
Un contributo del Prof. Antonio Binni
Gran Maestro Emerito della G.L.D.I.
Quotidianamente assistiamo a fatti di sangue di una tale mostruosità da lasciarci tutti sgomenti perché assolutamente privi di ogni umanità. Contro questo trionfo della ferinità, a gran voce, dalla comunità tutta, si invoca giustizia: una forma ipocrita del diffuso sentimento di vendetta, ritorno alla legge del taglione, vita per vita, spesso neppure celato. Il che è fonte di preoccupante allarme sociale perché, a dire il vero, le istituzioni non sono totalmente in grado di fronteggiare questo fiume di sangue.
Ci si deve allora realisticamente domandare se, anziché invocare una soluzione insoddisfacente, non sia invece realisticamente giunto il tempo di far capo ad un’altra legge, quella del perdono, in grado di placare gli animi, e della comunità, e di chi è vittima, recuperando così serenità e, soprattutto, antichi valori oggi dimenticati, ma sempre, invece, preziosi. È un’operazione, proprio in questi ultimi anni, ad esempio, in corso con riferimento alle virtù, per diffonderne l’impiego da chi, purtroppo, più non le esercita.
Non abbiamo, ovviamente, la pretesa di imporre il nostro punto di vista. Tanto più che siamo del tutto consapevoli del fatto che la nostra veduta oggi è fermamente osteggiata e perfino dileggiata dal diffuso sentire comune. Se tuttavia le nostre modeste considerazioni, pur tuttavia argomentate a fil di logica, potessero mai contribuire a modificare il preoccupante stato di cose sotto gli occhi di tutti, il nostro sforzo non risulterebbe allora del tutto vano. Con questo spirito affrontiamo la trattazione del tema prescelto.
Il perdono è espressione di un animo nobile. Può però divenire anche uno strumento prezioso di difesa personale in quanto idoneo ad assicurare un minimo di serenità alla vittima, oltre che all’intero Paese. Sicché, se non per generosità, è, quantomeno utile, il ricorso al perdono per stretta utilità.
Questa, al centro di queste note, la nostra modesta proposta di seguito illustrata nei suoi aspetti più salienti e più utili allo scopo perseguito.
Va premesso che, nel mondo greco, il perdono non trova spazio. La forza del destino si impone infatti inesorabile sulla vita, che la piega e la spezza. Come insegna la vicenda esemplare di Edipo.
È vero inoltre che, nel territorio dove ha rinvenuto accoglienza, il perdono risulta legato a molteplici fili, grovigli e intrecci così complessi e stretti da rendere davvero problematico l’approfondimento del tema.
Al fine di cogliere il nucleo essenziale del suo concetto, abbiamo pertanto ritenuto proficuo allo scopo perseguito circoscrivere l’indagine al suo punto centrale. Dalla analisi abbiamo pertanto esclusi i profili principali, iniziando a non considerare il perdono collettivo, per intendersi, ad una intera comunità. Per identico motivo abbiamo poi pretermesso dalla trattazione il concetto del perdono dal profilo delle grandi tradizioni religiose (biblico; cristiano; coranico). Identica sorte – e sempre per la stessa ragione chiarita – abbiamo infine sfrondato l’argomento dalla sua dimensione giuridica legata come è alle diverse legislazioni. Alla luce delle esclusioni effettuate risulta allora evidente la scelta compiuta di limitare così l’analisi del perdono al suo piano strettamente personale come fenomeno cioè unicamente umano, ossia, come atto proprio ed esclusivo dell’uomo in quanto unico titolare del relativo potere. Da qui la dimensione segreta della parola (perdono) di natura performativa perché di immediato effetto una volta pronunciata. Si è voluto in altre parole trattare l’argomento come un tema squisitamente filosofico. Che se poi questa scelta finisse mai per integrare gli estremi dell’azzardo, ci si vorrà allora concedere, quantomeno, che lo svolgimento dell’argomentazione addotta a favore della tesi centrale di quanto scritto è ispirato, guidato e sorretto dalla pura logica, oltre che dalla psicologia più elementare.
Entro il perimetro così tracciato, occorre ora affrontare il concetto del perdono nella sua essenza. Per il che è, innanzitutto, doveroso sgombrare il campo da una inesattezza frutto di un’analisi superficiale. Va infatti preliminarmente chiarito che perdonare il perdonabile, il veniale, lo scusabile, non è perdonare. Perché esista l’autentico perdono deve previamente sussistere l’imperdonabile, quanto dire, altrimenti, ciò che appare come non espiabile. Il perdono è infatti oltre misura perché decostruisce l’equivalenza fra la gravità della azione perdonata e il perdono concesso di gran lunga superiore alla precedente, e in quantità, e in qualità. Da qui la sua natura pura, assoluta, incondizionata, la sua cifra totalmente gratuita perché non risponde alla logica della reciprocità. Questa è la sua potenza sovversiva e la sua cifra asimmetrica proprio perché nessun compenso viene chiesto in contraccambio.
Si vuol dire in estrema sintesi che il perdono non è altro che un dono. Come denuncia la stessa parola (per-dono): un gesto generoso, libero, dotato di forza iperbolica in quanto supera la comune logica umana, che non considera come possibile ciò che comunemente non lo è in quanto privo di senso, non avendo senso perdonare l’imperdonabile! Il che induce ad affermare, con sicurezza, che si può scegliere la via più ardua del perdono solo se si segue una regola diversa, una logica altra: la via dell’amore generoso che è la sola a imprimere uno slancio e, con esso, il superamento di quella mostruosità che è, invece, l’irreparabile, l’indimenticabile.
Il perdono autentico è dunque al di là dell’etica, dimorando in quell’etica iperbolica – quale è la legge dell’amore – che viene rispettata unicamente perché considerata come un comando supremo. Solo seguendo questa logica non logica umana si può allora comprendere il non comprensibile: ossia: come si possa superare l’insuperabile.
In quest’ottica, il perdono finisce così per essere – e per apparire – come la controfirma del male avvenuto non solo nel momento in cui si è verificato, ma pure nel suo perdurare perché il tempo passato non passa né per il colpevole, né per chi concede il perdono. Due solitudini che si fronteggiano con pena comune.
La nostra tesi subordinata – ossia: che il perdono può risolversi in una autodifesa da parte della vittima – se non andiamo errati, rinviene poi puntuali conferme in queste ulteriori considerazioni. Perdonare innanzitutto non vuole dire affatto dimenticare. Non si può infatti perdonare perché si è dimenticato. Al contrario, si può dimenticare solo se si è perdonato. Né significa cancellare la ferita, né negare il trauma dell’offesa. Né vuole assolvere né liberare, meno che mai, dalla espiazione che deve rimanere invece assolutamente ferma. Prescinde inoltre dal pentimento del reo. Il che solleva il donante da un ulteriore greve affanno che inquieta e toglie il sonno. Semmai è vero invece che il perdono può causare pentimento e comunque favorirlo. Senza perdono si permette poi alla colpa di avere un duplice effetto estendendosi l’efficacia del delitto anche su chi sopravvive. Non fanno dunque difetto gli argomenti a sostegno della tesi sostenuta!
A contrasto di questa prospettazione, possono tuttavia avanzarsi due obiezioni per certo non di lieve conto. Si può perdonare anche a chi non chiede il perdono? E il perdono non è immorale perché così si finisce per offendere la vittima?
Chiedere il perdono è possibile. Se concesso, genera riconoscenza. In quanto atto sovrano, perché espressione di un potere esclusivo, non abbisogna però sicuramente di alcuna domanda intesa come condizione preliminare imprescindibile.
Né può avere maggior pregio la seconda eccezione perché il perdono è atto personalissimo di chi lo concede, che, per definizione, avviene dunque a nome proprio. In quanto tale non può pertanto che avere riflessi unicamente su chi lo compie. Il che comporta che il perdono non può mai essere elargito a nome della vittima, perché quest’ultima è totalmente assente dalla scena del perdono
Il tema del perdono dell’imperdonabile, dell’impossibile che diviene possibile, è sicuramente fra quelli di più difficile trattazione implicando innumerevoli profili e sfaccettature. In questa sede sembra tuttavia ugualmente possibile tirare i fili dell’argomentazione nei due approdi di seguito sintetizzati.
Proprio a motivo di questa oggettiva difficoltà, ci siamo prodigati per dimostrare che il perdono è comunque la soluzione meno dolorosa per la vittima che l’ha adottata. Come insegna la realtà, un cuore incapace di perdono – neppure per utilità personale! – è infatti un cuore che non troverà mai pace perché il sentimento della vendetta morde come una bestia feroce. Tutti i giorni e tutte le notti. Per aggiungere ancora che, anziché lasciare defluire la vita nella sua pur dolorosa nuova forma, il rancore vendicativo intossica la vita, per poi inaridirla fino a svuotarla integralmente. Che è un autentico morire in vita! Al postutto: una autentica prigione opprimente.
La vendetta è disarmata dal perdono che, con la sua forza propulsiva, segna un nuovo inizio di vita che riempie la vita: resurrezione della vita che pareva morta.
C’è allora da domandarsi per quale ragione mai sia dunque invece preferibile insterilirsi nella vendetta anziché scegliere la via del perdono, quando, invece, proprio il perdono placa l’animo e restituisce alla vita il suo scorrere, fiume limpido, nella pace finalmente ritrovata.
Immagine di copertina di Giancarlo Guerreri
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