Conformismo e pensiero unico nell’era dell’onnipotenza tecnologica.
Tu non sei, non sei più in grado, neanche di dire se…
Quello che hai in testa l’hai pensato te.
Vasco Rossi, Non appari mai
(dall’album “Gli spari sopra”, 1993)
Nel commentare il mio articolo “Omaggio a Pier Paolo Pasolini”, un accorto lettore di Civico20News osservava come il pregio – che poi ne rappresentava anche il limite – di Pasolini fosse stato quello di aver spiegato in modo meno filosofico (e quindi più accessibile) ciò che altri pensatori avevano già illustrato: ovvero che l’umanità stesse procedendo verso un’era ipertecnologica, massificata e con protocolli di conformismo comportamentale tali da appiattire e svuotare di significato il concetto di “libertà”.
Come si vedrà, la censura è nel suo complesso fondata, avendo diversi autori toccato tematiche simili, con riflessioni anch’esse di indubbio spessore. Tuttavia, nulla toglie che Pasolini rimanga una figura di grande acume intellettuale e coraggio.
Volendo offrire una breve disamina, partendo dall’Ottocento, sono soprattutto Alexis de Tocqueville (1805-1859) e John Stuart Mill (1806–1873) a lumeggiare le caratteristiche della nascente società di massa, in larga misura connessa all’avvento dell’industrializzazione.
Ma è a cavallo tra l’Otto e il Novecento che vengono alla luce i primi specifici lavori al riguardo. Tra questi, un posto d’onore spetta alla celeberrima “Psicologia delle folle” di Gustave Le Bon (1841-1931), pubblicata nel 1895, a cui segue la “Sociologia del partito politico nella democrazia moderna” di Robert Michels (1876-1936), apparso nel 1911, e la “Psicologia delle masse e analisi dell’io” di Sigmund Freud (1856-1939), edito nel 1921.
Punto di svolta è poi rappresentato da “La ribellione delle masse” dello spagnolo José Ortega y Gasset (1883–1955), stampato nel 1930, che interpreta l’avvento delle società di massa quale esito di una modificata dimensione di vita dell’uomo che, a differenza del passato, abita in estesi agglomerati urbani ad alta densità abitativa. Secondo Ortega y Gasset, questa inedita concentrazione di persone è capace di incidere non solo sull’ambito economico e politico, ma anche sulla maniera di comportarsi (tra cui il vestire) e sulla morale, in un progressivo e generalizzato appiattimento culturale, capace al contempo di accrescere l’intervento dello Stato.
Non è dunque un caso che l’incrementata centralità delle masse e del ruolo dello Stato catturino l’attenzione della storica tedesca Hannah Arendt (1906-1975) che, nel suo “Le origini del totalitarismo” (1951, ma scritto negli anni Quaranta), in tali presupposti individua la miscela che darà vita ai totalitarismi del Novecento, rappresentati dal fascismo e dal comunismo.
In merito al rapporto tra tecnologia e masse, un altro pensatore deve essere ricordato. Si tratta del filosofo e accademico tedesco Martin Heidegger (1889-1976) che, nel novembre del 1953, tenne a Monaco di Baviera una conferenza dal titolo “La questione della tecnica”.
Secondo Heiddegger, la tecnica – o, per meglio dire, il “progresso tecnologico” (a sua detta, strettamente connesso a quello scientifico) – non sarebbe soltanto uno strumento utile a ottenere un fine (ad esempio, la produzione di beni o servizi), ma rappresenterebbe qualcosa di maggiormente profondo e pervasivo giacché la tecnologia – che diventa essa medesima una particolare tipologia di razionalità – finirebbe per incanalare l’individuo in ordinati dispositivi comportamentali, da cui diventa oltremodo difficile scostarsi.
Un ulteriore testo merita attenzione sia per la notorietà ottenuta sia per l’importanza che ebbe nell’influenzare il movimento del ’68: è “L’uomo a una dimensione”, apparso nel 1964 a firma del politologo tedesco Herbert Marcuse (1898-1979). Marcuse evidenzia come il progresso tecnologico e scientifico, che caratterizza le società industriali sviluppate, funga da elemento di dominio capace di provocare una progressiva uguaglianza nella sfera dei consumi e, grazie a raggiunti livelli di benessere, di contenere e manipolare il mutamento sociale.
In altri termini, per Marcuse, l’apparato produttivo delle società industriali moderne (e l’uso che ne viene fatto) “tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali” (“L’uomo a una dimensione”, Einaudi, p. 9). Precisa ulteriormente Marcuse come “entro il medium costitutivo della tecnologia, la cultura, la politica e l’economia si fondono in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative” (p. 10).
In conseguenza, per Marcuse, la “libertà” che le società liberaldemocratiche (e le loro élites) sbandierano come una delle conquiste (rispetto ai tempi passati e ad altri regimi politici) di maggiore importanza, si dimostrerebbe un diritto più di facciata che di sostanza, in quanto la “manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti” sarebbe idonea a depotenziare ogni effettiva forma di protesta e di contrapposizione agli assetti di supremazia vigenti e, quindi, di concreta libertà.
Riassunti sinteticamente alcuni contributi inerenti all’approfondimento delle società di massa, dello sviluppo tecnologico e del conformismo comportamentale, rimane vero che la riflessione di Pasolini molto possa ancora insegnare in quanto capace di cogliere profondi cambiamenti sociali, oltreché un’ampia gamma di strumenti del c.d. “soft power”.
Da ultimo, ma non per questo meno importante, viene da domandarsi come giudicherebbero l’oggi un Tocqueville e un Ortega y Gasset di un mondo all’ennesima potenza iperconnesso, dove i social regalano (in larga misura grazie al nostro assenso) a tutti ogni cosa di noi, senza neppure il bisogno dell’invadente occhio spione del “grande fratello”, magistralmente preconizzato da George Orwell (1903-1950) in quel capolavoro che è “1984”, come noto uscito nel 1948, quando le tecnologie erano immensamente meno sviluppate e pervasive di quelle attuali.
Che cosa avrebbero poi pensato – per citare un esempio – un Le Bon o un Pasolini dell’inquietante, unilaterale ed esasperato martellamento mediatico, condotto con inaudita violenza comunicativa (che, non a caso, ha fatto largo sfoggio di un linguaggio da guerra) durante l’emergenza da Covid-19 quasi all’unisono dagli organi d’informazione?
Ed ancora, quali timori avrebbero intuito e preoccupato un Heidegger o un Marcuse rispetto al delinearsi, in un futuro oramai prossimo, con riferimento allo sviluppo e alla diffusione di sistemi tecnologici a intelligenza artificiale che sostituiranno, anche da un punto di vista lavorativo (e ancor più di adesso), il genere umano, oppure del “metaverso” o di un prevedibilmente consistente uso della “realtà virtuale”?
Cosa ci potrà riservare una scienza come quella auspicata dal Dott. Miroslav Djordjevic – che, tra New York e Belgrado, ha effettuato negli ultimi anni oltre 6 mila interventi di cambio di sesso – il quale è sicuro a breve di poter trapiantare utero e ovaie in corpi maschili e, quindi, di permettere la maternità agli (ex)uomini chirurgicamente rettificati in donne?
Difficile offrire una risposta univoca. Certo è che, verosimilmente, i vari Heidegger, Marcuse e Pasolini, difficilmente sarebbero ottimisti. A conclusione, valga una frase di Aldous Huxley (1894-1963), che di manipolazioni e riflessi condizionati aveva indubbia conoscenza, che si trova tra le pagine di “Ritorno al mondo nuovo” (1958): “Solo chi è vigile può serbare le proprie libertà”. Sperando che i “vigili” siano in molti e non in pochi.