
Mecenate a partire dalla chiesa di San Bernardino di Ivrea (TO)
La chiesa quattrocentesca di San Bernardino in Ivrea, situata nell’area che ospitava gli edifici industriali della Olivetti (in via Jervis), rappresenta un’attrattiva di elevato interesse artistico, in virtù del suo tramezzo interno affrescato con le “Storie della vita e passione di Cristo” da Giovanni Martino Spanzotti, tra il 1485 ed il 1490 circa. La chiesa, nella primitiva struttura, viene edificata tra il settembre del 1455 ed il gennaio del 1457 insieme al convento destinato all’ordine francescano dei frati minori osservanti.
La devozione popolare nei confronti di San Bernardino (che si suppone transitato ad Ivrea nel 1418) convince le autorità ad appoggiare il progetto di costruzione del convento, inaugurato con grandi fasti alla presenza del Vescovo di Ivrea, il nobile Giovanni Parella di San Martino, e del Vicario francescano della provincia di Milano (a quel tempo tutto il Piemonte era parte della provincia religiosa di Milano).
La chiesa viene pensata per i frati del convento, ma il grande afflusso di fedeli dall’esterno, che prendono parte alle celebrazioni, rende ben presto insufficienti gli spazi. Nel 1465 iniziano i lavori di ampliamento, con la costruzione di una navata di accesso al pubblico, divisa dalla chiesa da un tramezzo a tre arcate. I tramezzi affrescati, che ancor oggi si vedono in Piemonte, in Lombardia e nel Canton Ticino, sono dovuti alla committenza dell’Ordine dei Frati Minori Osservanti, impegnati in un programma iconografico che intende dare enfasi alle predicazioni che si tengono nelle chiese, soprattutto durante l’Avvento e la Settimana Santa.
Nel suo saggio sugli affreschi di San Bernardino, Giovanni Testori osserva: «E’ una nobiltà nuova quella che si fonda in questi anni nel Nord dell’Italia e alla quale lo Spanzotti offre questo suo inconfondibile tono: una nobiltà umana, anziché umanistica; il fatto riportato alle sue proporzioni reali e quotidiane, contro il fatto dilatato dall’iperbole dell’ideologia; il profondo del particolare, infine, contro l’esteso dell’universale. Ma reperire per costanza di verità una parola che ha durato e duri nel destino degli uomini, fitta nella loro carne e nel loro cuore, che grande, umana e, diciam pure, meritoria fatica!» (Giovanni Testori, G. Martino Spanzotti – gli affreschi di Ivrea, 1958).
Nel 1466 Amedeo IX di Savoia prende il complesso sotto la sua protezione, che continua anche dopo la sua morte (1472) per merito della vedova, Iolanda di Valois.
La decadenza arriva verso la fine del XVI secolo. Nel Settecento la chiesa e il convento subiscono un ulteriore degrado a causa di occupazioni militari, fino alla conquista napoleonica, con la abolizione delle proprietà ecclesiastiche. La chiesa, ormai sconsacrata, sarà utilizzata per anni come deposito agricolo.
Sarà Camillo Olivetti ad acquistarne la proprietà, nelle immediate vicinanze della fabbrica di macchine per scrivere, nel 1910 e avviare un primo recupero, stabilendovi la sua abitazione, in cui fa rimuovere il soppalco costruito a ridosso della parete spanzottiana. Suo figlio Adriano realizza, tra il 1955 ed il 1958, un più importante progetto di riqualificazione dell’area, destinandola a sede dei servizi sociali e delle attività dopolavoristiche per i dipendenti Olivetti.
Siamo arrivati a Adriano Olivetti, in questa storia. Egli nasce a Ivrea l’11 aprile 1901, figlio del fondatore della prima fabbrica italiana di macchine per scrivere. Da imprenditore illuminato, mette sempre in pratica il concetto secondo cui il profitto di impresa va reinvestito a beneficio della comunità. Ad esempio, nel 1936, a seguito di una produzione eccezionale, concede una settimana in più di ferie a tutti i dipendenti.
Adriano riassume le caratteristiche di un uomo di cultura, di un umanista e di un industriale. Sotto la sua direzione, la Olivetti diventa un modello industriale unico al mondo: l’organizzazione persegue l’obiettivo della felicità dei lavoratori, che genera a sua volta efficienza. Nell’epoca della guerra fredda e della contrapposizione fra il modello capitalista e il comunismo, nella sua azienda si vive un equilibrio tra solidarietà sociale e profitto. La sua morte precoce – avvenuta in Svizzera il 27 febbraio 1960 – sancisce la fine di un sogno industriale e politico.
Non meno che nell’industria, anche nel campo della cultura e dell’editoria Adriano Olivetti svolge un ruolo fondamentale nel secondo dopoguerra. Oltre alle pubblicazioni avviate all’interno della fabbrica eporediese e alla partecipazione alla fondazione del settimanale L’Espresso, sono molte le iniziative a cui prende parte e che sostiene, in modi diversi e senza mai imporre nulla, com’è nel suo carattere. Tra queste si possono ricordare: L’Italia socialista, I Quaderni di Sociologia, Nuova Repubblica, Nuovi Argomenti, Casabella, Europa Federata, Nord-Sud e Comuni d’Europa.
Con la fondazione delle Edizioni di Comunità Adriano imprime un’orma profonda nella cultura italiana. A partire dal 1946, anno in cui vengono costituite, pubblicano in anteprima nazionale opere di autori come Simone Weil, Soren Kierkegaard, Albet Schweitzer, Paul Claudel, Jacques Maritain, Martin Buber, Nikolaj Berdjaev, T.S. Eliot, John Kenneth Galbraith, Joseph Schumpeter (solo per citarne alcuni), e riviste che hanno segnato, per i loro contenuti, un’epoca.
Adriano Olivetti, tra le sue tante attività, è anche un prolifico scrittore. Tra i suoi testi, frutto di una poliedrica personalità umanistica, sono ancora reperibili Città dell’uomo, Ai lavoratori, Le fabbriche di bene, Democrazia senza partiti, Il cammino delle comunità, Noi sogniamo il silenzio.
Questo è un altro aspetto della sua eredità umana e culturale.
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