Bellicismo e fanatismo mediatico tra Medio Oriente e Occidente
E’ sempre più difficile, in questi ultimi tempi, ritrovare tracce di razionalità nell’azione e nella narrazione politica dei grandi padroni del mondo o -per usare le parole di un intellettuale come Angelo Tonelli- dei “padroni ciechi del mondo”.
Gli schemi parossistici dell’epoca covidaria e del conflitto russo-ucraino si stanno riproponendo oggi, uguali nell’apparenza e nella struttura, per lo scontro fra Israele e l’estremismo islamico.
Non entriamo naturalmente nelle ragioni prossime e remote di questo scontro: gli storici e gli analisti hanno detto, e stanno dicendo, pressoché tutto su di esse in un crescendo di affermazioni e opinioni talvolta concordanti, talvolta difformi, talvolta decisamente conflittuali, in una cacofonia di accuse, recriminazioni e minacce a cui nulla è ormai possibile aggiungere, e che appaiono spesso miserevoli e vuote dinanzi alle migliaia di morti e alla quantità spaventosa di umana sofferenza che in quelle terre vanno accumulandosi.
Nulla esiste laggiù che non sia una violenta e feroce disumanità assoggettata alla più brutale logica del potere, della sopraffazione, della distruzione. E, aggiungiamo con forza e senza paura di suscitare indignazione, proveniente da tutte le parti in conflitto.
Quello su cui invece vorremmo spendere qualche parola è l’atteggiamento della politica occidentale e dei suoi mezzi di comunicazione che in parte consistente si sono schierati, in maniera acritica e dogmatica, da una sola parte, quella israeliana.
Nessuno mette in dubbio che la nazione ebraica sia stata aggredita brutalmente da un’organizzazione islamista barbara e fanatica, ma da questa ovvia considerazione Israele e gran parte dell’occidente hanno fatto discendere una narrazione propagandistica altrettanto barbara sotto il profilo intellettuale e fanatica sotto quello politico, narrazione peraltro neppure completamente condivisa all’interno della stessa nazione aggredita, cioè Israele, dove cresce sempre di più una decisa opposizione all’intollerante aggressività del governo Netanyahu.
Ma se l’isteria bellicista di quel governo e di una parte della società ebraica può trovare spiegazione nella fragile psicologia di un popolo e di uno stato che da sempre vivono nel terrore dell’annientamento fisico, molto meno comprensibile appare l’atteggiamento di un occidente che, ben lungi da motivazioni etiche, ha trovato in quello scenario geopolitico il pretesto per una sua cinica riaffermazione di potenza materiale e una giustificazione della sua arrogante superiorità mentale e del suo suprematismo culturale, peraltro entrambi assai discutibili.
I governi dell’Occidente -con in testa il mondo anglosassone: gli Stati Uniti che non sembrano voler rinunciare alla loro religiosa missione di guardiani della civiltà e la Gran Bretagna che non sembra voler rinunciare alla sua ormai tramontata vocazione imperiale- hanno ovviamente motivazioni strategiche, economiche, egemoniche fondate su interessi in buona parte inconoscibili dalla gente comune, e probabilmente nebulose anche per gli esperti.
Quello che invece appare palese è l’atteggiamento dei mezzi di comunicazione occidentali che si sono adagiati senza se e senza ma nella culla della visione ufficiale, avallando ogni versione filo-israeliana e respingendo con uno sdegno che sfiora il puro razzismo ogni ragione non solo delle organizzazioni islamiste, ma anche della società palestinese e, infine, dell’intero mondo islamico.
In Italia, giornali e giornalisti di solito ragionevoli ed equilibrati hanno sposato in toto la causa israeliana e ogni notizia da essa proveniente senza minimamente porsi il problema della loro attendibilità, quando è risaputo che la moderna capacità manipolatoria dei professionisti dell’informazione -spesso affidata a vere e proprie società specializzate nella creazione di format propagandistici colmi di immagini strazianti o comunque ad alto impatto emotivo- è elevatissima, veri e propri “stregoni della notizia”, come li ha definiti Marcello Foa.
L’uso soprattutto dei bambini a scopo di propaganda bellica è un grande classico della comunicazione di guerra a partire dal famoso episodio del 1915 -madre (o padre) di tutte le fake news– quando la stampa europea interventista dette la notizia dei soldati tedeschi che tagliavano le mani ai bambini belgi.
Mai come in questi giorni abbiamo visto fotografie e filmati strazianti, certamente veri, ma chiaramente utilizzati in chiave propagandistica.
Abbiamo assistito, soprattutto nei giornali di destra (Libero, Il Giornale, la Verità) all’uso di un linguaggio sconcertante -“assassini”, “tagliagole”, “macellai” e altra truculenta terminologia- che nulla ha a che fare né con l’informazione né col buon gusto.
Giornalisti come Sechi, Porro, Sallusti, Capezzone, Feltri hanno esibito la loro ossessione anti-islamista con toni da stadio, ma anche penne nobili e sussiegose come Mieli, Panebianco, Galli della Loggia hanno provveduto diligentemente ad arruolarsi fra le truppe israeliane (embedded, dicono gli esperti) schierandosi non solo contro l’islam e i suoi fiancheggiatori ma anche contro chi, più prudentemente e saggiamente, poneva qualche dubbio e qualche domanda sulla necessità o anche solo sull’opportunità di schierarsi, magari intavolando un discorso più serio e circostanziato sulle ragioni e sui torti delle parti in conflitto.
Tuttavia anche i “ma” e i “però” venivano espulsi dal dibattito, bollati come posizioni collaborative, cerchiobottiste, pavidamente neutraliste da esorcizzare immediatamente e definitivamente dal discorso, alla faccia di quello che filosofi non proprio insignificanti come Kant e Rawls chiamavano l’esercizio pubblico della ragione.
Non abbiamo mai avuto dubbi sul fatto che l’occidente sia stato e forse sia tuttora, pur con qualche crepa che abbiamo già evidenziato più volte, il luogo di elezione della democrazia, della libertà, del progresso, e che il mondo islamico sia invece fortemente in ritardo sull’affermazione di questi valori, e in alcuni casi decisamente fermo a età non civilizzate, ma questo non può e non deve indurci ad aggredire culturalmente prima e militarmente poi quel mondo, dovendo piuttosto limitarci a impedire che la sua penetrazione nella nostra civiltà, soprattutto attraverso l’immigrazione selvaggia, sconvolga i nostri assetti sociali.
Dobbiamo cioè impedire che lo scontro di civiltà teorizzato già nel 1996 da Samuel Huntington diventi uno “scontro di inciviltà” con tutte le conseguenze terribili che ciò può comportare. Così come dobbiamo superare l’idea di una “democrazia armata”, se non in senso puramente culturale, retaggio della guerra fredda e dell’età reaganiana.
E ancora dobbiamo evitare che Israele diventi per noi quello che non è e non deve essere, e cioè la prosecuzione e la simbologia storica, morale, intellettuale sia del sionismo sia dell’antisemitismo, o anche solo di una sensibilità (o ipersensibilità) radicata in un ebraismo assolutista e narcisista che non tollera di essere criticato o contraddetto, pronto a ritorcersi con veemenza contro ogni presunto nemico, magari riproponendo ogni volta richiami assurdi a un nazismo che non esiste più e a una shoah che nella sua enorme e spaventosa unicità appartiene comunque al passato e non può riproporsi se non in una visione religiosa, apocalittica, irrazionale di un certo ebraismo minoritario, bigotto e politicamente estremista.
Proviamo a ritornare alla ragione, se non in quelle terre disastrate e maledette (o comunque non certo benedette dalle loro rispettive divinità), e probabilmente condannate a dilaniarsi ancora per molto tempo, almeno nelle nostre terre, quelle del civile occidente che tanto celebriamo ma che troppo spesso, quanto meno nell’immaginario comunicativo, trasformiamo ogni giorno nel palcoscenico dei nostri peggiori sentimenti e dei nostri più strampalati ragionamenti.
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