visto che il Mat non era lì, entra da la porta e cosa vede?
Bene vede la testa sul tavolo che era tutto col sangue secco. Poi corre di fuori e scappa verso di me che non mi vede da dietro una pianta e va a casa. Io che non sapevo cosa che aveva guardato vado a vedere da la finestra che capivo meglio che dentro casa e nel mezzo buio vedo sta testa e mi faccio paura.
Alora sento un rumore e sto ben fermo di fuori ma nascosto. Vedi che entra uno alto e non ci vedo la facia, ma entra e anvisca una candela grossa. Poi prende la testa che ora di dietro la finestra vedevo meglio e ci mette sopra una specie di roba scura come pece, di quella che c’era nella palude a grumi e che puzza le mani. Poi prende la testa e ci mette un palo di legno da soto che entra e va dentro tanto, e pogia sul tavolo sto fatto.
Eco, ora anche te sai chi l’è sto Mat!
Eliot aveva ascoltato in silenzio quella macabra vicenda, cercando di cogliere nella narrazione una spiegazione che fosse meno irragionevole di come potesse apparire.
– E poi sei tornato in quella casa?
– si ma tanto dopo e poi sucede una cosa che fa anche di più strano:
torno, fai dopo un mese, vedo che non c’è anima e guardo bene dentro e vedo il tavolo con dei vetri e bichieri e roba di taze piene di qualcosa. Alora entro da la porta e ti vedo come un tavolo pieno, pieno di erbe seche messe sopra e poi un vetro pieno di qualcosa gialla e un forno ma spento. La testa non ci era più ma al posto una specie di crapa de omo con la pelle nera come carbone. Mi son preso la paura e son scapato e quando che sto di fori una mano grosa mi schiacia la spala e mi ferma bene: “Chi se?”, Mi dice “che ci fai dentro la mia casa?” che non ci aveva torto, però faceva anche male. Poi mi da una sberla che cado e mi dice: “se non vuoi che ti mazzo ora mi pulisci la casa e se torno che è sporca ti taglio la gola”. Così ho fatto che ho spazato e lavato col vasco di legno e la scopa meglio che mia madre a casa mia.
Poi lù torna e mi dice: “bravo che ti do tre mele e se torni a pulire poi ti lascio qualcosa di mangiare, ma solo di giorno, che qui di notte non si viene mai! E alora io ci vado per qualche tempo e poi lui non torna e io non vado più. Ora sono almeno cinque inverni che non vado perché non c’è nessuno e che ci vado a fare’
Il racconto di Vincent fece riemergere dal passato una storia impressionante, dai colori lividi e dal significato impenetrabile.
Tuttavia le domande di Eliot riguardavano i dettagli della sua descrizione, come se per lo scalpellino la vicenda narrata fosse quasi normale, come se quella situazione grottesca non fosse altro che un corollario di quel mondo raccapricciante che egli stesso scolpiva sui portali e negli interni delle chiese.
Eliot riuscì a crearsi un’immagine perfetta e dettagliata di quell’ambiente, riuscendo forse a percepirne anche gli odori che emergevano dai botticini pieni di liquidi sconosciuti. Un grande tavolo di legno scuro con piccoli strumenti da alchimista, erbe e alambicchi, un braciere, tanti tesori della terra come rocce colorate e gusci di animali, oltre a scheletri e pelli seccate appese ai muri, questa era la miglior descrizione che si potesse ricavare dal racconto di Vincent. Tuttavia mancava un elemento fondamentale: vicino alla testa mummificata, che ora occupava una posizione centrale sul tavolo, era presente una piccola formella di argilla che presentava molti simboli geometrici.
Eliot aveva introiettato ogni dettaglio della descrizione fatta da Vincent: avrebbe potuto entrare in quella casa ad occhi chiusi ed essere sicuro di ritrovare ogni cosa nel luogo esatto indicatogli dal suo ospite.
Sebbene Vincent fosse un poveraccio semi analfabeta, incapace di leggere e di scrivere, i suoi racconti sembravano emergere da un tipo differente d’intelligenza, sembrava che una mente più aperta e analitica fosse in grado di ricordare particolari così precisi e coerenti, collegati da un filo invisibile che li poneva in logica relazione.
Lo scalpellino si fece spiegare bene dove fosse la casa del Matto, ora aveva intenzione di visitarla.
Eliot aveva compiuto studi molto semplici, basilari, ma nella scuola di scultura di Wiligelmo chi prendeva il grado di Compagno d’Arte doveva impegnarsi nella tecnica del conteggio. Doveva imparare le formule che regolano le proporzioni, e gli equilibri delle forme, più tardi quelle stesse intuizioni sarebbero state fonte d’ispirazione a Fra Luca Pacioli, il padre della Sezione Aurea.
Il giovane artista aveva ben compreso che in quella casa si doveva nascondere qualcosa di importante, di grave, di segreto.
Non poteva però immaginare che vicino al teschio fosse appoggiata una piccola stele con uno scritto della massima importanza, fatto di segni e simboli, noti solo a qualche Dottore della Chiesa o a qualche Filosofo innamorato delle antiche tradizioni.
Congedandolo Vincent provò un senso di affetto dovuto alla gratitudine per avergli alleviato il disagio di una completa solitudine, resa meno dolorosa unicamente dalla presenza del Piota. Inoltre la compagnia dell’artista gli aveva fatto emergere ricordi passati, fantasmi di un tempo lontano in cui albergavano ancora pensieri piacevoli.
Il soggiorno di Eliot durò una decina di giorni. In quel breve lasso di tempo nacque tra i due uomini un senso di profonda amicizia. Lo scalpellino aveva reso molti servigi a Vincent: la sua abilità manuale si era espressa in tanti piccoli lavoretti con i quali aveva ampiamente ripagato l’ospitalità ricevuta.
Una mattina di fine Novembre Eliot uscì per riprendere il cammino verso la Sacra di San Michele. Vincent gli indicò la direzione in cui avrebbe potuto trovare la casa del Matto, ben sapendo che la sua curiosità gli avrebbe impedito di abbandonare la zona senza visitare quel luogo misterioso. Il cane Piota si offrì di accompagnare Eliot per qualche tratto, muovendosi proprio verso quella casa, come se avesse ricevuto un preciso comando. Dopo tre ore di cammino lungo un sentiero reso ancora umido e scivoloso dalle recenti piogge, intravide dietro la sagoma del cane una costruzione che si stagliava in controluce. Ebbe una strana impressione, quasi una premonizione che sembrava volergli suggerire che stava entrando in un luogo sacro. Una sorta di area popolata da creature aliene, forse proprio dalle anime di quelle stesse forme che egli soleva scolpire sui capitelli delle colonne.
Il Piota si fermò di colpo come se avesse trovato di fronte a se un ostacolo invalicabile. In realtà Eliot non vide nulla di strano, fece alcuni passi quindi chiamò il cane senza ottenere alcuna reazione. Il Piota senza alcun apparente motivo abbaiò un paio di volte a voce alta, come per salutarlo, si girò e tornò rapidamente sui propri passi in direzione di casa.
Questo comportamento stupì Eliot, ma non lo distolse dal desiderio di conoscere a fondo la realtà dai tratti un po’ inquietanti di quel luogo. In quella particolare situazione sembrava che i suoi sensi si fossero affinati. Gli parve di udire il canto degli uccelli che in quella stagione sono un fenomeno piuttosto raro, così come percepì una temperatura più alta non giustificata dall’assenza di raggi solari. Sebbene il Sole non fosse ancora visibile, nascosto da una bruma molto fitta sempre presente nelle prime ore che seguivano l’alba, un misterioso tepore sembrava accarezzare le parti esposte del suo corpo, in particolare il viso più sensibile delle mani e protetto da una barba sommariamente curata.
Eliot si avvicinò a piccoli passi all’abitazione, riconoscendo tutti i particolari degli esterni che Vincent gli aveva descritto. Si avvicinò alla finestra, l’unica di tutta la casa, e scostò un poco le tavole che fungevano da imposte. Percepì un odore molto famigliare di cera e fumo, mescolati a essenze di erbe bruciate.
Fine seconda parte
Molto intrigante, anche nella seconda parte….grazie .