Un contributo di Roberto D’Amico
Quando si parla di monumenti megalitici tutti pensano subito a Irlanda, Scozia, Inghilterra, Bretagna e non si immaginano neppure che anche in Italia pietre erette (“menhir”), tombe a camera (“dolmen”) e cerchi di pietre (“cromlech”) erano un tempo massicciamente presenti da nord a sud, isole comprese.
Il fenomeno del megalitismo nel Neolitico coinvolse, infatti, in egual modo tutta l’Europa e quei monumenti conservarono per millenni il loro potere sacro presso le popolazioni locali. Poi, la Chiesa, con i Concili di Arles, 452 d.C., e di Tours, 567 d.C., ne decretò la fine, ordinando la distruzione di tutte le pietre oggetto di venerazione con ogni mezzo possibile “spezzandole, sotterrandole o gettandole in profondi burroni“.
Sovrani come Childeberto, Chilperico e Carlo Magno furono solerti nell’imporre agli abitanti delle campagne di abbattere tutti i simulacri di pietra e le pietre grezze ai quali si volgeva un qualche tipo di culto. In ogni parte d’Europa un enorme numero di antichi megaliti venne così distrutto.
Non furono risparmiati neppure alcuni dei giganteschi massi del monumentale cerchio di Avebury, in Inghilterra, che vennero abbattuti, posti sopra grandi fuochi, cosparsi d’acqua fredda in modo da farli frantumare e, infine, ridotti a pezzi, riutilizzati come materiale da costruzione o sepolti.
L’azione di distruzione venne condotta in modo particolarmente sistematico e capillare in Italia, dove la presenza della Chiesa era più permeante.
Una costante opera di occultamento e di voluta messa in oblio di quelle opere antiche è tuttavia continuata praticamente, in modo più velato, dal Medioevo sino ad oggi. Se alcuni di quei monumenti sono riusciti a sfuggire al rigore dei Capitolari ciò fu dovuto all’inaccessibilità o all’isolamento dei reperti o, più spesso, alla devozione popolare che la gente aveva nei loro confronti che costrinse la Chiesa a conservarli “cristianizzandoli”, incidendovi o sovrapponendovi delle croci. Tanto per fare un esempio vicino a noi, fu questo il caso del masso situato davanti all’Abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, all’imbocco della Val di Susa.
Anche in Piemonte, ogni valle, ogni altura era costellata da pietre sacre, la maggior parte delle quali sono andate perse. I grandi massi con incisioni coppelliformi sono sopravvissuti in maggior numero perché difficili da asportare dal terreno e vennero per lo più dissacrati associandoli a culti pagani, sabba, demonio, masche, ma per le pietre erette la distruzione fu quasi totale
A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, tuttavia, grazie all’opera di tanti volenterosi ricercatori privati, archeologi che ebbero il coraggio di rompere tabù culturali e amministrazioni locali più libere e moderne, la storia che la Chiesa aveva cercato in ogni modo di cancellare è iniziata nuovamente a riaffiorare, anche se i danni compiuti sono stati in molti casi irreparabili.
Grazie al cambiamento radicale del panorama storiografico e culturale e ad una rinata coscienza delle proprie origini, la storia e le opere delle prime popolazioni che avevano abitato la nostra regione ha trovato nuova vita. Si è così visto crescere il generale riconoscimento dell’importanza che il retaggio del lontano periodo delle pietre erette ha avuto per la nostra terra.
È stato un movimento iniziato in modo lento, ma che gradualmente è divenuto sempre più diffuso, vigoroso e inarrestabile. L’eredità celtica e preceltica, che anche solo negli anni ’70 era considerata del tutto marginale, se non addirittura vista con sospetto e derisa, è stata finalmente considerata come uno degli elementi fondamentali delle nostre radici e oggi non vi è libro che non ne parli o archeologo che non la citi.
La follia iconoclasta che aveva segnato il destino delle grandi pietre innalzate dai nostri antichi progenitori è giunta al suo termine! I menhir piemontesi hanno iniziato ad essere individuati, dissotterrati e rialzati con crescente orgoglio per quel nostro passato.
Uno dei primi menhir ad essere segnalato nel 1975 dal Gruppo Archeologico Canavesano fu quello di Lugnacco. Fungeva da soglia d’ingresso al piccolo cimitero antistante la Pieve romanica della Purificazione di Maria. La pietra misura 3,84 metri di altezza, 120 cm di circonferenza alla base e 110 cm nella parte superiore e pesa circa 1,5 tonnellate. La sua storia è emblematica. Le fratture alla base e al vertice e la cospicua quantità di parti asportate sono una chiara indicazione che essa venne abbattuta in modo cruento. Due incisioni a cuneo medievali mostrano almeno due tentativi per spezzarla e distruggerla in modo definitivo che evidentemente fallirono e così si decise nasconderla
È un bel reperto e la si trova ora eretta accanto al luogo dove fu ritrovata.
Un altro megalite venne individuato nel 1988 a Mazzè, sempre in provincia di Torino. Durante alcuni lavori di sistemazione del bacino artificiale della Dora, a monte della diga, un grande blocco di forma allungata completamente sommerso dall’acqua fu casualmente scoperto, nella struttura realizzata nel 1921 allo scopo di contenere l’erosione delle sponde. La Soprintendenza Archeologica del Piemonte lo giudicò autentico e così il grande monolite, lungo 4,2 metri, con una circonferenza alla base di 2 metri e alla sommità di circa 1 ed un peso che supera le due tonnellate e mezzo, è stato recuperato, studiato e, infine, collocato in una degna sistemazione in un’area dedicata, anche se fuori dal suo contesto originale. Segni ancora visibili a circa 40 cm dalla base permettono di definire l’originario piano di interramento della stele. Presenta tracce evidenti non solo di una bocciardatura, ma anche di una levigatura abbastanza accurata. Si pensa che fosse originariamente posizionato sull’altura prospiciente la Dora nota come “Bicocca” e che, riconosciuto come simbolo pagano, venne intenzionalmente abbattuto, trascinato e fatto rotolare fino al fiume.
Nel 1992, a Chivasso, un altro menhir, denominato popolarmente “Lapis Longus”, venne dichiarato reperto d’interesse archeologico dalla Soprintendenza e, grazie all’Amministrazione Comunale, sottoposto a restauro dopo ben 500 anni dalla sua riscoperta! Ritrovato durante i lavori di ristrutturazione della Piazza del Castello, nei pressi della Chiesa di S. Michele, nel 1499, l’antico oggetto di culto venne allora declassato a “berlina” e i debitori insolventi erano costretti per dileggio a battervi sopra le natiche nude. Verso la fine del XVII secolo la pietra venne appoggiata ad un muro della piazza, nel 1798, i Francesi la spostarono alla periferia occidentale di Chivasso e nei primi del ‘900 venne trasformata in panchina!
Dopo tutte queste ignobili vicissitudini, l’antico menhir ha ora finalmente trovato un suo posto d’onore nella piazza d’Armi e si erge imponente protetto da una gabbia trasparente. Anch’esso in pietra gneiss, è alto 4 metri e pesa circa 1,5 tonnellate e sulla sua faccia anteriore sono visibili grosse “coppelle”, delle quali forse solo una originale.
A Cavaglià, in provincia di Biella, nel 2004, accanto al parcheggio della piazza adibita a mercato, furono riconosciuti seminascosti tra rovi e vegetazione selvatica 11 monoliti, dei quali uno ancora in posizione verticale. Tra gli anni ’70 e ’80, per consentire i lavori di costruzioni delle case, quelle pietre, rimaste nell’oblio per millenni, vennero spostate dalla loro posizione originaria e ammassate poco lontano. Lì sono rimaste fino al 2005 quando, grazie al lavoro dello studioso torinese Luca Lenzi, e di alcune associazioni locali, tra cui Anticaquercia di Biella e il Gruppo Archeologico Canavesano, i menhir sono stati rimessi, anche se non esattamente nel luogo originario né nella posizione esatta, a formare un grande “cromlech” in prossimità della rotonda della statale Santhià – Biella.
Grazie al ritrovamento di calcare nelle coppelle degli stessi monoliti, la Sovrintendenza di Torino è riuscita a datarli al 4.000/5.000 a. C.. La visita a questo cromlech è particolarmente suggestiva.
Un altro cerchio di pietre, ancora in posizione originale, si trova in valle di Lanzo nella Frazione Tomà di Martassina, a poche centinaia di metri dalla SP1.
La vista dall’alto su Google Maps sembra evidenziare la disposizione dei massi in un “cromlech” di forma ellittica (asse maggiore di circa 40 metri e asse minore di 15 metri, con orientazione dell’asse principale Est-Ovest) con al centro una delle pietre più grandi. In realtà, è difficile immaginare di poter risalire alla sua forma originaria dato le modifiche e le asportazioni che potrebbe aver subito nel tempo. Anche camminandoci in mezzo è, per altro, evidente che si tratta di un grande complesso di forma vagamente ovale, formato da una quindicina di massi disposti su un pendio che scende verso il torrente.
Non un cartello, non una segnalazione di qualsiasi tipo. È evidente la volontà di nasconderlo al pubblico, di cancellarne la memoria. Sarà forse per la presenza del Santuario di Nostra Signora di Lourdes che, guarda caso, è stato costruito direttamente a monte del sito “pagano”, a non più di 200 metri in linea d’aria, quasi a dominarlo? Qualche dubbio, memori della storia passata, viene…
Ben segnalato e ottimamente conservato è, invece, l’impressionante Menhir dell’Airette, poco sopra il paese di Fè, sempre nelle Valli di Lanzo. Si tratta di un gigantesco e massiccio monolite di 4,4 metri di altezza. La sua messa in opera da parte dell’uomo è stata provata dal rinvenimento nel cavo di fondazione di schegge della vicina pietraia e ciottoli raccolti nel letto della Stura.
Potrei continuare a lungo, ricordando, ad esempio, il cromlech dell’“Area Megalitica di Cima Castiglione” sul Monte Ciabergia, non lontano da Colle Braida, a breve distanza dalla celebre Sacra di San Michele, i megaliti di Monte Pietraborga, sopra Trana, quelli di Briaglia, nelle Langhe, il menhir di Rivara, nel Canavese, e molti altri ancora ubicati in luoghi di montagna più difficilmente raggiungibili. Credo, però, di essere riuscito in modo sufficiente a dare un’idea di quanto quelle antiche pietre fossero diffuse anche da noi. Invito chi fosse interessato ad approfondire l’argomento a visitare il mio blog “Mondo dell’Insolito” (https://mondodellinsolito.blogspot.com) dove potrà trovare i resoconti delle visite a vari siti megalitici piemontesi e non solo.
Sono fiducioso che, grazie al cresciuto interesse, anche turistico, molte altre pietre verranno presto riscoperte e nuovamente innalzate a puntare il cielo, tornando ad essere quell’asse d’unione simbolico tra Terra e Cielo che rappresentavano un tempo.