Tra le proposte balzane delle opposizioni e la difesa d’ufficio del governo, urge “costruire il rapporto tra Stato e cittadino”
Come ogni anno il Governo, tramite il ministro dell’Economia e Finanze, affronta la tappa più significativa del proprio mandato: la predisposizione annuale della Legge di bilancio che contiene la temuta “Manovra finanziaria”, quest’anno prevista per il 2025, che, in genere, contiene le novità più importanti per il futuro economico prossimo di dipendenti e pensionati.
Le scadenze tecniche che coinvolgono Parlamento e UE si snodano da qui sino a fine anno, ma le previsioni di copertura, con la ricaduta sull’estensione della tassazione tra frasi sibilline del ministro Giorgetti e la voce suadente di Giorgia Meloni che intende tranquillizzare gli italiani dovranno precedere il proseguo dell’iter. La coperta è corta e dalle scelte del governo più o meno indulgenti, discenderà ovviamente la possibilità di adozione di una incisiva politica di riforme. Altrimenti il Paese rimane stantio e si continua a vivacchiare.
La sinistra, in ordine sparso ricorre come sempre alle sparate demagogiche invocando a gran voce l’adozione della patrimoniale (che in parte già c’è), senza analizzare le voci di spesa e l’oculatezza o meno dell’azione di governo. La maggioranza, nonostante i non pochi svarioni cerca di difendersi in attesa di miracolosi ricalcoli dei conti pubblici.
In questa contesa tutta volta verso la tassazione, si perde, purtroppo di vista l’aspetto fondamentale e propedeutico relativo alla “Gestione dello Stato” alla percezione della macchina pubblica da parte del cittadino nei suoi molteplici interessi, economici, di fruitore di servizi essenziali, di imprenditore ecc.
Quanti quesiti dovrebbe porsi il presidente del Consiglio!
Quanto ci costa, quando costa agli italiani e alle aziende nazionali, il cattivo funzionamento della nostra macchina pubblica?
Nel tira e molla di un bilancio costretto a fare i conti con la crescita economica, la sostenibilità del debito pubblico ed il sostegno alle famiglie e alle imprese, varrebbe la pena di inserire tra le sue “voci” quelle che sono le nostre debolezze “strutturali” (la burocrazia, i mancati pagamenti della pubblica amministrazione, la lentezza della giustizia civile, il deficit infrastrutturale, gli sprechi nella sanità) e da lì partire per un riordino sostanziale del nostro Sistema Paese.
In proposito, oltre alla percezione diffusa, ci sono dati allarmanti.
Secondo l’Ufficio Studi della CGIA il cattivo funzionamento della nostra macchina pubblica vale almeno 225 miliardi di euro l’anno, con un’incidenza sul Pil di oltre 11 punti, un valore più che doppio dell’evasione tributaria e contributiva presente in Italia (stimata attorno ai 100 miliardi di euro l’anno) ; quasi doppia della spesa sanitaria del nostro Paese (131,7 miliardi per il 2023); pari al valore aggiunto (Pil) prodotto nel 2021 da tre regioni del Nordest (Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia); di poco inferiore alle risorse che il nostro Paese dovrà spendere entro il 2026 con il Pnrr (235 miliardi).
Le lentezze e le inefficienze della nostra burocrazia (lentezze ed inefficienze – sia chiaro – non determinate esclusivamente da chi lavora in ambito pubblico, ma da una sovrabbondanza di norme, di controlli, di rimpalli amministrativi, di conflitti di competenze) non sono proprio una novità.
Il bubbone risale all’Unità d’Italia. Se ne occuparono Giolitti, il Fascismo, De Gasperi che istituì il ministero per la Riforma Burocratica, senza venire a capo di gran che. Intanto è enormemente cresciuto il ruolo dei sindacati nella pubblica amministrazione, si sono consolidate le lobby, i giardinetti dei singoli partiti e oggi la situazione sta traboccando sia sotto il profilo degli oneri a carico del bilancio dello Stato, che a causa dell’inefficienza crescente.
Nell’ultima indagine campionaria realizzata a inizio di quest’anno, l’Italia si colloca al 23esimo posto a livello europeo per la qualità offerta dai servizi pubblici. Tra i 27 paesi UE messi a confronto, solo Romania, Portogallo, Bulgaria e Grecia presentano un risultato peggiore del nostro.
Il nocciolo della questione sta soprattutto nei modelli organizzativi utilizzati dalla nostra macchina pubblica e nel numero e nell’onerosità degli adempimenti burocratici.
Non a caso la vera “liberalizzazione” che viene spesso richiesta dagli imprenditori, specie dai più piccoli, è quella delle procedure, rispetto ai tanti “passaggi” a cui sono costretti per potere lavorare, distraendo risorse ed energie dalla loro attività principale, la produzione di reddito e di occupazione. E’ questo il primo banco di prova su cui la P.A. deve misurarsi e riformarsi. Occorre perciò anche semplificare e unificare le strategie, riducendo gli adempimenti e coordinando gli interventi tra Stato ed amministrazioni locali, evitando modelli differenti e potenziali conflitti.
E poi è necessario velocizzare le procedure. Anche qui il fattore umano si coniuga con l’efficienza della macchina pubblica, troppo spesso vista e sentita come un impedimento piuttosto che come un sostegno alle esigenze del cittadino e delle aziende.
Passa da qui la vera sfida della competitività e della modernizzazione. Passa da una visione non burocratica dei rapporti tra lo Stato ed i cittadini, da una piena assunzione di responsabilità dei funzionari pubblici e dunque dal doveroso riconoscimento dei loro meriti e delle loro eventuali inefficienze. Ma passa anche, finalmente, da una nuova consapevolezza sul ruolo dello Stato e del rapporto tra Stato e cittadini, un rapporto da costruire su nuove basi, dando fiducia ai cittadini e nuova dignità (e strumenti adeguati) a quanti sono impegnati nel funzionamento della macchina pubblica.
Di questo il governo sembra essere ben consapevole. Ad inizio estate il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha posto la questione all’ordine del giorno: “Dopo il premierato, l’autonomia e la giustizia, a breve sarà la volta della burocrazia. Stiamo facendo riforme coraggiose e vogliamo continuare a farle”.
Il ministro per la Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, intervenendo alla presentazione del V Rapporto Osservatorio Burocrazia Cna, non è stato da meno: “Una burocrazia che si traduce in un eccesso di norme e adempimenti rappresenta non solo un problema da affrontare, ma un vero e proprio costo che mina la capacità imprenditoriale, rischiando di compromettere l’esercizio di attività che contribuiscono allo sviluppo dei nostri territori”,
Ci sono due scadenze che diranno molto della capacità del governo di impegnarsi con azioni concrete. Innanzitutto la sfida prioritaria del Pnrr, che impone di reingegnierizzare e digitalizzare 600 procedure entro giugno 2026.
Il governo ha semplificato oltre cento procedure in settori strategici e prioritari, come telecomunicazioni, ambiente, infrastrutture, un lavoro a cui si è affiancato il disegno di legge delega per la semplificazione dei procedimenti amministrativi in diversi settori, quali turismo, disabilità, farmaceutica. Inoltre, il decreto Pnrr ha previsto un ulteriore pacchetto di semplificazioni.
L’obiettivo, sicuramente ambizioso, è quello della digitalizzazione di altre 100 procedure da aggiungere alle 100 già semplificate, in modo da risolvere la massima quantità possibile di pratiche con un semplice accesso on line.
L’altro grande fronte è quello dei controlli sulle imprese. L’idea non è quella di diminuirli, ma di renderli più razionali ed efficaci secondo un approccio collaborativo tra la Pubblica amministrazione e il tessuto industriale, così da garantire una maggiore stabilità e certezza.
Al fondo la consapevolezza che la lotta per una burocrazia amica ed efficiente debba essere giocata costruendo un nuovo rapporto tra Stato e cittadini/imprese: sfida non facile – ne siamo ben consapevoli – ma essenziale per ridare fiducia e nuova dignità perfino alla politica (e perciò al nostro Sistema Paese) oggi sentita come lontana dal vissuto degli italiani, i quali si sentono esclusi da un’effettiva partecipazione alla vita nazionale.
Il monito e la via da seguire per il Governo, ce la indicata un gande politico ed economista.
“L’uomo liberale – scriveva Luigi Einaudi – pone la cornice, traccia i limiti dell’operare economico, l’uomo socialista indica e ordina le maniere dell’operare”. Chi avrà la volontà di seguirla?