Tensioni e conflitti in un pianeta alla ricerca di pace1-Taiwan.jpeg
Già in precedenti occasioni ci siamo soffermati sui conflitti che stanno caratterizzando un mondo che, da alcuni lustri, è diventato sempre più multipolare. Gli ultimi giorni dell’anno appena trascorso e questo primo scampolo del nuovo confermano le nostre preoccupazioni.
Nel discorso tenuto il 31 dicembre, il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping, dopo aver riferito di una maggiore dinamicità e resilienza dell’economia cinese, ha tuonato un bellicoso: “La Cina sarà sicuramente riunificata a Taiwan”, indirizzato nei confronti degli USA che, proprio a Taiwan, nutrono rilevanti interessi economici, principalmente legati alla produzione di microchip.
All’incirca nelle stesse ore, dalla Federazione Russa, a Xi Jinping faceva eco Vladimir Putin, il quale, pur senza direttamente citare la guerra con l’Ucraina, ha voluto mostrare forza e risolutezza, ribadendo come la Russia non sarebbe mai indietreggiata rispetto agli obiettivi che si è data, lasciando così facilmente presagire una prosecuzione ad oltranza del conflitto in Ucraina. Pure in tal caso, i principiali destinatari del messaggio sono stati gli USA e i rispettivi alleati.
L’anno nuovo, poi, si è aperto con il feroce attentato terroristico, avvenuto nella città iraniana di Kerman e che ha colpito una folla di persone che stava commemorando la morte di Qassem Soleimani (generale iraniano ucciso nel gennaio 2020 dagli americani) e che ha provocato la morte di 84 persone, oltre a 284 feriti. L’ISIS parrebbe averne rivendicato la paternità, ma la Repubblica Islamica dell’Iran ha immediatamente accusato Israele e gli USA della strage, inneggiando alla vendetta, con verosimili conseguenze sulla guerra israelo-palestinese.
In merito a quest’ultima, si sono superati i 100 giorni dagli efferati attacchi terroristici dell’7 ottobre, con uno strascico (per il momento) di circa 1.200 morti israeliani, di contro oramai a oltre 23.700 deceduti palestinesi, tra cui 10.000 bambini. La risposta di Israele non ha solo coinvolto la Striscia di Gaza, bensì si è allargata agli stati confinanti, quali il Libano, la Cisgiordania, la Siria e ha coinvolto, oltreché Hamas, anche l’organizzazione paramilitare islamista sciita e antisionista libanese Hezbollah.
Inoltre, le tensioni si sono spostate nel Mar Rosso dove il gruppo armato yemenita denominato Houthi (letteralmente i “Partigiani di Dio”), composto anche in questo caso in prevalenza da sciiti (dunque politicamente legato all’Iran), da diverse settimane ha posto una serie di attacchi militari contro navi battenti bandiera di stati che vengono ritenuti amici degli israeliani e degli USA, tanto che, già lo scorso dicembre, parecchie compagnie avevano sospeso il transito delle loro imbarcazioni nel Mar Rosso, con conseguenti e rilevanti ripercussioni commerciali.
Conseguentemente, durante la notte tra 11 e 12 gennaio (e poi il giorno successivo), aerei USA e della Gran Bretagna hanno attaccato e distrutto basi Houthi, provando morti e feriti, nonché l’immediata e dura reazione della Russia che ha accusato Washington e Londra di “aggressione” al territorio dello Yemen.
Altro tassello di quest’insieme di contrapposizioni è rappresentato dal processo, instaurato presso la Corte penale internazionale che ha sede all’Aja (Paesi Bassi), dove Israele è stato accusato dal Sudafrica di star commettendo a Gaza genocidio nei confronti del popolo palestinese. Naturalmente, l’accusa è stata respinta da Israele che, tra le varie argomentazioni, ha evidenziato come (a suo dire) l’obiettivo reale sarebbe quello d’indebolire Israele sul piano internazionale.
Come andrà a finire la vertenza giudiziale è difficile da dirsi, anche perché la sentenza definitiva arriverà verosimilmente solo a distanza di mesi (in compenso, la Corte potrebbe esprimersi in merito a “misure provvisorie” nell’intento di evitare nuove vittime). Tuttavia, l’immagine della nazione israeliana potrebbe venirne compromessa: da popolo che ha subito la violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, a popolo che – pur ferito da un brutale attacco terroristico – per rappresaglia li viola.
Per non farci mancare nulla, a esasperare le nevrotiche relazioni internazionali di questo periodo, ci hanno pensato le elezioni che si sono svolte a Taiwan. Infatti, con la netta vittoria dell’indipendentista Lai Ching-te, candidato del Partito Democratico Progressista, che ha ottenuto il 40,2% delle preferenze contro il 33,5% dello schieramento vicino alle posizioni di Pechino, i rapporti tra USA e Cina andranno ad irrigidirsi, con il rischio (in ultima istanza) di un ricorso all’utilizzo della forza.
In conclusione, non è facile prevedere come i tasselli di questo complicato risiko andranno a sistemarsi, anche se è probabile che le frizioni possano allargarsi e che nuovi “fronti” vadano ad aprirsi. Un aspetto però ci pare di poter cogliere.
Dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale e l’incubo dell’atomica seguito a Hiroshima e Nagasaki, alla guerra del Vietnam (durata dal 1955 al ‘75 che provocò oltre 3.000.000 di morti), i giovani reagirono con la Beat Generation negli anni ’50 e, nel decennio successivo, con la cultura hippie, meglio nota con il termine “figli dei fiori” che, pur tra tratti utopici ed eccessi, stravaganze e droghe, all’assurdità della guerra opponeva un fermo ideale di pace.
Adesso, invece, a osservare un mondo dai plurimi conflitti e che si sta ulteriormente incendiando, ci sono spettatori inermi e piazze vuote. Rimangono alcuni intellettuali che urlano il proprio dissenso e qualche “preghiera per la pace”, o poco più. Chissà, saremo mica troppo impegnati a far compere nei centri commerciali?