Uno spirito ancora legato al mondo
Link articolo 1 precedente: https://civico20-news.it/cultura-e-spettacolo/le-donne-nella-commedia-dantesca-francesca-da-rimini/05/03/2024/ Una vita in due terzine Nel quinto canto del Purgatorio Dante e Virgilio…
Link articolo 2 precedente https://civico20-news.it/author/patrizia-lotti/
Nel XIII canto del Purgatorio Dante e Virgilio passano alla seconda cornice del monte del Purgatorio, là dove sono punito gli invidiosi. Il poeta ce li descrive seduti su pietre livide. Coperti di “vil cilicio”, un tessuto ruvido dello stesso colore della pietra. La loro pena è terribile: hanno le palpebre cucite con il filo di ferro, per cui Dante, trovando scortese vederli senza essere visto, si rivolge alle anime, palesando quindi la sua presenza e domandando inoltre se qualcuna sia italiana. A rispondere sarà Sapia, appartenente alla famiglia senese dei Salvani; andata sposa a Ghinibaldo Saracini, fu signora del castello di Monteriggioni, vicino a Colle Valdelsa, là dove avvenne la sconfitta dei Senesi ad opera dei Fiorentini, disfatta che sancì la fine del potere di Siena ed ebbe un ruolo fondamentale nella vita di Sapia. Innanzitutto l’anima mostra la sua appartenenza alla cultura medioevale riferendosi ad un assunto della filosofia scolastica : nomina sunt consequentia rerum, i nomi sono conseguenza delle cose, e ne rispecchiano la realtà oggettiva. Ma non è così per sé, per il suo nome; benché Sapia significhi “saggia”, infatti, lei non si sente affatto tale, anzi si definisce “folle” nella terzina che segue.
“E perché tu non creda ch’io t’inganni,
odi s’io fui, come ti dico, folle,
già discendendo l’arco dei miei anni.”
Ancora, l’uso dell’aggettivo “folle” rimanda al pensiero medioevale di Sapia ( e di Dante); è stolto chi crede di risolvere ogni problema solo con l’intelletto umana, senza affidarsi alla luce della grazia divina. E non manca poi un particolare che aggiunge gravità al suo peccato: “già discendendo l’arco dei miei anni.” Non era più una ragazzina, all’epoca della battaglia di Colle Valdelsa, ma una donna matura, a cui l’esperienza avrebbe dovuto insegnare che l’invidia è un male, un peccato grave, spesso foriero di un altro, la cupidigia, il desiderio ossessivo di ciò che appartiene ad altri. C’è poi un elemento che, se da un lato rivela ancora una volta l’appartenenza all’immaginario medioevale di Sapia, dall’altro la caratterizza nella sua originalità di personaggio in trasformazione: il realismo delle sue parole, del suo racconto, in qualche punto però temperato da un tono più elegiaco, volto più verso il pentimento, come se l’animo si trovasse all’inizio di un percorso verso la salvezza. Infatti il ricordo della sua gioia nel vedere i suoi concittadini sconfitti (in questo consiste la gravità del peccato d’invidia, nel non sopportare di vedere il bene altrui, anzi nel gioire delle sue disgrazie) è espresso in versi molto realistici:
“Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte le altre dispari,
tanto ch’io volsi in su l’ardita faccia,
gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,
come fé ‘l merlo per poca bonaccia.
Ma anche se la sua gioia malvagia fu un peccato gravissimo, la misericordia divina accolse nella sua grazia infinita l’anima della donna che si pentì sinceramente in punto di morte e le permise di intraprendere il suo cammino di purificazione attraverso le cornici del Purgatorio. Sapia continua ricordando l’anima di Pier Pettinaio, un umile venditore di pettini, terziario francescano allora noto per il suo amore caritatevole verso chiunque, che aveva abbreviato, con le sue sincere preghiere in suo favore, la durata del tempo della sua espiazione in Purgatorio. L’episodio si conclude con la rivelazione da parte di Dante di essere ancora vivo, fatto che colpisce Sapia per la sua eccezionalità e con la previsione dell’Alighieri di dover passare, dopo la morte, molto tempo nella cornice sottostante, quella dei superbi. Vale forse qui la pena di ricordare che in Purgatorio le anime devono espiare i loro peccati, sia pure in tempi diversi, in tutte le cornici, così da arrivare infine in Paradiso liberi da ogni colpa. Ancora una volta, alla fine del canto, l’anima di Sapia oscilla tra il ricordo, pieno di rimorso, della vita terrena e l’ascesa verso la purificazione e la beatitudine. Chiede infatti a Dante, anche in nome della eccezionalità della sua esperienza, di pregare per lei, ma anche di diffondere tra i suoi parenti la buona novella che la sua anima non è dannata: Dio ha accolto il suo pentimento in extremis. Anche qui il riferimento ai Senesi non è scevro da ironia nei loro confronti, questa volta però temperata da una certa mestizia :
“Tu li vedrai tra quella gente vana
che spera in Talamone, e perderagli
più di speranza ch’a trovar la Diana;
ma più vi perderanno li ammiragli.”
I Senesi sono “gente vana”, appellativo da loro meritato per le infruttuose ricerche del fiume Diana, che immaginavano scorresse sotto la città, e per le eccessive spese profuse per il porto di Talamone. Sapia è dunque presentata da Dante come un personaggio colto in un momento di passaggio intermedio del suo processo di purificazione; permangono in lei polemiche terrene verso i suoi concittadini, mentre affiorano la tensione ad una sincera macerazione spirituale e la gratitudine umile verso Pier pettinaio. Un ritratto efficace di un carattere costruito con coerenza. Una donna molto diversa da Francesca da Rimini, dannata, ma che appare come una nobildonna cortese, colta, raffinata ed ancora piena di passione per Paolo; lontana anche dalla dolcezza e dalla discrezione di Pia dei Tolomei, ormai lontana dalla sua esperienza terrena e dedita solo al suo processo di purificazione.
© 2024 CIVICO20NEWS – riproduzione riservata
Scarica in PDF