A proposito del mondo sull’orlo di una crisi di nervi
Qualche giorno fa, su queste pagine, Andrea Farina in un suo articolo (“Il mondo sull’orlo di una crisi di nervi”) ha delineato lucidamente l’involuzione della politica internazionale determinata da una serie di crisi che minacciano di compromettere brutalmente l’equilibrio geopolitico formatosi con la dissoluzione di quell’assetto bipolare che ha dominato la nostra storia dopo la seconda guerra mondiale.
Farina ha descritto una serie di eventi e di situazioni che, oltre la simpatica formula della “crisi di nervi”, possono avere conseguenze di gravità inimmaginabile sino a prefigurare un possibile imminente conflitto mondiale e conclude con un interrogativo che pochi però si sono posti: perché tanta indifferenza e acquiescenza da parte delle opinioni pubbliche verso una situazione potenzialmente disastrosa per l’intera umanità?
Proviamo a sviluppare qualche riflessione su quanto esposto nell’articolo.
FALLIMENTO DEL DIRITTO INTERNAZIONALE. L’idea che le relazioni fra stati potessero regolarsi sulla base del diritto, cioè sulla base di norme pattizie volte a scongiurare l’uso della forza, sembra ormai definitivamente tramontata, anche se è lecito pensare che, in fondo, quell’idea non sia mai stata realmente condivisa, trattandosi più che altro di una consolante utopia della ragione non in grado però di radicarsi nella realtà.
Nessuno stato, nessun popolo, nessuna classe dirigente ha mai rinunciato all’uso della sua potenza in tutte le possibili declinazioni -politica, economica, militare- quando l’ha ritenuta necessaria o anche solo opportuna, e il discorso degli ateniesi ai melii, così come raccontato da Tucidide, resta l’esempio perenne di questo atteggiamento in cui la forza e le sue ragioni prevalgono su ogni possibile logica di conciliazione.
Si sperava però che l’utopia del diritto come fonte di regolazione delle controversie internazionali, dopo tanti secoli bui e sostanzialmente barbarici e dopo l’esperienza tragica di due conflitti mondiali, potesse avere una qualche possibilità di realizzazione in un’epoca nuova caratterizzata da una maggior cultura della pace, da più intense relazioni fra i popoli, da una più solida rete di contatti economici, intellettuali, sociali fra le nazioni favoriti anche dai nuovi mezzi di comunicazione e dal consolidarsi di una visione globalista meno feroce e più collaborativa.
In altri termini, a partire dalla metà del secolo scorso, era nata la sensazione di un nuovo rinascimento politico, una nuova visione umanistica che rifiutava la guerra e anelava alla pace, proprio come scolpito dalle solenni parole contenute nell’articolo 11 della nostra Costituzione.
Questa nuova visione, determinata anche dalla semplificazione del sistema bipolare conseguente agli accordi di Yalta del 1945 e dal ferreo controllo delle due superpotenze sulle rispettive sfere di influenza, sembrava destinata a produrre una nuova e solida razionalità nelle relazioni internazionali con una conseguente stabilizzazione delle principali aree di crisi nonostante alcune guerre (Corea, Vietnam, Medio Oriente) destinate però a restare circoscritte.
Fu anche l’età della diplomazia, vista come strumento di risoluzione dei conflitti, un’attività altamente razionale e costruttiva di cui alcune settimane fa è scomparso quasi il simbolo vivente, il centenario Henry Kissinger.
Oggi quest’epoca sembra definitivamente conclusa anche sotto il profilo culturale, e il diritto della forza sembra di nuovo prepotentemente prevalere sulla forza del diritto, e il moltiplicarsi di conflitti solo apparentemente regionali, con tutto il loro potenziale esplosivo, e con un’evidente incapacità di gestirli da parte delle grandi potenze, sta portando il mondo pericolosamente vicino a un evento bellico globale.
FALLIMENTO DELL’ONU. L’Organizzazione delle Nazioni Unite fu la grande speranza di tutti coloro che credevano nella visione sopra descritta: un ente super partes in grado di prevenire ed eventualmente gestire i conflitti fra stati e nazioni con l’uso principale dello strumento diplomatico e poi, se necessario, anche con un uso misurato e ragionato della forza militare attraverso i due classici strumenti di peace keeping e peace enforcing.
Purtroppo si è trattato, anche qui, di un’utopia irrealizzata. L’ONU non ha mai impedito lo scoppio dei conflitti e non ne ha mai favorito la conclusione, e oggi appare come lo spettatore impotente di quel susseguirsi di crisi che, come dicevamo prima, minaccia di esplodere in un conflitto globale in cui l’ONU non avrebbe alcun ruolo se non come palcoscenico di maratone oratorie dove ogni nazione ripete in modo paranoico le proprie recriminazioni e le proprie accuse.
Da anni si parla di riformare quel Consiglio di Sicurezza mummificato nell’età della guerra fredda, con un’incomprensibile struttura monopolizzata da cinque potenze che ne paralizzano ogni attività; ma nulla è stato fatto e nulla si farà, e il Consiglio resterà soltanto un penoso simbolo di impotenza politica.
FALLIMENTO DELL’EUROPA. In tutto questo disordine mondiale, l’Europa -come l’ONU- rimane uno spettatore incapace di azione, anche se verboso assertore di buone intenzioni, capace tutt’al più di elargire finanziamenti, pacche sulle spalle, bei consigli, esortazioni e moralismi vari a coloro che ritiene dalla parte giusta dei conflitti, anche se spesso esita o sbaglia clamorosamente nell’individuarli. Ancora oggi una qualche forma di diplomazia, anche tramite la pressione militare, viene fatta solo dalla Francia e, finché apparteneva all’Unione, soprattutto dalla Gran Bretagna che non ha mai rinunciato del tutto alla sua antica vocazione imperiale anche grazie a una organizzazione militare decisamente solida ed efficiente in grado di proiettare dovunque all’estero le sue convenienze politiche.
Nulla a che vedere con le esternazioni di un Josep Borrell, campione di buona volontà e di turismo diplomatico ma soprattutto simbolo di evidente irrilevanza politica. D’altra parte la storia insegna che una diplomazia efficace si basa sempre su una convincente forza militare; la sola forza economica, di cui certamente l’Europa è abbondantemente fornita, diventa spesso marginale quando prevalgono le ragioni irrazionali e feroci delle nazioni e il loro destino si gioca sui campi di battaglia. Un’Europa senza un esercito comune non potrà mai essere credibile in quei contesti, e dunque sarà sempre condannata all’esclusione dalle partite veramente fondamentali.
Ma oggi vale la pena di chiedersi se per l’Unione Europea -inizialmente nata per favorire gli scambi economici, poi diventata una cattedrale burocratica al servizio della grande impresa e della grande finanza, e infine portatrice insana di nuove velleità ambientali e tecnocratiche- sia opportuno caricarsi anche di ambizioni guerresche le quali, ne siamo certi, non costituiscono l’aspirazione primaria dei suoi cittadini, e di quelli italiani in particolare.
Solo i fanatici degli Stati Uniti d’Europa sognano un esercito, una marina, un’aviazione comuni in grado di portarci da protagonisti sui grandi teatri bellici internazionali. A fare che cosa? A combattere guerre non nostre? In fondo dagli scenari difensivi a quelli offensivi il passo è breve, molto breve, e il rischio di coinvolgimento in conflitti estranei ai nostri interessi, solo per compiacere alleati troppo esigenti, è molto alto, soprattutto se andremo a vincolarci ulteriormente in alleanze e trattati che ci potranno portare a scelte obbligate e disastrose. Perché la guerra, ogni guerra, è sempre un disastro, ma lo è ancora di più se non voluta, non scelta, non condivisa.
FALLIMENTO DEL PACIFISMO. E’ indubbio che l’assenza di una forte ondata pacifista nei paesi occidentali abbia concorso a rafforzare l’idea nel mondo politico -in particolare in quello più bellicista, anche del nostro paese- che la guerra non sia poi quel male assoluto che si crede, che una guerra, tutto sommato, si possa anche combattere, che una guerra possa essere vinta con gli strumenti adeguati, che la pace si persegue anche mediante il rafforzamento dell’apparato militare, che la gente abbia altre cose a cui pensare, magari anche solo agli acquisti natalizi come dice Farina.
E’ vero invece che la nostra civiltà ha drammaticamente perso di vista la gerarchia sostanziale dei valori, ipnotizzata dal materialismo, dalla pubblicità, dalla comunicazione strumentale al potere, dalla futilità della cultura immaginativa, dal mondo a rovescio dei social, dalla riduzione della percezione individuale e collettiva ai pochi eventi che ci toccano direttamente, dalla realtà ridotta a spettacolo.
Manca l’impulso etico e passionale ad andare in piazza che tanta gente, soprattutto giovane, aveva in sé negli anni settanta e seguenti, quando la ribellione alla guerra era supportata dalla grande intellettualità dell’epoca, intellettualità che oggi, con l’eccezione forse di quella cattolica, sembra scomparsa.
Probabilmente è venuta a mancare -oltre a quella forte passione per la pace che non trova più cittadinanza nella nostra cultura dell’effimero- il soggetto politico, o i soggetti politici che allora ne furono i promotori, i protagonisti e gli organizzatori, e cioè principalmente il mondo della sinistra in tutte le sue declinazioni.
In effetti, quello che stupisce oggi è l’assoluto silenzio e la totale assenza della sinistra su di un tema che per essa dovrebbe essere forte e coinvolgente. E probabilmente anche questo fatto è significativo del declino intellettuale -e oseremmo dire anche passionale- della sinistra italiana e internazionale, ormai incapace di suscitare grandi ondate morali ed emotive.
In conclusione, se il mondo, come dice Farina, è sull’orlo di una crisi di nervi, bisogna evitare di oltrepassare quell’orlo, e questo si può fare solo avendo ben chiaro quello che è il nostro interesse nazionale senza lasciarsi sommergere dall’isteria irrazionale, retorica, viscerale che ultimamente sembra aver travolto i grandi padroni del mondo, e soprattutto avendo ben chiaro che “loro” non sono i nostri padroni.
E lasciamo volentieri ai nostri saggi lettori l’individuazione di chi sono “loro”.
Elio Ambrogio – Editorialista