Di Aldo A. Mola
Dai cognomi agli ideogrammi
“Detto” non si dice di chi ha un nome ma di chi, non avendolo, appunto viene “detto”. Il “nome” degrada a “nomignolo”, come il manzoniano Lorenzo, che “tutti lo chiamavan Renzo”. Così, mentre imperversano le abbreviazioni, la neo-stenografia manda in soffitta la scrittura. Guglielmo diviene Gug, Giuseppe è Gius, Berto sta per Roberto, Gio per Giovanni, Alessandro è Ale e via continuando, con tutte le deformazioni dialettali e familiari, maschili e femminili, sempre più frequentemente suggellate dalla “y” finale. Sicché Rosa diviene Rosy, Giuseppina Giusy e via semplificando. Non è lontano il tempo nel quale anche i nomignoli oggi imperversanti saranno sostituiti da ideogrammi, già in agguato. A suggerirli sono gli stessi protagonisti della vita pubblica. Una veggente dalle pupille spiritate ha recentemente pensato di riprodurre sulla tessera del partito non il volto ma solo gli occhi di un suo remoto (e tanto da lei diverso) predecessore. A sua volta Ella o Elly che dir si voglia potrebbe essere proposta non con nome, cognome e faccia ma solo come un paio d’occhiali su una fronte inutilmente spaziosa, a sconforto di chi non la vide arrivare. Un’aspirante al liberatorio seggio di europarlamentare potrebbe essere rappresentata con un tratto di catena. Un’altra candidata potrebbe figurare solo con una smorfietta, data la sua versatilità mimica, anziché chiusa in una divisa blù dai bottoni dorati, tipica dei portieri d’albergo. Anche i maschietti potrebbero essere raffigurati con ideogrammi allusivi: un costume da bagno e un bicchiere; una pochette sporgente da un lembo di giacca, una camicia aperta sul petto villoso… Gli elettori, siamo certi, troverebbero attrattivi questi richiami da settimana enigmistica. Nell’atmosfera raccolta della “gabina” elettorale sciogliere il rebus per individuare il candidato preferito riuscirebbe molto più divertente di quanto oggi risulti raccapezzarsi nella moltitudine di contrassegni e suggestioni accattivanti. Pubblicità ingannevole? Non esageriamo, né drammatizziamo. Gli specialisti di flussi e afflussi dicono che “così va il mondo”.
Miti…
Dunque, votare per l’Europa. Ma quale? Parafrasando il detto antico, prime vedere la “merce”, poi “dare voto”. Già la sua etimologia è un rompicapo. Scartata l’origine semitica del termine, secondo il leggendario Omero “Europa” sarebbe figlia del maschile Oceano e della femminea Teti. Per i Greci essa era lo spazio subito al di fuori dell’Ellade: un “nord” dai confini indefiniti, meno esplorato del Mediterraneo e distinto dall’Asia e dalla “Libia”, che stava per Africa. Ma quali erano le sue origini e il suo destino? I Greci la raccontarono più o meno così. “Europa” era figlia di Agenore, re di Tiro (fenicio: dunque un semita). Zeus, re degli Dei, la adocchiò mentre passeggiava su una spiaggia in compagnia di vaghe ancelle. In linea con le regole vigenti nell’Olimpo, Zeus, come fosse Depardieu, assunse sembianze di possente toro, si mescolò ai mansueti buoi di Agenore, spinti verso la spiaggia dal suo fido Hermes (dio degl’inganni, un po’ lenone all’occorrenza), si acquattò ai piedi d’Europa e le fece l’occhio bovino. Lesta la compunta giovine gli salì in groppa, ma invece di caracollare sul mussoliniano “bagnasciuga”, Zeus si tuffò in mare e zampettando tra i flutti la condusse sino a Creta, ove riprese fattezze umane e tentò di possederla. Per vincerne la riluttanza, si trasformò in Aquila. L’Europa giacque. Zeus, narra il mito, ne ebbe ben tre figli: Minosse, Radamanto e Sarpedonte. In seconde nozze, Europa fu presa in sposa dal re di Creta che lasciò il trono a Minosse.
Com’è, come non è, il toro rimase di casa nella reggia di Creta. Poseidone, dio del mare, donò a Minosse un toro magnifico affinché lo sacrificasse in suo onore. Ma Minosse se lo tenne e ne scannò uno di minor vaglia. Poseidone la prese male. Per sua suggestione, la moglie di Minosse, Pasifae, s’invaghì della possente bestia. La losca faccenda fu sintetizzata da Padre Dante nella “Divina Commedia”. Per soddisfare la regina (e forse col beneplacito di Minosse, che ne aveva avuto otto figli), l’ingegnoso Dèdalo forgiò una “macchina di legno”, coperta con la pelle della mucca preferita dal toro di Poseidone. Conclusione: “Ne la vacca entra Pasife/ perché ‘l torello a sua lussuria corra” (Purgatorio, XXVI, 41-42) e “s’imbestiò ne le ‘mbestiate schegge” (ivi, 87). Dall’unione nacque il Minotauro, he venne rinchiuso nel labirinto ideato da Dédalo. Gli Ateniesi gli mandarono annualmente in pasto sette vergini e sette giovani sino a quando Teseo vi si addentrò, lo affrontò, lo uccise e ne uscì grazie al gomitolo di filo che gli aveva dato Arianna, sorella del Minotauro, affinché, a missione compiuta, potesse recuperare la Vera Luce.
Insomma “Europa” ha alle spalle una storia ingarbugliata e poco edificante, con una zampa nel cielo, un’altra piantata nella terra, una terza in mare e una quarta nella fantasia che tutto immagina, comprende e “perdona” perché…chi siamo noi per giudicare?
… e storie d’Europa: groviglio sanguinoso
Per i geografi del Terzo Millennio la separazione dell’“Europa” dall’Asia è impresa impossibile. Inizia dall’Atlantico e non finisce agli Urali (come proponeva Charles De Gaulle) ma al Pacifico. È la parte occidentale dell’Eurasia settentrionale, che a sua volta continua con la “Cin-India”. Molto diverso è il suo percorso storico. Ha avuto il pregio di esplorare il globo, di soggiogarne gran parte, di abitare le Americhe, previa eliminazione quasi totale (non sempre programmata) dei nativi, di trasferirvi un numero rilevante di africani e di contenere in spazio relativamente esiguo popoli dediti a guerre fratricide. Nel tempo è divenuta crogiolo di civiltà e laboratorio di modelli politici disparati, con ritmo accelerato dal Settecento a oggi. Ma questa, appunto, è storia recente, ancora in fase di sedimentazione. Va guardata con distacco.
In circa duemila anni l’Europa ha conosciuto un solo impero, quello Romano, esteso all’intero bacino del Mediterraneo e al Vicino Oriente. Non soggiogò mai la Germania né riuscì a sconfiggere la Persia. Un bassorilievo rupestre “fotografò” un imperatore inginocchiato dinnanzi a quello di Persia. Prima dei Romani si erano susseguiti imperi stratificati nei millenni: Egizio, Babilonese, Assiro e Persiano. “Proclamato” con Caio Ottaviano Augusto duemila anni orsono quello romano iniziò a declinare nel volgere di appena cento anni. Due secoli dopo, con Marco Aurelio, era già sulla difensiva. Passati altri cent’anni finì in piena disgregazione. Quello nell’800 dopo Cristo intestato a Carlo, re dei Franchi, fu un’insegna posticcia e di breve durata: un progetto messo in discussione dagli stessi romani pontefici che lo avevano consacrato. Fu guardato con sufficienza dagli imperatori di Bisanzio, la Nuova Roma, durata settecento anni più dell’impero carolingio, continuamente sotto assedio: nuove invasioni da nord-est (slavi, magiari…) e offensive da sud-sud ovest e da est: arabi e turchi ottomani.
L’Europa odierna: dagli imperi coloniali…
L’Europa odierna ha appena ottant’anni. Sorse dalle rovine di due Grandi Guerre generate dagli europei e divenute mondiali. Risente e risentirà per chissà quanto tempo dell’onda di ritorno della colonizzazione esplosa tra il 1880 e il 1923, quando i suoi Stati militarmente e/o finanziariamente più importanti (soprattutto Gran Bretagna e Francia) in pochi decenni soggiogarono immensi spazi afroasiatici e si spartirono le colonie dell’impero di Germania e quello turco-ottomano. In quel contesto la Lega delle Nazioni, proposta quale superamento dei conflitti tra gli Stati, fu condannata a una lenta agonia. Gli Stati Uniti d’America, che ne avevano fatto il vessillo del loro ingresso nella politica planetaria e avevano imposto la “Dottrina Monroe” in tutti i trattati di pace, ne rimasero estranei: spettatori della seconda fase della guerra dei trent’anni. Nel 1945 cessò la guerra, ma non iniziò la tanto auspicata pace mondiale. La conferenza di Postdam (17 luglio-2 agosto 1945) si limitò a segnare la linea di demarcazione tra la Germania e la Polonia. In novembre-dicembre la conferenza di pace di Parigi discusse le riparazioni da imporre ai vinti, Giappone compreso. Nel frattempo era ormai in atto quanto Hitler aveva sempre sperato: la contrapposizione tra USA e Gran Bretagna (GB) da una parte e l’Unione sovietica dall’altra, pronta ad agguantare l’Europa orientale. Il Consiglio dei Quattro grandi (USA, URSS, GB e Francia) radunato a Parigi nel luglio del 1946 non raggiunse l’intesa sulla sorte della Germania. I nuovi esperimenti di bombe nucleari sull’atollo di Bikini (luglio 1946) inasprì il conflitto latente, proprio quando stava per iniziare la definitiva conferenza di pace (Parigi, 19 luglio-15 ottobre), conclusa con i Trattati fra i diciotto Stati vincitori e i cinque sconfitti (Italia, Bulgaria, Finlandia, Romania e Ungheria), mentre la “questione tedesca” fu nuovamente rinviata. Nell’aprile 1947 la conferenza di Mosca segnò la rottura aperta tra l’Urss e gli “occidentali”, come del resto aveva anticipato Winston Churchill, che nel discorso di Fulton (5 febbraio 1946) denunciò la “cortina di ferro” fatta scendere da Stalin da Stettino a Trieste.
Il “Piano Marshall” per la ricostruzione economica dell’Europa (ERP: European recovery program, 5 giugno 1947, respinto a luglio dall’Urss e dalla Cecoslovacchia) costituì un altro passo verso l’egemonia americana sull’Europa occidentale, i cui imperi coloniali erano in crisi irreversibile dall’India alla futura Indonesia, mentre in Cina l’Armata comunista riportava continui successi. Il 30 settembre 1947 i partiti comunisti (inclusi quelli d’Italia e di Francia) si accorparono nel Kominform, guidato dall’Urss e dilagante dall’Europa orientale all’Albania, sottoposta a un regime spietato.
Il 1948 segnò la divisione del “mondo” in blocchi. L’11 giugno la “risoluzione Vandenberg” ratificò la fine dell’isolazionismo degli USA, sempre più presenti nello spazio precedentemente egemonizzato dall’Europa. La nascita dello Stato di Israele (14 maggio) pose fine al mandato inglese sulla Palestina e scatenò il primo conflitto arabo-israeliano, chiuso con la sconfitta immediata dell’Egitto e della Lega araba. Il blocco sovietico di Berlino e la rottura tra la Jugoslavia di Tito e il Kominform furono altri passi verso un nuovo ordine planetario, suggellato dal primo esperimento nucleare dell’Urss (14 luglio) e dalla proclamazione della Repubblica popolare cinese con Mao Tse-tung presidente e Chou En-lai primo ministro.
All’inizio dell’anno Mosca varò il Comecon, che subordinò alla sua le economie dei Paesi sotto la sua egemonia (Polonia, Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia e la Germania orientale, detta democratica). In risposta, il 27 gennaio 1949 dieci Stati, tra i quali l’Italia, istituirono il Consiglio d’Europa per i diritti dell’Uomo (CEDU, che oggi conta 47 membri e non va confuso con il Consiglio dell’Unione europea) e il 4 aprile fu sottoscritto a Washington il Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO, secondo l’acronimo inglese), patto difensivo tra USA, Canada, Gran Bretagna, Portogallo, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Danimarca, Norvegia e Italia. Con quella firma, propugnata dal repubblicano Randolfo Pacciardi, massone, dal socialdemocratico Giuseppe Saragat, dai liberali e dal democristiano Alcide De Gasperi, vincitore delle elezioni del 18 aprile 1948, l’Italia uscì dal ghetto degli Stati vinti nella seconda guerra mondiale. Confinante con la Svizzera e l’Austria, paesi neutrali, e con l’equivoca Jugoslavia di Tito, divenne bastione dell’“Occidente” nel Mediterraneo. Tra i meriti da riconoscere De Gasperi va evidenziato che il suo “atlantismo” non era condiviso da importanti ambienti della Curia romana, diffidenti nei confronti degli anglo-americani, prevalentemente non cattolici e fautori di istituzioni (come la Massoneria, i Rotary Club, i Lions e l’Ymca) sospettate di occulte trame ai danni della Chiesa. Il 13 luglio 1949, vigilia della festa che in Francia esalta la Rivoluzione dell’Ottantanove e la tradizione anticlericale di “Marianne”, papa Pio XII mostrò la sua indipendenza di giudizio con la scomunica dei comunisti e dei “progressisti” corsi a sostegno del Fronte popolare preminentemente social-comunista, fieramente avverso all’Erp, alla Nato e a tutte le iniziative “europeistiche” accusate di essere “serve” del capitalismo e dell’imperialismo americano. I partiti comunisti “fratelli” condivisero persino la dottrina della “sovranità limitata”, con la quale l’Urss ridusse gli “alleati” a vassalli.
La proclamazione della Germania federale (8 maggio 1949) in cui subito si svolsero le prime elezioni vinte dal cattolico Konrad Adenauer, cancelliere dal 15 settembre, impresse l’accelerazione di istituzioni comunitarie europee. Il 9 maggio 1950 Robert Schuman propose la costituzione della Comunità del carbone e dell’acciaio (Ceca), di fondamentale importanza non solo per i suoi aderenti (Francia e Germania, per la prima volta insieme dopo quasi un secolo di guerre, “Be-ne-lux” e Italia) ma anche per il rifiuto della Gran Bretagna di farne parte. Iniziò il cammino della “Piccola Europa” scandito nel tempo dalla istituzione della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) e del Mercato comune europeo (Mec), con i Trattati solennemente sottoscritti il 24 marzo 1957 in Roma, città simbolo universale. Molto significativamente il 6 febbraio di quell’anno il comando delle forze di terra della Nato in Europa venne assunto dal tedesco Speidel, a conferma della rinascita militare della Germania, malgrado lo scacco subito dalla Comunità europea di difesa (Ced), bocciata il 30 agosto 1954 dalla Francia, proprio perché essa avrebbe comportato l’inizio del riarmo della Germania federale.
Che cosa pensa dell’Europa la Comece?
Nell’editoriale del suo Quaderno 4173 (4 maggio 2024) il quindicinale dei gesuiti “La Civiltà cattolica” analizza “alcune questioni cruciali” in vista delle imminenti elezioni europee. Lo fa in una visione ampia e alta delle sfide che esse pongono, lontana dall’italocentrismo che le sta impoverendo agli occhi di molti elettori e potrebbe allontanarli dalle urne. Al netto dell’ottica ovviamente religiosa della vasta problematica soggiacente al funzionamento delle istituzioni europee, l’editoriale passa in rassegna i tre principali “attori” dell’“Europa” odierna: il Consiglio dell’Unione europea (che riunisce i rappresentanti degli Stati, fissare orientamenti e condivide il potere legislativo comunitario), la Commissione europea, che esercita poteri paragonabili a quelli di un governo nazionale, e il Parlamento, che funge da contrappeso nei confronti del Consiglio ma non ha potere vincolante sulla Commissione e in specie sul suo presidente, che talora si conduce con disinvolta autonomia. Il “trilogo” risulta lontano dall’armonizzazione dei rispettivi poteri dei suoi Attori, a tutto danno dell’efficacia dell’“Europa”, oggettivamente assente o marginale in tutte le controversie che stanno dilaniando il pianeta, avviato verso una pericolosa militarizzazione.
La Conferenza episcopale della Comunità europea (Comece) in vista delle imminenti elezioni assume una posizione netta. L’Unione Europea non è perfetta, ma il ritorno al sovranismo è improponibile. Molti “testi rilevanti dell’UE” sono privi di riferimento ai valori cristiani. Però “la soluzione non può venire dall’ingaggiare una guerra culturale. Probabilmente sarebbe uno sforzo inutile e distruttivo”, mentre urgono impegni su ecologia, coesione sociale e migrazioni di massa e incombono due fronti di guerra che potrebbero sfuggire di mano. Alle conclusioni della Comece sono giunte per via autonoma molte persone di “buon senso”, credenti o meno: “Non esiste un partito o un candidato perfetto per cui votare. Ma bisogna fare delle scelte” a sostegno del “processo democratico”. “Spetta a ciascuno votare in coscienza dopo un’adeguata informazione e riflessione”, con il “discernimento” assunto quale metodo dai padri della Compagnia e in uso da secoli tra le colonne “J” e “B” e sotto volte stellate.
Le conclusioni sono ovvie. L’Italia, per quel che ancora conta, è collocata all’interno di una costruzione asimmetrica: da un canto la Nato, un’alleanza militare vincolante che in forza dell’articolo 5, comporta, piaccia o no, di calzare scarponi, imbracciare i fucili e andare alla guerra; dall’altro il “trilogo” europeo, sempre in affanno, troppo dilatato e inceppato da norme paralizzati, a cominciare dall’obbligo di deliberare all’unanimità, che non vige in alcun ordinamento pubblico né privato. Anche nei condominii si decide a maggioranza.
Di certo l’elezione del Parlamento non è tutto. Ma l’astensione è peggio. Qualcuno deciderà anche per chi non vota. Anzi, lo farà a mani basse. Avrà più potere e meno scrupoli. Nel bene e nel male, la Storia raggiunge, fruga in ogni anfratto e coinvolge anche chi s’illude di sottrarsi al suo corso.
Il punto, allora, è quello dal quale siamo partiti. L’“Europa” deve stabilire una volta per tutte se vuole farsi portare in giro per il mondo in groppa a un torello e finire posseduta da uno Zeus di passo sotto strane fattezze o vuol cominciare davvero a esserci. Nel giugno 2024 essa è la somma delle volontà dei suoi cittadini con diritto di voto, della discorde concordia di quanti debbono ricordare i guai che i loro nonni hanno causato e ora debbono valersi della pur minima parte di potere a loro disposizione: eleggere un Parlamento di persone competenti, affidabili, dichiaratamente convinte che, sepolti per sempre populismi e sovranismi (anticamere dei nazionalismi bellicistici), l’Europa è al bivio tra la federazione dei suoi vecchi Stati o il repentino crollo della sua faticata civiltà. Per lei valgono gli ultimi versi del “Tramonto della luna” di Giacomo Leopardi: “Ma la vita mortal, poi che la bella/ giovinezza sparì, non si colora/ d’altra luce giammai, né d’altra aurora. /Vedova è insino al fine; ed alla notte/ che l’altre etadi oscura, /segno poser gli Dei la sepoltura”. Per vanità e insipienza dei suoi governanti sono scomparsi imperi e regni molto più grandiosi di ogni Stato europeo, inclusa la Gran Bretagna che con un referendum dissennato decise di chiamarsi fuori dall’Unione europea. Può accadere per l’Europa intera. Dipende dai suoi cittadini con diritto di voto. Ora.
Aldo A. Mola
L’Europa in groppa Zeus in veste di Toro. Vittima di ratto o follia consensuale?
Nella miriade dei libri sulle istituzioni comunitarie europee ricordiamo “Voci per l’Europa” a cura di Alfonso Bellando, Torino, Sioi, 1977, con saggi, tra altri, di Bellando, Cansacchi, Casalegno, Chiusano, Andrea ed Augusto Comba, Fassino, Bruno Ferrero, La Ganga, Marazzi, Mola, Pistone e Pizzetti. All’epoca la mèta sembrava vicina; poi ci si impantanò nella méta, a tutto vantaggio degli scettici e degli avversari della Federazione europea, unico vero baluardo contro il ritorno alla belluinità.
Aldo A. Mola
Scarica in PDF