
Il familiare di una vittima: “Non ci rassegneremo mai”
Nei giorni scorsi l’opinione pubblica è stata distratta dalle vicende internazionali per cercare di capire se ci sarà un punto fermo nell’annosa, illogica e lunga guerra tra Russia e Ucraina.
È così sfuggita ai più la minaccia della pietra tombale che la magistratura sta per calare sulla strage di Ustica che causò la morte di 81 passeggeri che si trovavano a bordo dell’aereo Itavia in volo da Bologna a Palermo. Così apprendiamo che la strage di Ustica potrebbe restare senza colpevoli.
Sono due le richieste di archiviazione, avanzate alla procura di Roma e all’attenzione dell’Ufficio gip, in relazione alla strage di Ustica quando il Dc-9 Itavia la sera del 27 giugno 1980 precipitò nel mar Tirreno, tra le isole di Ponza e Ustica, provocando la morte di 81 persone, tra cui 11 bambini e quattro membri dell’equipaggio.
Le richieste su cui si dovrà esprimere il giudice per le indagini preliminari riguardano i fascicoli aperti nel 2008 e nel 2022 dai pubblici ministeri di piazzale Clodio, entrambi contro ignoti. Dopo un’attività istruttoria, che ha visto anche diverse rogatorie verso la Francia, l’acquisizione di atti e l’ascolto di diverse persone come testimoni, i pubblici ministeri non hanno trovato elementi utili per arrivare a una chiusura delle indagini.
La prima delle due inchieste, sempre a carico di ignoti, per i quali è stata chiesta l’archiviazione, era stata riaperta a ridosso delle dichiarazioni di Francesco Cossiga (che affermò di sapere che ad abbattere il Dc-9 poteva essere stato un missile «a risonanza e non ad impatto» lanciato da un aereo della Marina francese). La seconda indagine era nata, invece, dall’esposto presentato dall’associazione per la verità sul disastro di Ustica.
Per buona memoria, cerchiamo di ricostruire la cronologia dei fatti che purtroppo sin da subito, parevano segnati da rischi di omertà e di “casuali dimenticanze”.
Pochi giorni più tardi, a metà luglio, un Mig-23 libico precipiterà sui monti della Sila. Tre settimane dopo, il 2 agosto, una bomba abbatterà l’intera ala sinistra della stazione di Bologna, causando ottantacinque morti e oltre duecento feriti.
Il 12 luglio 1980 Sandro Pertini, Presidente della Repubblica italiana è in vacanza sui monti di Entrèves, in Val d’Aosta. Va a pranzo in un ristorante frequentato anche, tre volte l’anno, dal presidente francese Valéry Giscard D’Estaing.
Pertini è attorniato dalla gente del posto, che ha paura e chiede se la minaccia di terrore e guerra finirà. “Non sono qui per predire il futuro”, risponde il presidente, ma prosegue: «Noi abbiamo il terrorismo e certi governanti stranieri che guardano con disdegno all’Italia… dovrebbero chiedersi perché mai sia stata scelta l’Italia come bersaglio… l’Italia è un ponte democratico che unisce l’Europa all’Africa e al Medio Oriente. Se, per dannata ipotesi, questo ponte democratico saltasse, ci sarebbero gravi conseguenze: lo sconvolgimento degli equilibri nel bacino del Mediterraneo e un pericolo per la pace mondiale».
Una donna lo incalza: «Vai avanti». E Pertini sbotta: «Se salta il ponte democratico rappresentato dall’Italia non se ne potranno rallegrare né la Francia, né la Germania, né l’Inghilterra. Parliamoci chiaro. E ditelo al signor Giscard D’Estaing».
Cosa rimprovera Pertini al presidente Francese? Solo l’ospitalità offerta ai terroristi rossi italiani fuggiti in Francia? Oppure anche qualcosa di storto successo, per colpa francese, sul cielo di Ustica, due settimane prima? Difficile saperlo.
La prima volta che la Francia viene tirata in ballo per la strage di Ustica è nell’immediatezza dei fatti. Analoghe voci rimbalzarono nei racconti di un ufficiale della marina francese che si trovava a Catania a fine luglio. Ma intanto l’attenzione popolare è diretta verso una bomba, i Nar sono accreditati come bombaroli e la prua geopolitica è diretta a nord ovest. La seconda volta, la cosa è più seria. Il 17 dicembre 1980, il quotidiano britannico Evening Standard pubblica la notizia di «fonte romana» secondo cui il Dc9 Itavia è stato abbattuto per errore durante un’esercitazione da un missile lanciato da un aereo militare decollato da una portaerei francese: «Si pensa che il missile abbia agganciato per errore i motori del Dc9, che erano più potenti di quelli del radio bersaglio, il vero obiettivo».
Il procedimento penale sulla tragedia fu avviato inizialmente dalla procura di Palermo ma poi fu trasferito a quella di Roma, e di essa si occuparono diversi giudici istruttori fin quando venne conclusa nel 1998 da Rosario Priore con la richiesta di rinvio a giudizio di diversi militari dell’aeronautica, inclusi quattro generali, con l’accusa di “alto tradimento” ma dichiarando contestualmente di non doversi procedere per strage in quanto “ignoti gli autori del reato”.
La Corte d’assise di Roma, nel 2004, assolse i militari con formula piena da tutte le accuse dopo quattro anni di procedimento e 276 udienze, e sulla base di un’imponente quantità di testimonianze, perizie, consulenze. Ma la Corte escluse anche categoricamente, sulla base dell’enorme materiale probatorio, l’ipotesi che la caduta dell’aereo Itavia fosse attribuibile all’esplosione di un missile o comunque ad un intervento di aerei militari di cui non risultavano tracce attendibili in quel materiale.
Nel novembre 2005 iniziò il processo d’appello, sempre a Roma, che confermò pienamente la sentenza di primo grado, e quindi l’assoluzione dei militari, ma soprattutto ribadì la tesi che l’abbattimento del DC9 da parte di missili o velivoli militari era del tutto infondata sul piano processuale, e utilizzò motivazioni molto penetranti e in alcuni aspetti decisamente polemiche verso le ricostruzioni della stampa e degli altri mezzi di informazione.
La sentenza fu naturalmente oggetto di ricorso per Cassazione la quale, nel gennaio 2007, lo respinse confermando definitivamente l’assoluzione dei generali imputati, e non per insufficienza o contraddittorietà delle prove, ma per radicale mancanza delle stesse. Di fronte ad un percorso giurisdizionale così lineare e coerente in tutti i gradi di giudizio, supportato da una quantità immensa di strumenti probatori (incluso il recupero dell’aereo dai fondali marini), costato miliardi di vecchie lire al contribuente, si sarebbero dovute accettare le sentenze dei giudici come incontestabili e la verità processuale come definitivamente acquisita.
Nel 2011 la terza sezione civile del Tribunale di Palermo condannò i Ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire i famigliari delle vittime per non aver garantito la sicurezza di quel volo, per depistaggi e distruzione di atti, riconducendo l’incidente ad un “intercettamento realizzato da due caccia” che seguivano un aereo militare nascosto nella traccia del DC9 e al lancio di un missile lanciato dai primi verso il secondo.
La sentenza civile del giudice di Palermo trovò poi conferma in Cassazione che, incredibilmente, affermò: “che elemento risolutore della controversia sia l’accertamento (…) ormai non più suscettibile di essere rimesso in discussione, della sussistenza di un’attività di depistaggio”. E poi aggiungeva: “la tesi del missile sparato da aereo ignoto (…) risulta ormai consacrata pure nella giurisprudenza di questa Corte”. Addirittura, “consacrata” secondo una vera e propria “religione del missile”.
Ma la Cassazione non è giudice di puro diritto? E allora perché si è lanciata in pure affermazioni di merito come quelle riportate? Come potesse un giudice civile ignorare tre gradi di giudizio penali condotti con mezzi enormi, con perizie asseverate dai maggiori esperti internazionali, con una infinita e comprensibile attenzione sostanziale e procedurale non si può capire.
Oggi, come ampiamente descritto, cade la pietra tombale su una tragedia ricca di misteri e contraddizioni. È una sconfitta della giustizia.
Parlano i parenti delle vittime. “In questi anni siamo passati dall’amarezza allo sdegno, allo sconforto, alla nausea. Ma l’unico sentimento che in me, finché sono vivo, non avrà mai spazio è la rassegnazione. Lo devo a mia sorella e a mia nipote, lo devo ai miei genitori morti senza conoscere la verità”. Anthony De Lisi, fratello di Elvira e zio di Alessandra, due delle 81 vittime della strage di Ustica, è visibilmente commosso. “Mi vergogno di alcuni apparati dello Stato e dei rapporti con quei Paesi che sono presumibilmente coinvolti in questa vicenda – dice all’Adnkronos -. Da 45 anni, ogni giorno, uccidono queste 81 persone“.
Già in passato De Lisi non aveva esitato a parlare di “depistaggi” e “mistificazioni”. “Il depistaggio è negli atti – dice oggi -, nei registri scomparsi, nei fogli cancellati, nella storia delle indagini, nella decina di morti che in questi anni si sono susseguite. Capisco la complessità e la difficoltà di superare alcuni elementi diplomatici, ma bisogna rispettare le 81 vittime e i loro familiari che vogliono verità dopo 45 anni”.
Né per Anthony De Lisi oggi “possono più bastare le promesse del Presidente della Repubblica che in occasione dell’ultimo anniversario della strage aveva chiesto verità agli alleati. La richiesta della Procura di Roma apre per Anthony De Lisi “una ferita che non si riesce a rimarginare. Mia nipote oggi avrebbe 51 anni, mi hanno negato di capire che donna sarebbe diventata. È uno strazio senza fine, difficile da immaginare”. Poi la promessa. “Per quanto mi riguarda non mi arrendo – conclude -, non mi fermerò. Valuterò se posso ricorrere al Tribunale penale internazionale, ma qualcosa devo fare, lo devo a mia sorella, a mia nipote e anche ai miei genitori. Non c’è spazio per la rassegnazione, ma solo per la rabbia, una rabbia immensa che è quella che mi dà la forza di andare avanti”.
Quali conclusioni può trarre il cittadino che vorrebbe continuare a credere nella giustizia?
Civico20News
Francesco Rossa
Editorialista
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