Il dossieraggio che ricorda l’attività del Tribunale dell’Inquisizione
Gli scandalosi fatti relativi al dossieraggio che in questi giorni colma i media, ci fa pensare a quel metodo di controllo subdolo tipico di governance di cui è segnata la storia. Personalmente mi ricorda l’attività del Tribunale dell’Inquisizione nelle sue fasi evolutive più articolate che la portarono alla formazione del Sant’Uffizio.
Nello specifico riaffiora – se pur con altri metodi – l’attività dell’Inquisizione veneziana e alla sua presa di posizione nei confronti dei libri proibiti: presa di posizione determinata dalla particolarissima situazione della città lagunare all’interno del mondo editoriale dell’epoca. Infatti, nel XVI secolo, Venezia contava un elevato numero di tipografi, circa il quaranta per cento dei quelli attivi in Italia.
Nel maggio del 1549 vide infatti la luce il Catalogo di diverse opere, compositioni et libri, li quali come eretici, sospetti, impii et scandalosi si dichiarano dannati et prohibiti in questa inclita città di Vinegia, che riprendeva le leggi veneziane di alcuni anni prima sulla censura della stampa, orientandola però anche in direzione di quei libri che fossero ritenuti “contro la fede catholica”.
L’iniziativa repressiva ebbe un peso non solo di carattere ideologico, ma anche finanziario su una grande quantità di editori e di conseguenza sull’indotto. L’effetto di una possibile crisi economica di un settore rilevante per la comunità lagunare, determinò una frattura all’interno del Tribunale veneziano, prodotta soprattutto dal fronte laico, evidentemente allarmato dalle possibili ripercussioni sul mercato editoriale.
Editori e librai, ai quali fu imposto di prendere visione del catalogo dei libri proibiti, cercarono di ottenere delle proroghe, ma l’Inquisizione veneziana, condizionata dalla sua componente costituita da religiosi, fu piuttosto intransigente, comminando pene che prevedevano anche l’accusa di eresia e il carcere.
Alla detenzione potevano aggiungersi pene accessorie, costituite dall’obbligo di ritrattazione attraverso opere editoriali ad hoc. Tra l’altro, l’atteggiamento repressivo dell’Indice ebbe come effetto una più selettiva scelta delle tematiche da parte degli editori, che virarono in direzione dei libri religiosi allineati all’ortodossia cattolica, con conseguente impoverimento della proposta culturale.
L’iniziativa veneziana naturalmente fu solo un aspetto della presa di posizione dell’Inquisizione nei confronti delle opere a stampa considerate pericolose per l’ortodossia cattolica. Infatti, il controllo delle pubblicazioni ebbe la sua espressione più vivida e universale in seno alla chiesa romana con l’Indice dei libri proibiti.
Se in principio l’attenzione della Chiesa romana era rivolto principalmente ai testi teologici di ispirazione protestante, a partire dalle disposizioni di Paolo IV, l’Inquisizione iniziò a occuparsi della letteratura, con particolare rigidità nei confronti di quella ritenuta licenziosa.
Non dobbiamo dimenticare che dalla fine del XV secolo, si registrarono “purificazioni” pubbliche, ordinate dai predicatori, che provvedevano falò pubblici sui quali erano bruciati profumi, belletti, carte da gioco, dadi e libri ritenuti pericolosi per la dottrina cristiana. I “bruciamenti della vanità” travolsero, per esempio, il Decamerone di Giovanni Boccaccio (1313-1375) e il Morgante maggiore di Luigi Pulci (1432-1484).
In principio erano le università a pubblicare gli elenchi delle letture vietate, poi fu appunto la volta dell’autorità ecclesiastica. I primi esempi di interventi ecclesiastici in tal senso si registrarono con la bolla Inter multiplices (1487) di Innocenzo VIII, che prescrisse l’esame dei libri da pubblicare a cui, se idonei, assegnare l’imprimatur.
L’incipit può essere indicato nell’opera dell’arcivescovo Giovanni Della Casa (1503-1556) – l’autore del Galateo – a produrre il primo elenco di libri da togliere dalla circolazione. Poi, nel 1558, durante il Concilio di Trento (1545-1563), Paolo IV pubblicò la prima versione ufficiale dell’Indice dei libri proibiti, anche per dare una risposta agli allarmi lanciati dagli ecclesiastici.
I padri conciliari tridentini verbalizzarono che: “Il numero dei libri sospetti e pericolosi, nei quali si contiene una dottrina impura, da essi diffusa in lungo e in largo, è troppo cresciuto”.
Questo primo indice – detto “Paolino” – raccoglieva l’elenco delle opere di autori indicati come eretici e quindi da vietare, poiché le loro idee potevano allontanare i lettori dalla fede cattolica.
L’elenco prese forma sulle linee guida di una speciale sezione dell’Inquisizione denominata “Censura librorum”; ma fu in occasione dell’ultima sessione del Concilio tridentino che si stabilì la necessità di organizzare capillarmente l’Indice, a cui avrebbe fatto capo un apposito settore di inquisitori.
Toccò poi a Pio V dare vita, nel 1571, alla Sacra Congregazione dell’Indice dei libri proibiti e il suo successore, Gregorio XIII, ne accentuò le peculiarità con la bolla Ut pestiferarum opinionum (1572).
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