Di Aldo A. Mola
Chi pose le basi per il ritorno alla democrazia?
A ridosso dello scorso 25 aprile è stato detto che a porre le basi per il ritorno della democrazia in Italia fu la Resistenza. Va ricordato che essa non è sinonimo di “guerra partigiana” e che l’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi) non la rappresenta tutta. Nel 1948, quando l’Anpi parve appiattirsi sul Fronte popolare social-comunista sconfitto nelle elezioni del 17-18 aprile, se ne separarono i partigiani già militanti nelle formazioni “Giustizia e Libertà”. Nacque la Federazione Italiana associazioni partigiane (Fiap) con Enzo Enriques Agnoletti, Ludovico Ragghianti, Ugo La Malfa, Nuto Revelli, Giuliano Vassalli e Lamberto Mercuri, che ne scrisse la storia. A loro volta dal 1947 i partigiani autonomi e i cattolici (Raffaele Cadorna, Enrico Mattei, il cui nome oggi è abusato, Eugenio Cefis, Paolo Emilio Tavani, Enrico Martini Mauri…) dettero vita alla Federazione italiana volontari della libertà (Fivl). In concreto, anche se parecchi oggi ripetono che la lotta contro la Germania di Hitler e la Repubblica sociale italiana, sua succuba, comprese un arco amplissimo di posizioni ideali, religiose, partitiche e apartitiche, quando si tratta di fare memoria spesso si semplifica. Però la “reductio ad unum” è antitetica alla storia, che è ricerca, comprensione e proposta, mai imposizione di “verità”. Nel caso della liberazione dell’Italia dai tedeschi va infine ricordato che essa non datò dal 25 aprile né dalle insurrezioni ordinate dai Comitati di liberazione ma dalla conclusione della trattativa a Caserta tra gli anglo-americani e i comandi tedeschi con effetto dalle h.13 del 2 maggio 1945: lo stesso giorno della resa di Berlino all’Armata Rossa. Questa è la data non convenzionale ma effettiva della fine delle operazioni di guerra in Italia, altra cosa dalla eliminazione fisica di “repubblichini” che si protrasse sino al 4 maggio e, in forme più coperte, anche molto oltre. Per esempio, l’inglese colonnello Stevens disse ruvidamente che dal 5 maggio, quando avrebbe assunto il comando della “piazza” di Torino, non voleva vedere cadaveri per le strade. Per scampare alla “giustizia sommaria” imperversante e all’esecuzione della sua condanna a morte, annunciata dal comunista Giorgio Amendola, benché il suo villino in via Giacosa a Torino fosse presidiato da reparti di “Giustizia e Libertà”, il senatore Giovanni Agnelli, proprietario e presidente della Fiat, passò la notte nel Carcere Nuovo che, paradossalmente, in quelle ore di sangue era il luogo più sicuro della città.
Insomma, il cammino verso le libertà democratiche non fu affatto rettilineo. Come già nell’Italia centro-meridionale, anche in quella settentrionale esso risultò profondamente diverso da regione a regione (una cosa fu il Piemonte, un’altra l’Emilia-Romagna), da città a città, e nelle città non fu identico a quello vissuto in plaghe contadine rimaste ai margini della guerra civile. Solitamente oggi non viene ricordato che nelle regioni liberate tra fine aprile e inizio maggio il potere di governo fu assunto da militari alleati ai quali, come stabilito dalla resa del settembre 1943, le giunte comunali provvisorie nominate dai CLN dovevano rispondere. Del pari viene passato sotto silenzio che la resa della Germania e il crollo della Rsi misero fine alla guerra ma non comportarono la pace, non solo perché il conflitto mondiale continuò nell’Estremo Oriente (e il nuovo governo italiano, presieduto da Ferruccio Parri, ritenne doveroso prendervi parte con la dichiarazione di guerra del 15 luglio 1945 contro il Giappone), ma perché rimanevano da stabilire le sorti dei Paesi vinti e dei loro domini coloniali, inclusa l’Italia. Una riflessione obiettiva e matura conduce a una visione più articolata di quella intricata vicenda. Essa evoca protagonisti e scenari politico-militari probabilmente ignoti o volutamente taciuti nella riduzione del Passato a un corteo e a frasi d’occasione.
A porre le basi per il ritorno della democrazia in Italia fu per primo Vittorio Emanuele III. Il 25 luglio 1943 il re revocò Mussolini e nominò a capo del governo Badoglio, il quale, due giorni dopo, sciolse il Partito nazionale fascista, il Gran consiglio del fascismo, la Camera dei fasci e delle corporazioni e il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. La Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che non mosse un dito in difesa del “duce”, sostituì i fasci con le stellette dell’Esercito. A dicembre fu sciolta. I prigionieri e confinati per motivi politici vennero liberati. Con quelle misure il regno d’Italia mise alle spalle il regime, subì la resa senza condizioni ma salvò la continuità dello Stato e con la dichiarazione di guerra alla Germania fu accettata dalle Nazioni Unite come “cobelligerante”.
Ma com’era l’Italia? Nel Mezzogiorno.
Il 12 aprile 1944 Vittorio Emanuele III annunciò che alla liberazione di Roma avrebbe trasmesso tutti i poteri al figlio Umberto in veste di suo Luogotenente. Da mesi sollecitava Badoglio a formare un governo con esponenti dei partiti. In marzo il reciproco riconoscimento tra l’Unione Sovietica e il Regno d’Italia accelerò i tempi della “svolta”. L’Urss chiedeva agli anglo-americani maggiore impegno contro la Germania, il cui peso militare nell’Europa di terraferma fronteggiava da sola dal giugno 1941. Dopo l’assalto alla Sicilia (10 luglio 1943), lo sbarco a Salerno (8 settembre) e quello ad Anzio-Nettuno (22 gennaio 1944) gli Alleati continuavano a rinviare l’avanzata verso nord. Agli ordini di Albert Kesselring i tedeschi arretravano combattendo strenuamente. Per batterli, mentre le “bande” stentavano a decollare, gli alleati avevano bisogno del sostegno di tutta l’Italia: quella di Vittorio Emanuele III.
Il 22 aprile 1944, un mese dopo l’attentato di via Rasella a Roma e la rappresaglia alle Fosse Ardeatine e una settimana dopo l’uccisione di Giovanni Gentile a Firenze, si insediò il nuovo governo Badoglio, con cinque ministri senza portafoglio (tra i quali Benedetto Croce, il comunista Palmiro Togliatti e il socialista Pietro Mancini) ed esponenti dei sei partiti del Comitato di liberazione nazionale (Cln): liberali, democratici del lavoro, democristiani, azionisti, socialisti e comunisti. Il 22 gennaio gli anglo-americani gettarono su Roma migliaia di volantini annunciandone la liberazione imminente. Però la loro offensiva continuò a stentare. Essa procedeva su due direzioni: una, agli ordini del generale americano Marc Clark, doveva muovere verso Roma; l’altra, comandata dall’inglese Bernard Montgomery, doveva puntare verso le Marche e l’Emilia.
Il 12 maggio riprese l’avanzata su Roma. All’avanguardia si batterono “francesi” e i polacchi, che già avevano combattuto eroicamente a Cassino. Il 16 i tedeschi abbandonarono la linea Gustav e prepararono l’evacuazione da Roma. Gli “americani” vi entrarono il 4 giugno. A Firenze arrivarono il 4 agosto. A fine giugno Montgomery raggiunse Pescara. L’avanzata verso nord incontrò difficoltà crescenti e infine ristagnò. Dall’inizio del gigantesco sbarco in Normandia (6 giugno) per gli alleati l’Italia divenne teatro bellico secondario. I tedeschi si arroccarono dalla Garfagnana al fiume Marecchia: la “Linea Gotica”, sulla quale sin dall’estate 1943 Erwin Rommel aveva proposto di attestare le armate tedesche per tenere sotto controllo le regioni italiane più popolose e industrializzate. Hitler aveva invece preferito fermare gli anglo-americani a sud di Roma, per motivi ideologici e politici. Contava sul sostegno dello Stato nazionale repubblicano formalmente costituito con l’insediamento del suo governo il 23 settembre 1943 con a capo Benito Mussolini, il 12 precedente prelevato dalle SS al Gran Sasso, trasferito in Germania e riportato in Italia alla testa di uno Stato formalmente alleato ma subalterno.
Il 27 aprile 1944 Badoglio annunciò ai ministri, radunati nel palazzo comunale di Salerno, il programma di approvato il giorno prima a Sorrento con Croce, Carlo Sforza, Giulio Rodinò, Mancini e Togliatti. Tra i presenti, Alberto Tarchiani (ministro dei Lavori pubblici) e Adolfo Omodeo (Educazione nazionale), esponenti del Partito d’Azione, proposero piccole modifiche. Esso affermò: «Col rinnovato governo democratico, rimossi gli ostacoli che dividevano gli animi, in tutti regnerà ormai lo stesso spirito e (…) considererà suo dovere di aiutare in ogni guisa gli sforzi degli eroici patrioti, che, da qualsiasi partito vengano, sono oggi tutti uniti per liberare l’Italia e sconfiggere la Germania hitleriana.» All’impegno bellico andava unita l’“epurazione”, «con l’allontanare dalla vita publica e dall’amministrazione gli elementi pericolosi. Non la passione della vendetta spinge a quest’opera perché tutti vorremmo perdonare e dimenticare e rimarginare le piaghe e ristabilire la fiducia di un tempo di italiani con italiani, ma una necessità di salvezza della patria”.
Il governo si propose di «ristabilire i controlli della Ragioneria dello Stato e della Corte dei Conti» e di affrontare il nodo dei nodi: la sua rappresentatività a cospetto del Paese. Esso era interlocutore unico delle Nazioni Unite. Però non aveva i requisiti previsti dallo Statuto ancora vigente, che conferiva il potere legislativo al Re e alle Camere. Per la prima volta dal 1848/1861 l’Italia non aveva una Camera dei deputati e, per le circostanze belliche, il Senato non poteva riunirsi. Il sovrano era identificato con il governo e quindi sovraesposto. I ministri decisero che, «liberato il Paese e cessata la guerra», il popolo sarebbe stato «convocato ai liberi comizi mercé di un suffragio universale per eleggere l’assemblea costituente e legislativa». Nel frattempo intendeva «dar vita, di intesa con i Comitati di Liberazione, a un sia pur ristretto corpo consultivo, simbolo del Parlamento che ci manca, al quale periodicamente faremo l’esposizione del lavoro compiuto». Il 29 aprile il socialista Mancini dichiarò alla “Gazzetta del Mezzogiorno” che il Corpo consultivo avrebbe contato cento membri: rappresentanti dei CLN, ex deputati (per esempio Enrico De Nicola), alcuni senatori, rappresentanti della Camera del Lavoro e i cinque ministri senza portafoglio. Il proposito rimase lettera morta. D’altronde il governo non poté varare nessuna riforma dell’ordinamento statale, politico, amministrativo ed economico mentre «arde(va) la guerra» e l’Italia era «spezzata in due tronconi, il più grande dei quali era delle terre ancora occupate dal nemico».
Quella era l’Italia vista da Salerno a fine aprile 1944. La lunga e retorica discussione sulla data in cui celebrare la Festa dei lavoratori, fissata la domenica 30 aprile «per non ledere in alcun modo lo sforzo produttivo bellico», eluse ancora una volta uno dei principali guai incombenti sull’Italia liberata: l’inflazione galoppante, causata dall’inondazione di Am-lire, stampate negli USA un anno prima di iniziare l’invasione dell’Italia e dal settembre 1943 imposte come moneta corrente: oltre quindici miliardi che determinarono un’inflazione socialmente devastante.
L’epurazione
Il 4 maggio il governo discusse la proposta avanzata da Arangio Ruiz di smentire l’intenzione di abolire la pena di morte, propugnata da Tarchiani e condivisa da Croce, e concluse, come suggerito da Togliatti e da altri, che era meglio non parlarne affatto. Altrettanto lunga e talora aspra fu la discussione sulle “sanzioni” a carico di quanti avevano commesso “delitti fascisti”. Bisognava passare dalla defascistizzazione all’epurazione, da attuare (come intimò Togliatti) “per la via giuridica” scongiurando il rischio che essa avvenisse “per la via plebea”, ovvero con il brutale linciaggio dei fascisti da parte del “popolo”. Il nodo della discussione era la retroattività o irretroattività delle norme per la sua attuazione. In netto contrasto con la civiltà giuridica italiana prevalse la retroattività. Il 10 luglio, mentre sanzioni ed epurazioni stavano imperversando, diciotto giuristi insigni, tra i quali Guido Astuti, Arturo Carlo Jemolo e Massimo Severo Giannini, ammonirono a «non confondere l’ambito del diritto con quelli della morale e del giudizio storico» e a ricordare che non potevano «assorgere a reato molte azioni che possono invece e debbono essere severamente condannate dalla morale e nella memoria dei popoli». Non si poteva considerare “reato” l’intera vita pubblica dal 1922 al 1943, come invece pretendevano “moralisti” che calpestavano il principio inviolabile “nullum crimen sine lege”.
L’aprile 1944 nella Repubblica sociale italiana
Com’era, nel frattempo, l’“altra Italia” di fine aprile 1944, territorialmente molto più estesa di quella liberata? Per comprenderlo occorre compiere qualche passo all’indietro, come abbiamo fatto per quella “del Re”. Nella sua prima seduta, tenuta alle 14 del 23 settembre 1943 presso l’ambasciata tedesca in Roma, il governo fascista repubblicano nominato da Mussolini fu presieduto da Alessandro Pavolini, ministro e segretario del partito. In un’ora e mezza decise il trasferimento della capitale e della sede del governo, dei ministeri, del Tesoro dello Stato e degli impianti tecnici in sedi da individuare nell’Alta Italia. Nella seconda riunione, il 28 settembre, a Rocca delle Caminate Mussolini enunciò il programma del governo: punire i traditori e i felloni e preparare una Costituente per definire il programma dello Stato fascista repubblicano, con «pronunciatissimo contenuto sociale». La situazione era «gravissima ma non disperata». Il 27 ottobre, nella terza riunione, il governo mussoliniano ricostituì il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, istituì un tribunale speciale straordinario per la punizione dei gerarchi che avevano votato l’ordine del giorno Grandi-Bottai-Federzoni e, su relazione di Rodolfo Graziani, esaminò la riorganizzazione delle Forze Armate. Il 24 novembre il governo deliberò il sequestro di beni appartenenti a cittadini di razza ebraica e il giuramento di fedeltà alla Repubblica sociale italiana, nuova denominazione dello Stato nazionale repubblicano.
Dieci giorni prima, il 14 novembre, in vista dell’adunata fascista repubblicana convocata nel Palazzo di Castelvecchio a Verona, il comunista Nicola Bombacci e Pavolini misero a punto un “Manifesto” revisionato da Mussolini. L’“assemblea” durò dal pomeriggio del 14 al 16. Al suo segretario Giovanni Dolfin il duce la definì «una bolgia vera e propria. Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise. Si sono manifestate le tendenze più strane. Qualcuno infatti ha chiesto l’abolizione nuda e cruda del diritto di proprietà». In diciotto punti la Carta propose la convocazione di una Costituente, «potere sovrano di origine popolare, che dichiari la decadenza della monarchia, condanni solennemente l’ultimo re traditore e fuggiasco, proclami la repubblica sociale e ne nomini il capo». Mussolini era solo capo provvisorio? In “materia sociale” la Carta di Verona proclamò «base della Repubblica sociale e suo oggetto primario il lavoro, manuale, tecnico, intellettuale, in ogni sua manifestazione». Riecheggiò la Carta del Carnaro redatta dall’anarco-sindacalista Alceste De Ambris e imbellettata da Gabriele d’Annunzio. La proprietà privata venne garantita dallo Stato, ma subordinata alla “socializzazione”. Cardine della Repubblica era il partito, «ordine di combattenti e di credenti […] custode dell’idea rivoluzionaria». La sua religione era la cattolica apostolica romana, nel rispetto di altri culti non contrastanti con le leggi. Anche dell’israelitico? A scanso di equivoci il punto 7 dichiarò: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono estranei. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica.» La Rsi spazzò via la “segregazione amichevole” degli ebrei, praticata nei secoli, e, peggiorando nettamente le leggi del 1938, imboccò la via diretta e indiretta della persecuzione, con le ben note conseguenze criminali.
I “delegati” presenti a Verona dichiararono di rappresentare circa 250.000 iscritti al Partito fascista repubblicano: una somma modesta rispetto ai tre milioni e mezzo di iscritti al PNF sino a pochi mesi prima. Perciò inizialmente fu esclusa l’imposizione di giuramento di fedeltà al nuovo regime per i pubblici impiegati e gli insegnanti. La maggior parte degli abitanti delle regioni ormai sotto controllo nazifascista non si riconosceva affatto nella RSI o nel PFR ma non poteva certo migrare altrove portando seco abitazioni, cascine, fabbriche, abitazioni… Come erano convissuti con il regime fascista precedente il 25 luglio, così gli italiani nella (non “della”) Rsi vissero in attesa degli eventi e, per loro sciagura, sotto continui e devastanti bombardamenti. Non era facile scegliere diversamente, mentre la Germania occupava la Romania e l’Ungheria e annetteva di parti del territorio nazionale italiano, nominandovi “governatori” tedeschi.
Dopo quell’avvio drammatico e confuso, il governo tenne rade sedute, una al mese: 24 novembre e 16 dicembre 1943, 11 gennaio, 12 febbraio, 11 marzo 1944 e 18 aprile 1944. In quest’ultima seduta il governo incorporò la Guardia nazionale repubblicana nell’Esercito nazionale repubblicano, comandato da Rodolfo Graziani, costituì il Corpo ausiliario delle squadre di azione delle camicie nere, formulò le sanzioni a carico dei militari organizzati “in bande” nemiche del regime e decretò la pena di morte per i disertori e i renitenti alla leva.
Il governo tornò a riunirsi solo il 31 agosto, quando fu chiaro che la guerra sarebbe continuata. In quella seduta la Direzione generale per la demografia e la razza venne mutata in Direzione generale per la demografia. Il suo uomo di punta, che non nominiamo, già autore della versione italiana dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, successivamente fu elevato a “Ispettore generale per la razza” e poté dare sfogo alla sua visione complottistica e maniacale secondo la quale l’Italia era vittima del complotto demo-pluto-giudaico-massonico, che stava infettando anche la Repubblica sociale senza che Mussolini prendesse le misure spietate e definitive contro i nemici della pura razza italiana, di cui egli, un tempo prete, si erse a sommo sacerdote.
L’Italia dell’aprile 1944 era dunque un Paese diviso in fazioni estremistiche, numericamente esigue, e popolato da una “maggioranza silenziosa”: quella preponderante “zona grigia” con la quale storiografia e pubblicistica ancora faticano a “fare i conti”: operazione scomoda ma necessaria per comprendere non solo gli eventi di allora ma anche l’Italia di oggi. Ci arriveremo il 25 aprile del 2025?
Aldo A. Mola
Un infame libello dell’Ispettore generale per la razza.
Sulle “due Italie” sono fondamentali i “Verbali del Consiglio dei ministri. Governo Badoglio”, a cura di Aldo G. Ricci, Roma, 1994; e i “Verbali del Consiglio dei ministri della Repubblica sociale italiana. Settembre 1943-aprile 1945”, a cura di Francesca Romana Scardaccione, con introduzione di Aldo G. Ricci (Una storia da scrivere), Roma, 2002.