
Di Achille Maria Giachino

Come già testimoniato dalla Scuola Medica Salernitana nel secolo XII, il distillato di vino, prima ancora di essere utilizzato come bevanda voluttuaria, ebbe un uso medicinale.
La distillazione si fa convenzionalmente risalire al 1148 con la traduzione latina di un testo alchemico arabo il “Morienus”, ma ciò che usciva dagli alambicchi dell’epoca era un alcool molto impuro; pur tuttavia i medici dell’epoca lo utilizzarono per uso esterno come rimedio miracoloso per ogni tipo di cancrena e di infezione a carico dell’organismo. Bisogna arrivare alla metà del Duecento per trovare uno dei primi testi sull’arte della distillazione “Consilia ad faciendam aquam vitae, quae alio nomine dicitur ardens”, ad opera di Taddeo Alderotti, professore di medicina e alchimia a Bologna.
Con il passare degli anni si cominciò a usare l’aqua ardens anche per via orale e non sempre con moderazione, tanto che il Capitolo Provinciale dei Domenicani tenutosi a Rimini nel 1288 si vide costretto a vietare categoricamente ai confratelli la produzione di aqua vitae ordinando la distruzione degli alambicchi.
Fino al 1600 circa, quando gli olandesi apportarono migliorie all’alambicco e ai processi di distillazione, lo spirito di vino era di sapore alquanto disgustoso per la presenza di esteri e alcoli superiori, il che lo vedeva confinato agli usi del popolino. L’aqua perfecta, ossia uno spirito rettificato insapore, era riservato invece alla classe agiata che poteva acquistarlo a caro prezzo e berlo addizionandolo “cum zuccaro et spetie”. Ben presto, grazie all’arte degli aromatari e degli speziali, nacquero i liquori e l’uso degli spiriti aromatizzati divenne molto popolare tra coloro che potevano permettersi questi lussi.
Per quanto il distillato di vino fosse consumato per uso voluttuario, non di meno al brandy o cognac, come era alternativamente chiamato, si attribuirono anche alcune virtù medicinali tanto da essere utilizzato in tutte le forme di malattie “pettorali” quali raffreddore, influenza, bronchite, febbre. Tale retaggio culturale è ancora presente oggi nell’uso del “latte e cognac” per curare in modo empirico tali patologie. L’acquavite fu anche utilizzata come sonnifero, come analettico cardio-circolatorio, in caso di ipotermia, di tifo, per stimolare l’appetito e per favorire la digestione.
All’inizio del Novecento lo “Spiritus Vini Gallici” entrò ufficialmente nelle farmacopee di molti paesi per rimanervi fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per poter essere usato come farmaco necessitava però di essere preparato con requisiti ben precisi: doveva possedere un titolo alcolico non inferiore a 40°, non poteva contenere zuccheri, caramello, estratti di legno e doveva rispondere a specifici dettami di purezza. Conseguenza di ciò fu la messa in commercio di “cognac medicinali” da parte di numerose ditte produttrici di liquori; in Italia si distinsero particolarmente la Stock di Trieste e la Fratelli Branca di Milano.
Negli Stati Uniti, durante gli anni del proibizionismo (1920-1933), per effetto della sua collocazione tra i “farmaci”, il cognac fu, insieme al bourbon whiskey, tra i pochi alcolici legalmente disponibili, venduti dietro presentazione di ricetta medica ed esclusivamente in farmacia. Naturalmente il numero degli ammalati aumentò considerevolmente, ma la produzione del “medicinale” permise a parecchie ditte di salvarsi dal fallimento.
Ancora oggi si dibatte sulle proprietà medicinali di questo distillato: un recente studio ha dimostrato che il miglioramento dell’attività coronarica indotta dal cognac è nulla, mentre invece si è riscontrata una efficace azione antiossidante grazie ai polifenoli disciolti nell’alcool.
Bevi responsabilmente…
Achille Maria Giachino