
Caino e Abele
Un contributo del prof Antonio Binni
Gran Maestro Emerito della G.L.D.I.
La storia dell’uomo, secondo la Torah, ha inizio con un fratricidio.“Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise“ (Gen. 4,9). Un gesto così mostruoso e tanto abnorme merita per certo una approfondita riflessione. Anche perché, come è del tutto evidente, un accaduto così traumatico investe lo stesso problema della fratellanza e del suo fondamento. Un’analisi attenta dell’argomento così coinvolgente sembra dunque imporsi.
In limine sia permessa una epitome, per quanto succinta, della storia. Non inutile, tuttavia, perché, sebbene a tutti nota, qui viene invece riproposta da un angolo prospettico del tutto diverso. L’indagine viene infatti sviluppata da un profilo rigorosamente personale, intimo, del suo protagonista. Impostazione che, se non andiamo errati, ha il pregio di mettere in luce aspetti tutt’altro che marginali del racconto.
Caino è il primo nato dei nostri progenitori Adamo e Eva. Questa primogenitura gli permette di godere di un trattamento del tutto privilegiato stante il significato simbolico che, in quel mondo, veniva riconosciuto alla primogenitura.
La nascita del secondo genito Abele, agli occhi di Caino, segna pertanto l’ingresso di un intruso, causa di uno spodestamento traumatico e di una conseguente sottrazione di prestigio. In estrema sintesi, un ostacolo al suo volere essere il solo e l’unico: immagine grandiosamente ideale di se stesso, che permette di cogliere, sotto la maschera di Caino, il volto nascosto di Narciso.
Nella vicenda assume poi un significato per certo non di poco conto la perdita di godimento sul piano affettivo che subisce Caino con la nascita del fratello di sangue. Per Eva, il figlio ideale, non è infatti Abele, ma Caino, sua proprietà esclusiva, con il quale intrattiene una relazione fusionale, fino al punto – come afferma inequivocabilmente il testo biblico – di diventare l’uomo di sua madre. L’odio che nasce fra Caino e Abele non è, dunque, solo un odio nei confronti di chi, con la sua sola presenza, gli deruba la sua immagine ideale, ma soprattutto un odio verso un rivale. Odio che si alimenta di continuo senza esaurirsi mai. Anche perché sorretto dall’invidia, fino a tramutarsi in violenza,“ via breve” – come direbbe Freud – per liberarsi dell’impostore. Violenza che diventa poi reale e concreta quando Caino sbatte contro lo spigolo del giudizio di Dio che, ai suoi, preferisce i doni del fratello. Per una ragione, peraltro, rimasta ignota. La mano di Caino si alza infatti su Abele solo dopo che il Signore ha mostrato la sua preferenza.
Dopo un complesso cammino di pentimento e di tormentata assunzione di responsabilità della colpa, Caino diventa costruttore di città. Senza, tuttavia, che, sullo sfondo, rimanga l’amaro ricordo dell’accaduto! Quasi che, per costruire una città, ossia una comunanza di vita, sia indispensabile una previa violenza fratricida! Sul punto, la storia di Romolo e Remo… docet!
Gli insegnamenti che possono trarsi da questa vicenda, sommariamente ricostruita, sono invero molteplici e, in verità, tutti importanti. Ci limitiamo ad indicarne alcuni, quelli che, nella problematica che ci occupa, paiono invero come i più significativi. A fini espositivi li indichiamo in termini schematici.
La prima lezione impartita dal Dio biblico è la singolarità della creatura e la sua ferma, strenua, continua difesa, nonostante la irriducibile molteplicità della vita. L’uomo è un essere unico nella sua differenza. Essere unico, contrariamente a quanto creduto da Caino, non significa però avere un valore assoluto. Qualunque essere umano ne è infatti dotato per il fatto stesso di esistere.
In secundis. La Torah, non sostiene il mito dell’uomo nato naturalmente “buono“. All’opposto insegna che l’odio ha una natura originaria e che, dunque, l’odio precede l’amore. Ne discende che parimenti originaria è la violenza che nasce dall’odio. La potenza distruttiva dell’uomo, con tutto il suo carico di morte, emerge così fino dall’origine come una disposizione fondamentale, come una inclinazione primaria spinta a uccidere e sopprimere il rivale: homo homini lupus, come ha sostenuto Hobbes, ripreso poi da Freud (ne Il disagio della civiltà) che ha fatto sua questa lezione!
Il testo biblico – questo è sicuramente l’insegnamento più significativo ai fini della nostra riflessione – denuncia poi, come verità fondamentale, che il sangue non è né la sostanza, né il fondamento della fratellanza. Quanto dire, in altre parole, che non esiste una fratellanza biologica, né una fratellanza naturale. Che semmai, – è vero, invece, altra lezione biblica – che il sangue accende gli animi, rinfocolando la portata e la violenza dello scontro.
Sulla scorta di quest’ultimo insegnamento – come detto ai nostri fini di rilevanza centrale – sorge allora il problema se non sia possibile inaugurare – e poi consolidare – in permanenza – un altro tipo di fratellanza che restituisca finalmente all’uomo il senso di una pace ritrovata.
A questo scopo, a nostro sommesso, ma ponderato avviso, la sola e unica soluzione possibile – al fine ricostruttivo perseguito – è quella di capovolgere il presupposto naturalistico per far capo poi ad un ancoraggio diverso. Più precisamente a una visione totalmente antitetica quale è quella per certo di considerare il proprio prossimo non più come un rivale da abbattere, quanto, invece, come una creatura fragile da assistere e curare: semplice alterità che consente all’amore di prendere il posto dell’odio. In quest’ottica, il DUE diventa così un vincolo permanente e inaggirabile e la cura l’effetto di una chiamata che nasce da un imperativo che origina dentro il soggetto, che, tuttavia, lo trascende. È, per dirla con chiarezza, la voce, mai pronunciata, della coscienza: voce fioca che tuttavia non si dà pace fino a quando non avrà ricevuto una risposta che si traduce, poi, in una decisione che si esprime appunto nella cura, ampliamento dell’orizzonte vitale del bisognoso: figura comune stante la fragile natura dell’uomo. Il fondamento dell’”altra” fratellanza, se le nostre considerazioni non sono errate, non può allora conclusivamente non essere colto che in una responsabilità etica della cura. Invero tanto più cogente, quanto più questa assunzione di responsabilità avvenga nei confronti di un prossimo, non di sangue, ma sconosciuto. La “nostra” fratellanza, in quest’ottica, rimane così definita come la condizione della responsabilità etica della cura verso il prossimo come fratello sconosciuto e lontano. L’amore per il prossimo non coincide infatti né per l’uguale, né per il più vicino. L’amore degno di questo nome è infatti quello verso il più lontano. Stando semmai lontano proprio dal più vicino. A voler dare almeno credito a Nietzsche che, come noto, suggeriva appunto “la fuga dal prossimo e l’amore per il remoto” (in Così parlò Zarathustra in Opere Adelphi, Milano, 1979, Vol VI Tomo I, pag 70).
Il Dio della Torah invita l’uomo a vedere nel volto del simile il “volto di Dio“ (Gen. 33,10). Se accogliamo questo insegnamento, mentre rimane definitivamente esclusa ogni possibile rivalità – immaginaria! – si pone invece un saldo fondamento a una nuova fratellanza: preziosa perché instaura con il prossimo, non già un rapporto di morte, quanto invece una relazione generativa.
Il tratto traumatico della violenza distruttiva – per concludere – è superabile solo con l’assunzione di una forte eticità verso l’altro sconosciuto: la sola che può instaurare la nuova fratellanza. Il nostro compito diventa allora quello stesso che ha impegnato e assolto Caino all’indomani del suo gesto spietato: tradurre la violenza della legge dell’odio in un legame autenticamente fraterno che spezzi – finalmente – la ripetizione senza fine dell’odio e della distruzione.
Una precisazione finale che vuole costituire un atto di riguardo nei confronti tanto dello agnostico quanto dell’ateo. A fondamento del nostro argomentare abbiamo posto la Bibbia, non come libro sacro, ma come testo di saggezza che ha illuminato l’Occidente, e non solo.
Scarica in PDF