E la sinistra si mette di traverso
L’Italia sta correndo veloce verso alcune grandi riforme istituzionali volute dal governo di centro-destra (o destra-centro, ma non fa troppa differenza) che -se giungeranno alla fine del percorso- trasformeranno radicalmente il nostro paese.
La sinistra, esclusa da questo processo riformatore, ha dato di testa e smania menando pugni a chiunque gli capiti a tiro, purché appartenente al campo avversario.
Intendiamoci, in un contesto democratico la minoranza ha tutto il diritto di opporsi alle decisioni della maggioranza, anche con forza e veemenza, ma ci sono almeno due limiti: quello della ragione e quello del buon gusto.
Ed entrambi sono stati superati dai Bella Ciao che, da molti mesi, sembrano affetti da una psicosi comunicativa sopra le righe che li porta a esasperare sempre e comunque i toni polemici, ad inventarsi apocalissi inesistenti, a mobilitare le loro masse (si fa per dire) in piazze esagitate dove dominano slogan senza senso e la più assoluta irrazionalità populista.
Lasciamo stare l’antifascismo psichiatrico che ormai richiederebbe cure mediche adeguate più che una qualunque attenzione politica, e soffermiamoci sull’indubbia capacità della sinistra di creare formule propagandistiche tanto efficaci sulle anime semplici quanto prive di contenuto per chi abbia mantenuto una qualche residua capacità critica.
E’ dal lontano 1953, dai tempi cioè della cosiddetta “legge truffa” -una normalissima legge elettorale maggioritaria proposta da un pericoloso autocrate di nome De Gasperi- che la sinistra confeziona espressioni immaginifiche e vuote per colpire, sia sotto il profilo comunicativo che sotto quello politico, le proposte e le scelte degli avversari; probabilmente perché il suo elettorato, non sempre avveduto sotto il profilo culturale, ha bisogno di bandiere gonfiate dal vento della polemica ideologica per motivarsi, organizzarsi e mobilitarsi.
Su questo sostrato propagandistico essa innesta poi le opinioni e le argomentazioni dei tecnici di area, degli intellettuali a noleggio, che danno alla visceralità populista una qualche forma di rispettabilità concettuale.
Così è successo in questi ultimi tempi con le riforme portate avanti dal governo Meloni.
Il triplice schema, molto semplicistico, è il seguente. Primo: premierato uguale a “uomo (o donna) solo al comando” e “sfregio alla Costituzione”. Secondo: autonomia regionale differenziata uguale a “spaccatura del Paese”. Terzo: riforma della magistratura uguale ad “asservimento dei giudici al governo”.
Tre perfette sciocchezze per gente di bocca buona e di modesta cultura giuridica. E stupisce che tanta rozzezza argomentativa provenga proprio da quella sinistra che della superiorità culturale ha fatto da sempre la sua sventolante bandiera.
Probabilmente la sua cacciata dalla stanza dei bottoni avvenuta nel settembre 2022 ha prodotto da quelle parti un significativo abbassamento del livello di razionalità e di capacità dialogica che, a sua volta, ha generato quella disforia comportamentale di cui Schlein e Conte sono i più esagitati, ma non soli, rappresentanti con le loro affermazioni sempre eccessive, sempre aggressive, sempre senza contenuto; portatori di un “vergognismo” perenne dove tutti devono sempre fare ammenda di cose moralmente e politicamente sporche. Tutti meno loro.
E ciò fa presagire un inasprimento della polemica e dell’aggressione che i Bella Ciao metteranno in campo nell’immediato futuro per impedire che avvenga ogni possibile cambiamento nella nazione, per contrastare riforme che mettano in forse i loro privilegi, le loro ossessioni e le loro consolidate abitudini; e tutto questo si esalterà soprattutto nel momento finale della verità, cioè il momento dei probabili referendum, in cui sarà lecito aspettarsi di tutto da parte dei poteri forti e fortissimi, nazionali e sovranazionali, che non vogliono alcun cambiamento. Sarà un inferno comunicativo e propagandistico di proporzioni enormi, un diluvio di fake news di cui quelle attuali sono solo un insipido assaggio.
La stessa e ricorrente espressione, tanto cara alla sinistra, secondo cui le riforme in questione vengono attuate “a colpi di maggioranza” dimostra sostanzialmente due cose: innanzitutto che quella parte politica non ha ancora assimilato il principio cardine della democrazia parlamentare dove alla maggioranza spetta il compito evidente di votare e attuare le sue decisioni, cioè governare, e alla minoranza quello di criticarle, ma non necessariamente quello di parteciparvi perché altrimenti si cade in una cosa antipatica chiamata consociativismo.
La seconda consiste nel suo evidente, persistente e doloroso sentimento di esclusione dal potere, la frustrazione di chi da molto tempo era abituato a gestirlo in pieno e oggi ne è privo. In psichiatria si chiama stress post-traumatico o, se preferite, mancata elaborazione del lutto.
Ma andiamo con ordine. La proposta di premierato avanzata dal centrodestra rientra in una normalissima dialettica politica e, soprattutto, perfettamente collocata nell’ortodossia costituzionale prevista e regolata dall’articolo 138 della nostra Carta.
Ritenere che una regolare modifica costituzionale, attuata secondo quanto espressamente e liberamente previsto dai Padri costituenti, sia un attentato alla Costituzione stessa è un cortocircuito logico che rasenta il nonsenso.
Si può ovviamente pensare che la riforma del premierato sia fuori da quanto previsto a suo tempo da quei Padri i quali, reduci dall’esperienza autoritaria del Fascismo, vollero un sistema parlamentare puro che indebolisse l’esecutivo e ogni sua ipotetica velleità di supremazia.
Ma la loro stessa saggezza previde che quel sistema potesse essere modificato con la procedura di revisione, proprio quella procedura che oggi si sta utilizzando per far sì che quell’assetto istituzionale, risalente a quasi ottant’anni fa, non resti un totem immodificabile o un inviolabile tabernacolo ideologico piuttosto che un normale ed efficace strumento a disposizione di una moderna democrazia evolutiva.
Ritenere poi che un capo di governo eletto da un popolo sovrano, e assistito da una sicura maggioranza parlamentare che gli permetta di governare proprio quel popolo da cui è stato scelto, sia uno sfregio alla democrazia è cosa che appartiene al mondo onirico e non certo alla razionalità politica.
Secondo punto. Appare veramente assurdo che la riforma riguardante l’autonomia regionale differenziata, prevista esplicitamente dall’articolo 116 della Costituzione tramite la legge costituzionale n. 3 del 2001, legge approvata serenamente e pacificamente dalla sinistra di allora, venga oggi dalla stessa sinistra contestata come “spacca-Italia”, qualunque cosa questa torva espressione voglia significare.
E’ ovvio che le regioni del Sud (e qui si distingue, come sempre, il noto cabarettista partenopeo Vincenzo De Luca) siano contrarie a una riforma che ribalta su di loro la responsabilità di nuove scelte politiche, amministrative, economiche non facili ma in grado di dare slancio al loro progresso rinunciando al comodo assistenzialismo che da anni le culla, nell’inedia delle loro classi dirigenti, mentre invece le grandi regioni del nord la vedono come una reale e forte occasione di crescita. E naturalmente la sinistra, con la sua demagogica narrazione della riforma “spacca-Italia”, si schiera ancora una volta dalla parte del peggio.
Non andiamo ancora a toccare la riforma della magistratura, perché non è così incombente ma sicuramente verrà il momento di parlarne perché, con le altre due, completa il quadro di una volontà riformatrice complessiva che nessun governo, prima di quello attuale, ha mai messo in campo.
E si sa che le riforme, quelle vere, vanno sempre a scardinare gli assetti di potere consolidati, che si tratti di un parlamentarismo consociativo e partitocratico oppure di un regionalismo ritardatario e inefficiente o, ancora, di un mondo giudiziario che da tempo ormai aggredisce con insistenza il potere politico (il caso Toti sta assumendo dimensioni sempre più inquietanti) senza che nessuno si ponga il problema di una reale separazione dei poteri.
Un problema, quest’ultimo, che sembra assolutamente inesistente sia per il presidente del Consiglio superiore della magistratura sia per chi dovrebbe essere il supremo garante dell’equilibrio tra i poteri costituzionalmente definiti.
Che, per caso, siano la stessa persona?
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