Riflessioni sulla riforma istituzionale del governo Meloni
Grande strepito a sinistra: la destra uccide la Costituzione!
Forse varrebbe la pena di porre una domanda impertinente: è meglio cambiarla palesemente, la Costituzione, con le procedure da essa stessa previste, o aggirarla occultamente come si è fatto tante volte da parte di chi oggi urla allo scempio della democrazia?
Gli esempi sono molti. Dalla sottrazione di sovranità al popolo tramite i governi tecnici al suo imprigionamento con i provvedimenti covidari; dal progressivo trasferimento di poteri politici e amministrativi verso le burocrazie europee all’asservimento strategico e militare nei confronti del potere atlantista; dalla riduzione del numero dei parlamentari all’acquiescenza verso un’immigrazione selvaggia corrosiva dell’unità e dell’identità del popolo italiano; dalla rinuncia alla sovranità monetaria, legislativa e di bilancio al ripudio del ripudio della guerra (non è un gioco di parole) sancito dall’articolo 11; dallo stravolgimento quasi golpista delle scelte elettorali nel 2011 ai doppi mandati presidenziali di Napolitano e Mattarella; dal superamento di una magistratura imparziale, assoggettata solo alla legge, alla crescente tolleranza delle sue sentenze politicizzate…
Sì, la Costituzione andrebbe radicalmente modificata, in quanto è ormai un vestito logoro in troppe sue parti ma fatto indossare agli italiani come se fosse un capo di alta sartoria.
Troppi cantori di questo splendido documento -concepito e realizzato da grandi uomini usciti dal dramma del fascismo e dalla tragedia della seconda guerra mondiale- l’hanno, nel tempo, trasformato in uno strumento di potere da utilizzare secondo le convenienze politiche del momento, modellandolo e rimodellandolo con abilità retorica e sofistica per fargli dire quello che in molti casi non voleva dire.
E soprattutto lo si è voluto trasformare nel provvidenziale utensile di una classe dirigente politica, amministrativa, giudiziaria arroccata nei suoi poteri e unita da un’istintiva paura di cedere al popolo, alla società reale, alla gente vera, un qualche frammento di sovranità.
Ora, nessuno di noi è così ingenuo da credere alla democrazia diretta e integrale, una democrazia mai esistita e a tutt’oggi inesistente. La scienza dei politologi, ma ancor di più l’esperienza corrente, ci dicono che la politica è comunque sempre un gioco di élites che, di volta in volta, raggiungono il vertice del potere o, meglio, dei vari poteri per curare e imporre i loro interessi.
Tuttavia è bene sottolineare che un’élite può avere anche caratteristiche intellettuali, morali e professionali molto elevate; ma il più delle volte essa è pura oligarchia, cioè una elementare espressione di potere che non guarda oltre il proprio orizzonte di profitto, economico o politico che sia.
In molti casi queste oligarchie sono espressione di quella che Rothkopf e Huntington chiamano “superclass” o “uomo di Davos”, cioè la superclasse dirigente internazionale, senza legami con un popolo, un territorio, una patria (gli “apatridi”) e quindi capace di perseguire solo i suoi obiettivi globalisti, mai quelli di una singola comunità nazionale; una superclasse per di più, talvolta, collegata con la grande criminalità finanziaria internazionale.
Come contenere queste derive oligarchiche?
Probabilmente solo attraverso un forte potenziamento degli strumenti democratici costruiti in Occidente dalla teoria e dalla prassi politiche degli ultimi tre secoli: lo stato di diritto, la separazione dei poteri, la partecipazione elettorale, la valorizzazione della volontà collettiva, la crescita dei corpi intermedi, il principio di sussidiarietà, lo stato sociale, la libertà di informazione, e soprattutto il rispetto della sovranità popolare.
La prima parte della nostra Costituzione è una miniera da cui estrarre in abbondanza questi principi con cui sottrarre potere a tutti coloro che vogliono negarli.
E’ necessario far crescere -nelle parole di Galli e Caligiuri (Il potere che sta conquistando il mondo. Rubbettino, 2020) – “la consapevolezza che una sfida decisiva per le democrazie del XXI secolo è la competizione crescente con le multinazionali. Gli esiti di questo confronto dipenderanno principalmente dall’efficienza dei sistemi di governo, costretti ad affrontare una realtà che non si potrà più eludere con la disinformazione”.
Ed è proprio in questo contesto che si va delineando la riforma costituzionale del governo Meloni; una riforma che tende a neutralizzare, o almeno ridurre, quel processo di estraniazione del potere politico dalla volontà popolare, anche in contrasto con i grandi poteri lobbistici e oligarchici, aumentando contemporaneamente l’efficienza del nostro sistema di governo.
Solo un esecutivo forte e ben legittimato dal corpo elettorale può, se non proprio vincere, almeno contrastare questa sfida che non è azzardato definire storica.
Sottrarre la nomina del capo del governo all’arbitrio del presidente della Repubblica, ricondurre tale designazione alla volontà popolare espressa dalle elezioni, eliminare l’anacronismo dei senatori a vita, concedere alla forza politica vincente una sicura maggioranza parlamentare, sono tutte scelte che fondono democraticità e capacità operativa del governo, cioè proprio le due condizioni che, nella prospettiva sopra delineata, possono permettere al nostro paese di contrastare in qualche modo l’assalto crescente delle oligarchie nazionali e di quelle mondialiste.
E’ ovvio che la sinistra italiana – abituata da anni a partecipare al potere senza vincere le elezioni, sempre provincialmente inchinata a idee e a pratiche straniere – non possa accettare questa proposta politica, così come non può accettarla tutto quel mondo intellettuale e intellettualistico che vuole porre le sue scelte “al riparo del processo elettorale”, processo naturalmente inviso a Mario Monti e al Gran Banchiere Mario Draghi che di quel mondo sono stati, e sono ancora, due delle massime espressioni.
La sinistra appartenente al “mondo di sopra” non può neppure accettare che il sistema istituzionale venga semplificato in modo così radicale, vivendo da anni sulla complessità degli arcana imperii, sulle alchimie di palazzo, sulle complicate idee dei costituzionalisti a noleggio, sull’artificiosa costruzione di maggioranze parlamentari esistenti solo sulla carta e, infine, molto spesso, sulla complicità delle massime istituzioni della Repubblica.
Sorprende e diverte il richiamo di questo mondo al supposto affossamento della democrazia conseguente a un (altrettanto supposto) contenimento delle prerogative parlamentari, senza vedere il forte ampliamento di quella stessa democrazia che conseguirebbe invece all’elezione diretta del capo del Governo, cosa che la gente percepirebbe e gradirebbe in misura decisamente superiore.
Cambiare le regole del potere fa sempre qualche vittima. In passato le vittime erano quasi sempre i cittadini espropriati dei loro diritti di scelta e di indirizzo politici; oggi forse le vittime saranno altre: quelli che volevano tenere per sé, sempre e in ogni caso, quei diritti di scelta.
Certo, il cammino della riforma sarà lungo, difficoltoso, senza alcuna garanzia di riuscita. L’articolo 138 della Costituzione obbliga a più passaggi parlamentari e poi impone nei fatti, se la maggioranza non raccoglie i due terzi del consenso, un ulteriore momento referendario, il più pericoloso perché tutti coloro che contrastano il cambiamento scateneranno l’inferno mediatico nel tentativo di convincere gli italiani a tornare indietro su questa scelta epocale. E si sa bene quale violenza di pensiero e di parole è tuttora in mano alle sinistre e ai suoi mezzi di comunicazione che, entrambi, non possono perdere questa battaglia, pena la loro dissoluzione.
Prepariamoci a tutto, compresi l’intrigo, la minaccia, lo scandalo, la menzogna, la disinformazione, il ricorso ai poteri esterni, fino a qualche golpe più o meno subdolo, più o meno mascherato.
Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo.
Purtroppo, una delle regole più feroci, antiche e consolidate della lotta politica di tutti i tempi.
Elio Ambrogio – Editorialista
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