Una ricorrenza che non deve esser di parte e che guardi al futuro
Siamo arrivati dunque, faticosamente, al 2 di giugno, festa della Repubblica.
Dopo le feste “de sinistra”, il 25 aprile e il 1° maggio, monopolizzate dai bella ciao d’Italia, vediamo quel che succederà con l’ultima celebrazione repubblicana in cui, si spera, potremo tutti quanti riunirci attorno a una data comune, condivisa, italiana, pacificamente festeggiata.
Sarà così? Lo sapremo oggi.
Per adesso constatiamo come finora la sinistra abbia dato fondo alla sua bulimia celebrativa sequestrando ogni occasione ufficiale per dimostrare a se stessa e agli italiani quanto la sua parte politica sia forte, bella, eticamente superiore.
Non c’è momento della nostra vita collettiva in cui essa rinunci a esibirci i suoi principi che presume ormai comuni, semplicemente, a tutta la civiltà: antifascismo, democraticismo, inclusività, libertarismo, antirazzismo, antiomofobismo, europeismo, atlantismo eccetera eccetera.
Il tutto supportato da migliaia di attivisti in piazza, con gran sventolio di bandiere, di slogan, di cartelli e cartelloni, di pupazzi multicolori eretti o rovesciati, secondo le posizioni politiche, con gran supporto di cori, musiche, musicanti, teatranti, nani e ballerine.
E’ la sinistra immaginifica che trasforma le idee in coreografia, le parole in suoni, i pensieri in pirotecnia e l’ideologia in pioggia di coriandoli, sperando di far accettare la sua politica alle masse col supporto della spettacolarità.
Una sinistra tutta chiusa nella civiltà dell’immagine, quella civiltà che in passato criticava e osteggiava in quanto frutto della falsa coscienza capitalista, della cattiva maestra televisione, della perfida suggestione consumista, dell’edonismo berlusconiano.
Oggi invece ne è pienamente impregnata, prigioniera, succube.
Basta vedere come la televisione “meloniana”, che invece è ancora pienamente nelle mani dell’intellettualità politicamente corretta, cioè di sinistra, ci propone ogni mattina, ogni pomeriggio, ogni sera la sua mitologia perbenista e ben pettinata fatta di buonismo e bigottismo progressista, per tacere delle televisioni “alternative” di Mediaset, di Cairo, di Warner Bros e Discovery, tutte fortemente inclinate nella stessa direzione.
E quindi, in questo clima di avanspettacolo progressista, non appare strano che le piazze diventino televisive e le televisioni seguano le suggestioni di piazza in un unico caleidoscopio autocelebrativo all’insegna della nuova civiltà progressista, sinistrosa, liberal, inclusiva e soprattutto -mi raccomando- antifascista, qualunque cosa quest’aggettivo significhi.
Ecco, il 2 giugno vorremmo veramente che questo carnevale fosse messo da parte.
Non tanto perché il 25 aprile non sia una data significativa nell’ideologia repubblicana, nonostante lo stravolgimento concettuale e storico che l’ha avvilita, o perché il 1° maggio non sia un momento di sincera esaltazione del lavoro umano, unico e grande strumento di progresso civile, ma soprattutto perché il 2 giugno è la vera data di inizio della nostra civiltà nazionale dopo la parentesi illiberale del fascismo e gli orrori della seconda guerra mondiale, una tragedia quest’ultima che molti oggi -in Italia ma soprattutto in Europa e oltre Atlantico- sembrano follemente voler riproporre.
Vorremmo invece che questa data fosse celebrata con la compostezza e la solennità che si debbono riservare ai momenti sacrali di quella che potremmo chiamare “religione nazionale”, una religione forse vicina a quel sovranismo che tanto nausea la sinistra ma che ancora seduce tanta gente semplice come noi, gente che ancora riesce a commuoversi di fronte al tricolore o all’inno di Mameli.
Vorremmo soprattutto che, per una volta, le Schlein, i Conte, i Landini, i Bonelli, i Fratoianni e tanta altra fauna progressista rinunciassero a portare in piazza i loro uomini e le loro donne per riproporci la litania antifascista e il tracollo delle libertà nazionali.
Ma soprattutto vorremmo che ci fosse risparmiata la narrazione di una Costituzione stravolta da riforme che la Costituzione stessa, nel suo articolo 138, ammette come assolutamente possibili e, forse, anche auspicabili quando una nazione e un popolo non sono più quelli di un tempo. A meno che non si consideri quella costituzione come un totem o un obelisco primordiali.
La Repubblica e la Costituzione nate dalle scelte che gli italiani fecero il 2 giugno del 46 hanno retto la nostra società fino ad oggi, e l’hanno retta in modo giusto e vigoroso, e sono state condivise dalla grande maggioranza della nostra gente, indipendentemente dal ruolo che ricopriva -popolare, borghese, elitario- e hanno portato una nazione per molti versi periferica sul palcoscenico civile ed economico dell’occidente.
Ecco perché quella Repubblica e quella Costituzione, nate in quel lontano 2 giugno 1946, oggi vanno celebrate come un meraviglioso strumento che ha fatto dei nostri avi, dei nostri padri, e infine di noi stessi i protagonisti di un’era di benessere, di progresso e di civiltà. E senza che alcuni vogliano appropriarsene politicamente, senza farne una scelta di parte, senza usarle come “fantocci polemici” -per riproporre una antica ed efficace espressione di Luigi Einaudi, uno dei padri di quella costruzione politica- ma soprattutto senza farne uno strumento ideologico per contrastare il presente e i politici che lo amministrano e lo vogliono migliorare.
Una Repubblica e una Costituzione, cioè, che non siano la mummia del passato ma che sappiano guardare anche a un futuro infinitamente diverso da quello che le ha generate, e forse anche migliore.
Civico20News
Elio Ambrogio
Editorialista
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