L’attuale assetto istituzionale costituisce un blocco allo sviluppo del Paese e perciò è causa del suo declino
A pochi mesi dall’ approvazione della legge 26 giugno 2024, n. 86 “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma della Costituzione,” si è scatenato il leader della CGIL Maurizio Landini, che nei fatti si è ricavato lo spazio di leader del campo larghissimo.
Tradendo la sua mission sindacale, invece di aprire vertenze nei grandi gruppi industriali puntando sul binomio crescita della produttività e aumenti salariali correlati e conseguenti o combattere la piaga dello sfruttamento selvaggio dei lavoratori in agricoltura e nei servizi a basso valore aggiunto, nei mesi estivi ha raccolto oltre 550000 firme per richiedere il referendum abrogativo dei punti salienti della legge, seguito poi dal folcloristico presidente della regione Campania e da altri notabili meridionali.
In apertura della ripresa del confronto politico nei giorni scorsi, si è resa palese anche l’ostilità dei deputati meridionali di Forza Italia capeggiati da Tajani che già a livello strumentale aveva sbandierato il principio dello Jus Scholae per far capire agli alleati quale linea intenderà seguire.
E’ poi calato, con la violenza di un macigno, l’anatema della controriforma, brandito dalla mano sinistra del Vaticano con il presidente della Cei cardinale Zuppi in prima linea, per bocciare la legge e i principi ispiratori, senza troppi giro di parole, anche se con parametri e riferimenti inappropriati.
Giorgia Meloni sta abbottonata per non seguire le disavventure referendarie di Renzi e trascinare il governo in una quarelle devastante, anche se considerate le origini e il nucleo storico di FdI non è difficile intuire il suo retro pensiero. Rimane Salvini con il cerino in mano, ma si sta trovando in netta minoranza all’interno del governo e della maggioranza, seppur guardato di traverso dai governatori del nord est, dalla regione Lombardia che intende applicare la legge sin da subito per quanto possibile e dal Partito Popolare del Nord che la giudica inefficace.
Prima di addentrarci nei meccanismi della Legge, molto morbidi e non discriminanti, continuiamo ad ispirarci al lungo cammino di Autonoma e Federalismo, con i Patti di Saretto e la Carta di Chivasso come pietre miliari, ma soffermiamoci sull’aspetto saliente e chiarificatore.
La base etica del federalismo è il principio di responsabilità, del merito e delle opere. Nessuno deve essere lasciato indietro, a condizione che cammini con le sue gambe. Nessun altro può camminare al tuo posto. Questa è l’etica della responsabilità.
Se non teniamo sempre presente questo principio, coloro che in buona o cattiva fede, continuano dopo oltre trent’anni ad opporsi all’autonomia, seppur annacquata e differenziata, difendono implicitamente il parassitismo e sono avulsi dai problemi reali del nostro Paese.
Per non rischiare di dimenticare, addentriamoci nel provvedimento che definisce le modalità con cui le regioni potranno chiedere e ottenere di gestire 23 materie sulle quali al momento la competenza è dello Stato centrale.
L’approvazione della legge non determina l’effettivo trasferimento di competenze alle regioni. Il provvedimento si limita infatti a indicare un percorso e delle regole che le regioni dovranno seguire nel negoziare col governo e col parlamento l’attribuzione di poteri e prerogative.
L’avvio di queste procedure è subordinato alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), cioè i servizi minimi che lo Stato deve garantire in ogni parte del suo territorio su settori fondamentali: la definizione dei LEP e il loro finanziamento servono a prevenire il rischio che l’autonomia cristallizzi o persino aumenti le divergenze territoriali tra le regioni più ricche e quelle più povere.
Per non perdere il contatto con la realtà, riflettiamo su com’è composta oggi l’Italia?
Il Nord è diventato parte integrante di un’area produttiva che si estende ai due lati delle Alpi e la fascia adriatica. Il Sud e le Isole dispongono di potenzialità di autosviluppo agro-industriale e di connessioni commerciali con le sponde opposte del Mediterraneo, dai Balcani all’Africa.
Questo assetto condiziona le dinamiche industriali, i trasporti, l’urbanistica, le migrazioni in entrata e in uscita, la demografia, la posa delle Reti, ecc.
Esistono «naturali» differenze socio-economiche e culturali tra Nord-Sud, città-campagna, pianure e aree interne montane.
Dalla storia del Paese arrivano fratture antropologiche più lunghe e più profonde, che le classi dirigenti non sono state capaci di sanare e che, forse, non sono sanabili, se non nella lunga durata, che, va detto, è già durata piuttosto a lungo.
Rispetto a questo Paese reale, toccherebbe alle classi dirigenti, innanzitutto politiche, disegnare la trama istituzionale e amministrativa che ne favorisca lo sviluppo e la civilizzazione. Ma la filosofia centralista che muove il ceto politico nazionale è un ostacolo ad un progetto istituzionale di sviluppo.
Così il centralismo statalistico al Nord agisce da freno, al Sud copre assistenzialmente la pigrizia del sottosviluppo e del clientelismo, se non del malaffare.
Si tratta di un centralismo tutto partitico-politico, la cui realizzazione effettuale, a geometria variabile, è decisa dalla contrattazione politica, sia interna alla maggioranza di governo sia tra maggioranza e opposizione. A norma della stessa legge Calderoli, i finanziamenti delle autonomie sono stabiliti «di anno in anno», a contratto. Si tratta di un centralismo arbitrario e sbrindellato.
Se ne deve concludere che l’attuale assetto istituzionale – governo debole, bicameralismo perfetto, regionalismo ordinario e rafforzato, magistratura esondante – costituisce un blocco dello sviluppo del Paese e perciò è causa del suo declino. Le Istituzioni continuano a congiurare contro il futuro del Paese e le nuove generazioni.
Urge l’adozione dell’assetto federale, fondato sulla sussidiarietà verticale e orizzontale. Il federalismo valorizza responsabilità e autonomia di ogni singolo livello – comunale, provinciale, regionale, nazionale.
Tutto dovrebbe fondarsi sulla responsabilità politica di prelievo fiscale e di spesa. La sussidiarietà verticale è il quadro migliore per lo sviluppo della sussidiarietà orizzontale, nella quale la società civile può fiorire.
Le sinistre, contrastate in parte dall’ala riformista del PD, recitano il loro copione e rappresentano, nei fatti, l’unione dei parassiti.
Il colmo della loro miopia sta nel fatto che la legge, una volta attuata elargirà ulteriori stanziamenti alle regioni del Sud che storicamente non riescono a colmare il divario perché con le troppe interferenze malavitose nell’apparato e la cattiva amministrazione, non sono in grado di organizzare in modo decente i servizi per i cittadini, come le cronache e gli interventi della Magistratura attestano ampiamente.
Altri rischi, in caso di ammissione del referendum ed eventuale esisto infausto, si presenteranno all’orizzonte se non si vorrà o riuscirà ad invertire questa tendenza.
Dall’esplodere della questione settentrionale, qualora l’attuale e i prossimi governi continuino ad accanirsi contro la rivalutazione delle pensioni medio alte e la ulteriore tassazione dei risparmi delle famiglie, sino al rischio che lo Stato non possa più sopperire alle richieste incessanti di assistenza e sovvenzione ai furbetti, ben protetti e foraggiati dal pachiderma romano.
Conseguenze imprevedibili!
Civico20News
Francesco Rossa
Editorialista
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