
Nel 1968, Jean-Jacques Servan-Schreiber ne “La sfida americana” già teorizzava la marginalizzazione dell’Europa rispetto agli Usa per la debolezza in campo tecnologico
Tralasciando chiacchiere e commenti superficiali che animano le polemiche dei politicanti all’amatriciana e il gossip che imperversa in questi giorni, ci sono due punti che dovrebbero far riflettere i politici italiani ed europei nell’approfondimento degli impegni strategici del programma elettorale e oggi di governo di Donald Trump e precisamente.
- Rendere l’America il primo produttore al mondo di energia
- Porre fine all’esternalizzazione e rendere gli Stati Uniti una superpotenza manifatturiera
Invece di perdersi dietro a commenti e considerazioni di politica interna che non ci toccano e vertono sull’immigrazione e il controllo della FBI, di competenza dei cittadini americani, l’attenzione dei governi dovrebbe essere rivolta all’impegno di Trump ancor più deciso a procedere nel rafforzare strategie e politiche che vedono già gli Stati Uniti primeggiare rispetto all’Italia e all’Europa.
In entrami i settori citati, nel corso degli anni, l’Italia ha agito in modo diametralmente opposto e ne stiamo pagando le conseguenze. Oltre ai mali antichi, in Italia i governi hanno chiuso o non adeguato la potenzialità delle centrali idroelettriche, bloccato lo sviluppo del nucleare e la ricerca di altre fonti di energie presenti nei fondali marini e nel sottosuolo, vietando le trivellazioni. All’interno del panorama europeo l’Italia è il Paese con il maggior grado di dipendenza energetica pari al 74,8% ben sopra la media europea.
Sul piano industriale sono state svendute le acciaierie e drasticamente limitata la produzione di componenti informatici buttandoci nelle braccia dei cinesi. Le nostre scelte sciagurate ed attendiste, non iniziano con Prodi e Ciampi, ma purtroppo hanno radici lontane, anche se altri Paesi europei non primeggiano.
Dopo la Seconda guerra mondiale, l’assorbimento dell’Europa nel campo geopolitico guidato da Washington le ha fatto gradualmente perdere la capacità di generare, con gli investimenti in industria, capitale umano e ricerca, le tecnologie più all’avanguardia.
La scelta delle nascenti istituzioni europee di ridurre lo spazio per la concentrazione industriale e la formazione di veri “campioni” nazionali od europei attraverso le regole sulla concorrenza e il divario strategico con gli Usa, portarono all’emersione di riflessioni sul problema del ritardo europeo, che da terra di innovazione si trasformò in terra di “applicazione differita” di tecnologie elaborate altrove in ambito militare, industriale, civile.
Gli avvertimenti autorevoli non mancarono. Già nel 1968 il giornalista francese Jean-Jacques Servan-Schreiber pose nei giusti termini la questione nel suo libro Le défi américain, presentato anche a Torino e tradotto in italiano con la prefazione di Ugo La Malfa che sostenne la tesi, estremamente azzeccata, secondo cui il 1980 sarebbe stato un anno-spartiacque per definire la completa divaricazione tra i due sistemi-guida dell’Occidente.
L’autore sottolineava come nel campo tecnologico si sarebbe giocata la trasformazione dell’Europa e degli Stati Uniti in due “civiltà distinte”: “Non diventeremo poveri; anzi, secondo tutte le previsioni di allora, avremo continuato ad arricchirci. Ma saremo stati sorpassati e dominati per la prima volta da una civiltà più progredita”. Progredita, notava l’autore, non tanto sul piano dello sviluppo sociale quanto nella capacità di mobilitare, consci della sua portata storica, le risorse necessarie alla potenza tecnologica.
Ma, salvo rare eccezioni i politici di allora era assorti a inneggiare o temere il Maggio Francese, la guerra del Vietnam, i giochi correntizi, i falsi, ma lucrosi investimenti nel Mezzogiorno e governavano alla giornata con ministri occasionali e frequentissime crisi di governo.
Servan-Schreiber parte dall’analisi delle dinamiche del capitalismo statunitense e dal riconoscimento dell’eccezionale capacità organizzativa degli americani per capire come l’Europa sia potuta diventare terra di conquista. La sua riflessione è critica sia dei funzionalisti e federalisti europei sia della strategia del generale De Gaulle, allora intento a ragionare più in termini di autonomia strategica francese che a concepire una vera strategia europea.
Secondo Servan-Schreiber la pervasività dei rapporti tra industria, finanza, difesa e tecnologia negli Usa, la presenza di porte girevoli tra società di consulenza, industrie, finanza, politica, università e apparati militari e il matrimonio tra la moneta e la spada saldato nella convergenza tra complessi produttivi vicini alla Difesa e sistema bancario che rappresentano l’architrave del potere negli Usa, tolgono soggettività ai paesi europei e possono determinare un divario tecnologico non più colmabile.
Oggigiorno la questione studiata ne La sfida americana si è fatta ancora più complessa dato che agli Usa si è aggiunta la Cina come grande attore strategico intento a rincorrere l’innovazione di frontiera e la definizione degli standard del dominio tecnologico globale. Concretizzando la profezia di Servan-Schreiber Washington è stata a lungo la Stella polare dell’innovazione su scala globale. Da Internet al Gps, dai colossi della ricerca online ai campioni della logistica, da Microsoft a Netflix, gli Stati Uniti sono stati la patria di buona parte delle aziende che, foraggiate intensamente da capitali pubblici e sostegni politici, hanno contribuito a plasmare le rotte dell’innovazione tecnologica e dei nuovi mercati del digitale.
Oggi in campo tecnologico assistiamo però a un vero e competitivo bipolarismo. Pechino, sulla scia dei colossali programmi di investimento dell’ultimo trentennio, sta esplorando le frontiere della tecnologia più avveniristica posizionandosi come egemone nel 5G e accelerando sugli sfruttamenti economici, sociali e politici dell’Ia e delle tecnologie ad esse legate.
Persa la sfida americana e non compresa quella cinese, l’Europa si posiziona a metà del guado. Oggigiorno al Vecchio Continente non fanno certamente difetto le risorse (dal capitale umano ai centri di ricerca) per poter competere nell’agone tecnologico globale da attore di primo piano. Oggi come mezzo secolo fa, non è ancora emerso fino in fondo un progetto sistemico in campo tecnologico e di valorizzazione dei giganti digitali del Vecchio Continente. Forti di poche eccellenze globali e di molte aziende con potenziale di sviluppo, l’Europa deve fare sistema ma darsi, al tempo stesso, obiettivi realistici.
Qualche passo, a dire il vero è stato fatto e ha prodotto piani incoraggianti in tal senso sull’industria aerospaziale, i semiconduttori, ma a livello dominante al di fuori della Francia e di alcuni pensatoi a Berlino e Roma manca, nei decisori politici del Vecchio Continente, una capacità sistemica di immaginazione delle rotte future, in grado di far capire ai Paesi europei che non di solo economicismo, di regole fiscali e di parametri monetari si può vivere.
Il Vecchio Continente ha consapevolmente barattato l’accettazione di un ruolo di secondo piano con una fase di ritorno al benessere e all’opulenza dopo le due guerre di inizio del secolo scorso. Senza però mai rendersi conto fino in fondo di cosa volesse dire quella “sfida” dell’alleato americano, patrono, protettore e padrone dei suoi destini al tempo stesso.
Oggi con l’accelerata di Trump, non si è ancora capito come intenderà procede il pachiderma dell’Unione europea o se l’UE continuerà a tiranneggiare i coltivatori con la curvatura del cetriolo o i cittadini con il tappo difficoltoso delle bottiglie di plastica, senza guardare oltre. Con Ursula Von der Leyen ormai decotta e verso il tramonto, chi e quali forze politiche consapevoli saranno in grado di raccogliere la sfida americana, maturare un’idea forte di un’Europa che ritorni alle sue radici, invece di esibirsi in querule lamentele e deprecazioni?
Civico20News
Francesco Rossa
Editorialista
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