Ancora qualche riflessione su un Papa e un cattolicesimo in transizione
Ho letto con grande interesse l’articolo del 6 febbraio scritto dall’amico Francesco Rossa sull’intervento di Papa Francesco-Bergoglio nella trasmissione di Fabio Fazio su Rai3. Articolo lucido e molto ben argomentato ma che -proprio in virtù di questa lucidità argomentativa- pone in drammatica evidenza alcuni aspetti critici della Chiesa contemporanea, e del papato bergogliano in particolare.
Premetto di essere, parafrasando un’antica definizione di Giuliano Ferrara, un laico “devoto”, uno che è fuori dalla Chiesa, ma lo è con nostalgia ed affetto e ne riconosce il grande apporto culturale alla nostra civiltà, e proprio per questo si rattrista dinnanzi a quella che appare un evidente decadimento di quella grande istituzione.
Questo, che a me appare decadimento, è ben illustrato da Rossa quando giustamente parla di Francesco-Bergoglio, quasi una persona divisa fra due essenze, due mondi, due aspirazioni, uno e bino. Da una parte l’incarnazione di un mondo sacro, dall’altra l’espressione tutta terrestre di una forza che vuole cambiare la storia.
Da un lato, scrive Rossa, la figura di Francesco-Bergoglio “denota una accentuata secolarizzazione del papato”, dall’altro afferma che “Il sacro però ha bisogno di nascondimento per non essere profanato. Ha bisogno di un proprio linguaggio per non essere volgarizzato. Ha bisogno di protezione per non essere degradato”. Affermazioni verissime, ma purtroppo incompatibili.
Francesco-Bergoglio in realtà è solo l’ultimo approdo di una deriva iniziata col Concilio Vaticano II quando Giovanni XXIII, il papa “buono”, avviò quel processo di secolarizzazione di cui dice Rossa, allontanando la Chiesa da una visione trascendente in grado di dare risposte forti alle domande “ultime” dell’uomo, e traghettandola verso una concezione orizzontale che dà risposte solo alle sue domande “penultime”.
E’ vero che, all’epoca, la Chiesa doveva fronteggiare la potenza armata delle grandi ideologie materialiste (socialismo, comunismo, capitalismo), ma lo fece secondo il moderno principio di resilienza, adattandosi a loro, anziché utilizzare quello di resistenza, contrapponendosi cioè frontalmente ad esse sulla scorta di una millenaria visione del mondo e dell’uomo. In sostanza combatté una battaglia mimetizzandosi con le truppe nemiche e scendendo dalla sua alta cittadella fortificata sul campo di battaglia deciso dall’avversario.
Anziché restare nell’antico alveo semantico della parola “religione”, intesa come “riunione” verticale tra uomo e Dio, tra spirito e materia, tra alto e basso, la Chiesa conciliare ha scelto la riunione orizzontale delle coscienze, delle vite umane, delle aspirazioni mondane, delle ideologie contrapposte, delle varie istituzioni della storia umana. L’immagine del prete conciliare che dà le spalle all’altare e guarda al popolo è perfettamente significativa di questa visione.
Non c’è dubbio che il cristianesimo sia una religione in cui la realtà umana è fortissima, forse addirittura predominante, ma non va dimenticato come questa sia la dimensione che è prevalsa per tutta una serie di ragioni storico-sociali ben definite.
Ma è esistito anche un cristianesimo del tutto diverso: spirituale, conoscitivo, elitario, salvifico che emerge dai Vangeli apocrifi e che la storia ha poi confinato in tradizioni sotterranee come lo Gnosticismo. Un cristianesimo però che ha influenzato per secoli e secoli la Chiesa dal di dentro, nell’intimo della sua spiritualità e, soprattutto, nella sua raffinata teologia, nella sua visionaria escatologia, nella sua affascinante liturgia, e anche attraverso una lingua universale come il latino. Un cristianesimo di salvezza attraverso la conoscenza e la spiritualità. Tutto quel che il Concilio ha voluto superare e relegare in un angolo.
La “Chiesa in uscita”, per usare la felice espressione di Rossa, è proprio figlia di tutto ciò. Una Chiesa quasi vergognosa della sua originaria spiritualità, forse anche sinceramente in cerca di comprensione del mondo contemporaneo, forse anche desiderosa di una redenzione della modernità attraverso l’amore fra persone, popoli, nazioni, generazioni, perfino fra essere umano e ambiente.
Ma è anche una Chiesa che non parla più all’anima, allo spirito e all’intelletto, accontentandosi di parlare alle coscienze: una grande agenzia moralista e buonista che purtroppo instilla in noi anche il sospetto che essa sia affannosamente in cerca di consenso. Magari anche per sostenere materialmente il peso immenso della sua struttura materiale, economica, burocratica, politica.
Questo secolo e quello precedente hanno portato sul proscenio della storia figure papali di straordinario vigore spirituale e intellettuale che, pur rendendosi conto del drammatico confronto tra spiritualità cristiana e mondo profano, e lottando per non lasciar travolgere il cattolicesimo dal materialismo e dal potere, e pur mettendo in atto forti azioni di rafforzamento politico della Chiesa, hanno però sempre tenuta alta la bandiera dello spirito.
Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI sono state figure per molti versi gigantesche. Ognuna di esse -pur tra luci e ombre- si è stagliata nettissima nel tormentato panorama del mondo contemporaneo e della Chiesa, chi maggiormente sul fronte dello spirito chi su quello del confronto mondano, tutti però con una loro forza indomita: la disperata lotta contro la barbarie bellica di Papa Pacelli, la volontà riformatrice di Angelo Roncalli, la tormentata ricerca dell’identità cristiana di Giovan Battista Montini, la lotta contro il totalitarismo di Karol Wojtyla, la riaffermazione della ragione cristiana contro il relativismo di Joseph Ratzinger.
Tutti papi con una precisa connotazione spirituale da offrire e, talvolta, contrapporre al mondo contemporaneo.
E poi è giunto papa Bergoglio, di cui ancora oggi cerchiamo di individuare quale sia il tratto caratteristico.
“E’ pur vero”, scrive Rossa, “che dopo la svolta antropologica non si deve più dire Dio ma uomo e essere Francesco passa attraverso l’essere Bergoglio”. Anche questo verissimo. Ma la svolta antropologica in cui il papa argentino si è perfettamente inserito, quasi come se quella svolta non attendesse altro che il suo vero profeta, è veramente ciò di cui la Chiesa -ma anche l’uomo contemporaneo- hanno bisogno? Ed è bene che Francesco, figura teoricamente iconica e carismatica, possa essere solo Bergoglio, uomo dalle molte contraddizioni e di qualche limitatezza? La Chiesa non ha bisogno di qualcosa di più?
La sua ansia di apparire normale suona talvolta patetica. Perché? Ma è semplice: perché un papa non può essere normale. Se scegli una guida spirituale, o anche solo morale, ti affidi al tuo vicino di pianerottolo o a una persona straordinaria?
“E’ questa normalità che lo rende un leader morale globale”, ci dice Rossa, ma su questa affermazione si può discutere. La “normalità” di un papa può essere un efficace strumento di comunicazione mediatica, un atteggiamento utilissimo per avvicinare menti e coscienze, per diventare un “leader morale globale” secondo le mondanissime regole degli spin doctors contemporanei. Ma, ci chiediamo, essere un leader morale è lo stesso che essere un leader spirituale? O c’è una grande differenza di livello?
Chissà se Bergoglio si chiede perché da noi tanti cattolici si stanno orientando verso le chiese ortodosse, verso la loro profonda spiritualità tradizionale, la loro sontuosa liturgia, il loro distacco dalla storia e il loro sguardo teso verso l’ineffabile. Chissà se si chiede come mai in Sudamerica, da sempre uno dei grandi serbatoi del cattolicesimo, molti fedeli transitano nelle file dei pentecostali, attratti dalla loro spiritualità un po’ anarchica ma profonda, primordiale, carismatica.
Sarà perché, in fondo, non hanno tanto desiderio di normalità religiosa?
O perché non guardano Fazio?
Elio Ambrogio – Editorialista