Giornali e televisioni ci hanno regalato nei giorni scorsi un simpatico prolungamento del disimpegno estivo con le vicende del ministro Sangiuliano e della sua bionda Maria Rosaria, vicende su cui i gazzettieri si sono calati come mosche sul miele e culminate in una commovente comparsata del ministro nel TG1 con tanto di lacrime, pentimenti e scuse al coniuge.
Mentre il popolo italiano si beava e ridacchiava di questa commedia, i grandi poteri internazionali, come sempre, mettevano a segno un altro successo nella tutela dei propri interessi e a danno dei loro sudditi continentali senza che troppe persone se ne accorgessero.
Il 4 settembre Mario Draghi ha presentato al Parlamento europeo il suo Rapporto sulla Competitività Europea, rapporto commissionato un anno fa dalla Von der Leyen a colui che, nelle parole della presidente della Commissione, sarebbe “una delle grandi menti economiche europee”.
Ora, che Mario Draghi sia una delle grandi menti economiche europee ci appare piuttosto discutibile visto che l’uomo è stato essenzialmente un grand commis di stato, un banchiere, un politico e un diligente esecutore di scelte non sue; ma difficilmente può essere qualificato come economista non avendo affrontato concretamente le tematiche dell’economia reale, né prodotto testi autorevoli e riconosciuti in questa materia.
Sicuramente esperto di economia monetaria e di finanza, non ha però mai dato prova di conoscere a fondo le dinamiche dello sviluppo e le problematiche della distribuzione del reddito, soprattutto in una prospettiva anche solo lontanamente sociale.
Draghi è sempre stato un tecnico, nato e cresciuto in quella cerchia di potenti fortemente allergici a ogni ipotesi di cedimento populista, a ogni istanza che non fosse quella della tutela dei conti pubblici, della stabilità monetaria, della logica dell’alta finanza che è notoriamente e strettamente legata a quella della grande impresa.
Pensare a Draghi come ispiratore di una nuova competitività europea è dunque perfettamente coerente con quella visione dell’Europa che ha forti connotazioni elitarie e tecnocratiche.
E che si tratti di una scelta elitaria è dimostrato anche da un dettaglio procedurale che però non è stato quasi evidenziato dai mezzi di comunicazione: Draghi non ha presentato il suo rapporto al Parlamento europeo, come sarebbe stato logico per un documento di quella rilevanza, ma solo alla presidente Metsola e a un ristretto gruppo di altri dignitari.
E inoltre, a tutt’oggi, e per motivi sconosciuti, non è dato ai parlamentari europei, ma soprattutto ai cittadini d’Europa, di conoscere il contenuto di quel rapporto, quasi contenesse drammatici segreti militari; atteggiamento peraltro anch’esso conforme a quel culto della segretezza che sembra molto apprezzato nei palazzi di Bruxelles, come dimostrato dall’oscura trattativa fra la Von der Leyen e il presidente di Pfizer, Albert Bourla, condotta ai tempi del Covid attraverso privatissimi SMS, poi cancellati, e di cui la baronessa tedesca si rifiuta anche solo di parlare nonostante un’indagine della magistratura belga; e poi anche dai contratti fra la casa farmaceutica americana e la Commissione europea, secretati e inaccessibili a chiunque.
Tuttavia, nonostante questo clima di mistero e di segretezza, qualcosa del Rapporto Draghi è trapelato, ed è un qualcosa di inquietante.
Secondo Politico.eu del 2 settembre, pubblicazione notoriamente ben informata, nel rapporto compare una forte deriva bellicista, o quantomeno militarista. Il giornale titola, senza troppi sottintesi: “Le aziende della difesa hanno bisogno di un accesso pieno ai fondi dell’UE nel momento in cui Putin minaccia l’Europa, afferma Draghi”.
“Con il ritorno della guerra nelle immediate vicinanze dell’UE”, si legge nel rapporto, “l’emergere di nuovi tipi di minacce ibride e un possibile spostamento dell’attenzione geografica e delle esigenze di difesa degli Stati Uniti, l’UE dovrà assumersi una crescente responsabilità per la propria difesa e sicurezza”.
Sulla base di questa opinabile premessa, che dimostra la piena dipendenza del rapporto dalle fobie atlantiste, Draghi lancia un forte progetto di rafforzamento dell’industria bellica europea, la quale dovrebbe assumere una preminenza rispetto agli altri settori produttivi, una vera e propria predominanza rispetto a tutto il corpo dell’economia continentale.
Cosa assolutamente incomprensibile se non sulla base di una forte pressione sul Banchiere da parte dei grandi apparati militari e industriali operanti nel settore degli armamenti, a conferma di come Draghi ancora una volta non sia altro che il portavoce di superiori interessi economici internazionali.
Che questa non sia un’affermazione gratuita è suggerito anche da alcune indicazioni operative assai sospette che compaiono nel rapporto (sempre secondo Politico.eu).
Draghi sostiene che l’apparato militare debba avere un accesso privilegiato ai fondi europei senza quelle limitazioni che normalmente sono riservate ad altri settori economici o anche agli stati; ritiene che si debbano centralizzare gli acquisti di materiale bellico sul modello degli acquisti dei vaccini già sperimentato in epoca covidaria; ritiene che all’industria degli armamenti non si debbano applicare i vincoli ambientali ed ecologici imposti alle altre industrie; e infine ritiene ancora che non si debbano impedire gli accorpamenti e le fusioni fra industrie militari.
Sfido qualunque lettore appena un po’ informato a individuare una sola delle raccomandazioni sopra riportate che non violi apertamente uno dei grandi principi a fondamento dell’Unione europea: equilibrio dei conti pubblici, rispetto della concorrenza, politica ambientale, lotta ai monopoli e agli oligopoli.
Tutto questo, naturalmente, s’inquadra nel più ampio progetto della creazione di un esercito europeo, che sembra il grande sogno di un’Europa avviata a passi spediti verso un progetto militarista che non era certo negli auspici dei Padri fondatori, che la guerra l’avevano sperimentata sulla loro pelle e che non potevano certo amarla, com’è dimostrato anche dal fallimento, negli anni ’50 del secolo scorso, della Comunità Europea di Difesa.
E francamente non si comprende la necessità di un esercito unico europeo, vista la presenza di un’alleanza come la NATO che già ora, di fatto, impone all’Europa la sua politica militare e si fa carico della sua difesa e che andrebbe a sovrapporsi alla nuova realtà con grossi problemi di coordinamento e di efficienza. D’altra parte gli alleati sconfissero Hitler semplicemente coordinando i loro eserciti attraverso una efficiente catena di comando, e senza mai pensare a unificarli.
Vedremo se queste considerazioni saranno ancora valide quando il rapporto Draghi sarà pienamente consultabile. Ma se anche esso conterrà altre cose ammirevoli e condivisibili, basterà il suo nocciolo militarista a renderlo ben poco accettabile a tutti quei cittadini europei che non vogliono essere condannati a una prossima guerra mondiale, soprattutto nelle terre d’Europa.
Civico20News
Elio Ambrogio
Editorialista
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